n. 9
settembre 2009

 

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La
sapienza dello studio

di ARMANDO MATTEO

 

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Amo trascorrere le ferie estive nella casa paterna presso la mia città natale. Sono giorni di silenzio, di un sereno ritrovarmi con me stesso e di grandi letture. In quest’occasione generalmente amo pure preparare da me i pasti. Abituato a consumarli nella comunità in cui vivo a Roma o a mangiare fuori per motivi di lavoro, considero una bella possibilità quella di scegliere cosa mangiare e di poterlo anche cuocere. Di buon’ora esco a fare la spesa, ed ecco il pane, la pasta – quante forme di pasta ci sono! – il condimento, la carne, la verdura e l’immancabile frutta. E visto il caldo non mi faccio certo mancare un buon gelato. Ed è tutto un arcobaleno di colori, di fortissime sensazioni e di profumi.

Verso l’ora di pranzo, poi, eccomi ai fornelli: a mettere l’acqua a bollire, poi il sale, l’olio, a predisporre la padella per la carne, a sciacquare e preparare frutta e verdura…

E questo è uno degli appuntamenti più attesi delle mie ferie: mi si dà infatti l’occasione di riscoprire il gusto di un piatto particolare, di un sapore speciale, di un tocco singolare dato a questa o a quella pietanza. Con mia grande gioia.

Se, infatti, dal punto di vista del numero di calorie che apportano sono simili, chi potrebbe negare l’abissale differenza che esiste tra un piatto sapido ed uno scipito? E chi vorrà paragonare la deludente sorpresa di trovare alla mensa comunitaria sempre lo stesso piatto e la soddisfazione di poter gustare una più congeniale pietanza?

Certo, chiunque abbia una qualche dimestichezza con i fornelli sa quanto tutto ciò non sia semplice né scontato. Serve esperienza, un pizzico di fantasia, e desiderio di novità.

Non ci si stupisca ora se a me pare di poter riscontrare qualcosa di analogo anche nel regno dello spirito. In esso, in verità, vige pure una sorta di legge del gusto, del sapore, del tocco speciale che l’anima di ciascuno di noi è chiamata a scoprire e a perfezionare.

Il gusto dello spirito

Ebbene, sì, anche la nostra anima è chiamata a riconoscere e sviluppare una certa affinità per il sapore del mondo. In esso non tutto è identico, non tutto ha lo stesso valore, non tutto possiede un’eguale bontà. E questo vale per il mondo delle cose ed anche per quello quanto mai variegato delle persone, con cui intratteniamo relazioni.

È pertanto necessario incrementare – come nell’arte culinaria – una particolare attitudine a cogliere e a saper corrispondere alle numerose differenze che caratterizzano le altre persone e le cose di questo mondo.

E proprio a questo – ad un tale rapporto attento, signorile e dignitoso con l’altro da noi – serve la fondamentale esperienza dello studio: a sviluppare il “gusto” dello spirito, ovvero quell’arte fine di saper cogliere e rispettare il peso e il valore di ogni realtà.

Lo studio autentico, infatti, non è finalizzato ad accumulare una serie di informazioni nella nostra testa, né semplicemente a fare nostro il sapere dei libri. Lo studio serve a sentire il gusto del mondo. Serve a conoscere il mondo. Il verbo conoscere, a prima vista, pare un semplice sinonimo del verbo studiare, ma non è così. Per scoprirlo lasciamoci aiutare dalla sua illuminante versione francese: connaissance – che deriva dal verbo connaître. Quest’ultimo tradotto letteralmente suonerebbe più o meno come conascere. Conoscere è dunque conascere. La lingua francese invita a scoprire la profonda parentela che si dà tra i due verbi e i relativi sostantivi, nascondendo nel seno del verbo connaître (e della parola connaissance) il verbo che dice “venire alla luce”. Conoscere è dunque come nascere un’altra volta, con una nuova coscienza, nascere con un nuovo sguardo sulla vita.

L’autentica conoscenza è, insomma, l’instaurarsi di una familiarità/parentela con il mondo. Per questo, l’esperienza dello studio non va considerata come una parte o fase della nostra esistenza, quella legata al periodo della formazione iniziale. No, lo studio è – dovrebbe essere – parte costante del nostro cammino incontro al mondo, del nostro diventarne sempre più intimi, sempre più esperti. E cosa accade a colui/colei che si lascia col-legare dallo studio con la realtà?

Il tocco della sapienza

Lo studio, in verità, possiede la straordinaria forza di plasmare la nostra esistenza instradandola sulla via della sapienza…

- di quella sapienza che si palesa nel distinguere ed apprezzare l’alterità, consapevoli che non ci sono mai due gesti umani identici;

- di quella sapienza che non disprezza le divergenze e non nutre alcun culto per un mondo tutto bianco o tutto nero, o per una convergenza ad ogni costo delle opinioni dissimili;

- di quella sapienza che non si lascia illudere dai luoghi comuni che “siamo tutti uguali” e che “ogni mondo è paese”, non trascurando mai il fatto che l’esistenza si sorregge su tante piccole differenze che debbono essere onorate perciò inseguendo l’ambivalenza di ogni fenomeno;

- di quella sapienza che nasce dall’impegno quotidiano a mantenere il nostro sguardo sempre pulito, limpido, eliminando tutto ciò che potrebbe offuscarlo, perché molta dell’infelicità umana nasce proprio dal guardare con un occhio malato, dal guardare “di mal occhio” – è questa l’etimologia della parola “invidia” – gli altri e ciò che essi realizzano. Colui che è sapiente, invece, cura il suo sguardo, non invidiando più: si sforza di vedere bene, di leggere bene, di descrivere bene, ed infine di dire bene ciò che gli capita, i suoi problemi, le sue potenzialità, i suoi desideri, lottando con tutte le forze contro l’onnipotente tentazione dell’approssimazione. In tal modo è in grado di dire bene e, alla fine, anche di bene dire la sua esistenza e la vita che lo circonda. Spesso al contrario la maggior parte di noi dice male di sé e degli altri, perché vede male (invidia), e perciò (si) maledice.

Ospitare per ospitarsi

Da ultimo, lo studio ci introduce in quella sapienza che si realizza come ospitalità, apertura di cuore e di mente. Colui che è sapiente, infatti, impara a conoscere la grandezza della vita, le sue incommensurabili potenzialità (non siamo nati in fondo dall’unione di due piccolissime cellule?), e la sua altrettanto inerme fragilità (non potrebbe un piccolo virus non visibile a occhio nudo, ucciderci in un attimo?), e proprio in ciò intravede sempre gli interstizi di energia e di recupero presenti anche nelle situazioni più disperate. Per questo abbraccia la vita, la ama, convinto che a nessuno debba essere negata la possibilità di migliorarsi. Soprattutto a se stessi. Sa accogliere ed accogliersi. Ospitare ed ospitarsi. E questa è la cosa più difficile della vita: volersi bene, che è tutt’altra cosa dell’essere semplicemente attaccati a se stessi.

In tutto ciò emerge anche la forza sempre nuova dell’ironia, che è il lato più affascinante della sapienza. Il sapiente sa prender(si) in giro. Egli, infatti, sa “prendere il giro” di se stesso e degli altri, perché sa misurare ciò che è e ciò che può fare. Ha imparato a guardarsi dall’alto (non è Dio) e a riconoscere pure la verità positiva del proprio essere (non è neppure un nulla): sa dunque degli errori e dei tentativi che accompagnano ogni esistenza. Per questo con un sorriso si scrolla di dosso ogni tentazione di disperazione e riprende il cammino.

Imparare il gusto

Interrogato sulle caratteristiche che avrebbe dovuto possedere un buon religioso, il famoso generale dei gesuiti padre Arrupe rispose dicendo che questi avrebbe dovuto conoscere una lingua straniera, avrebbe dovuto saper nuotare ed infine – cosa alquanto singolare – avrebbe dovuto saper mangiare.

Fuor di metafora, un bravo religioso – e aggiungiamo noi ogni uomo e ogni donna che desiderano corrispondere in modo pieno all’avventura della vita – dovrebbe dunque essere in grado di farsi prossimo di mondi spirituali differenti e di muoversi in ambienti estranei al proprio, come quello dell’acqua. Infine dovrebbe pure coltivare il “gusto” – del palato e dello spirito – quale capacità di cogliere le differenze e di apprezzare la qualità. Per sé e per gli altri.

Armando Matteo
Assistente ecclesiastico nazionale della FUCI
c/o Casa Assistenti
Via F. Marchetta Selvaggiani, 22 - 00165 Roma

 

 

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