n. 3
marzo 2010

 

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Le religiose sono italiane a parte?

di GRAZIA LOPARCO

 

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Nel 2011 si celebra il 150° dell’Unità d’Italia. Se ne parla da mesi.

È legittimo che gli istituti religiosi celebrino l’evento? O sono un mondo a parte, come si è creduto in diversi momenti? All’epoca in cui Chiesa e Stato sembravano contrapporsi sulla modernità, sulla secolarizzazione, specie dopo il 1870, aumentarono i religiosi e ancor più le religiose dedite alla vita attiva. La Chiesa fu emarginata dalle scelte politiche, subì la separazione, e di fatto si avvicinò ancora di più ai poveri, alle donne, a quanti non potevano beneficiare delle promesse del progresso. All’inizio del Novecento gli ispettori e le ispettrici governative che visitavano i collegi e gli educandati religiosi diffidavano dell’istruzione lì impartita, credendola antipatriottica.

I convitti per operaie, decisivi per lo sviluppo industriale, raccoglievano migliaia di ragazze sottratte all’educazione familiare e al controllo sociale che le preservava dalle “cadute”, fonte di fatale emarginazione. Le ispezioni della Camera del lavoro riconoscevano un inequivocabile vantaggio sotto il profilo igienico, sanitario, morale, pur temendo che le religiose, stipendiate dai proprietari degli stabilimenti, costituissero una remora nelle rivendicazioni sindacali.

Quando c’era già la legge dell’istruzione scolastica obbligatoria, ma mancavano le maestre e le aule, specie nelle regioni più povere; quando c’erano schiere di ragazzi e ragazze analfabete che mai si sarebbero seduti dietro banchi a misura di bambini, le congregazioni religiose operarono negli interstizi informali delle vecchie e nuove povertà, senza opporsi al progresso, anzi agevolando l’inserimento delle fasce popolari nell’evoluzione socio-economica in atto, secondo i contesti.

Come reti di integrazione

È necessario indagare su vasta scala in quale modo gli istituti, con differenti compiti, contribuirono a “fare gli italiani”, nella varietà dei periodi della storia nazionale. Tra Otto e Novecento si trattava di unire con valori, lingua, modelli culturali, aree e regioni tanto distanti da apparire “la Patagonia d’Italia”. Cosa comunicarono tante religiose e religiosi trasferiti dal Piemonte e dalla Lombardia alla Sicilia, alle regioni meridionali e centrali? La maggioranza delle famiglie con cui operavano non leggeva i giornali e viveva nell’isolamento. Nella normalità della vita quotidiana si rapportarono con persone che fungevano da mediatori culturali, tessevano reti di unità nazionale.

Il graduale incremento delle vocazioni locali e lo scambio di personale all’interno degli istituti, l’assunzione di responsabilità di governo e nella formazione da parte di religiosi e religiose provenienti da regioni diverse da quelle in cui era sorta una congregazione; le traiettorie di diffusione delle fondazioni nelle diverse regioni, rappresentano un oggetto di indagine significativo per conoscere l’Italia reale. Non è meno interessante studiare la successiva fondazione di congregazioni religiose nel sud e nelle isole, con diffusione più ampia o a prevalenza locale. E lo scambio internazionale dovuto alle aperture missionarie.

La grande emigrazione degli italiani, prima delle regioni settentrionali e poi delle meridionali e insulari, suscitò nelle congregazioni l’impegno di mettersi al loro fianco, sia nei porti di partenza che nei luoghi di arrivo, per l’assistenza sociale, culturale e religiosa. In moltissime sedi si coltivò una “ben intesa” italianità, cercando di rendere coscienti di un’identità al di là della frammentazione dei dialetti, mentre si aiutava la gente a inserirsi nel nuovo contesto con dignità e onestà. Purtroppo nulla di tutto questo appare nel pur pregevole Museo Nazionale dell’Emigrazione italiana, allestito al Vittoriano di Roma (Piazza Venezia). Molto documentato sui ristretti reali interventi statali, sulla stampa, su alcune associazioni culturali, riserva pochissimi riferimenti a Scalabrini e alla Cabrini,

che insieme a molti altri istituti diedero un aiuto decisivo agli emigranti, dai porti di partenza (Genova, Napoli…), ai luoghi di arrivo. Non tenerne conto è una ricostruzione storica oggettivamente distorta. Invece di lamentarsi di pregiudiziali selezioni o di scarso impegno di informazione,occorre documentare e far conoscere al pubblico interessato, uscendo dai soli circuiti comunicativi interni agli istituti.

In prima fila nelle emergenze

Durante la prima guerra mondiale molte case religiose furono requisite, trasformate in ospedali militari. Non solo le religiose dedite all’assistenza dei malati, ma anche molte dedite all’educazione, si convertirono in infermiere, dando un contributo attivo alle necessità della patria. Laboratori, raccolta e confezione di indumenti senza numero da mandare al fronte, l’accoglienza di orfani e figli dei richiamati in genere non furono vissuti come ineluttabile necessità, ma con slancio convinto di partecipazione alla vita nazionale.

Sarebbe stato ancora possibile denunciare l’antipatriottismo dei religiosi?  La seconda guerra mondiale ebbe altre esigenze, con migliaia di storie personali e comunitarie coinvolte nella carità, nell’ospitalità rischiosa offerta a ebrei, renitenti alla leva, perseguitati politici, sfollati, orfani. Fu una forma di resistenza che si avvalse degli strumenti tipici di chi riconosceva un fratello in ogni persona, tanto più se ingiustamente perseguitata.

Nelle emergenze delle calamità naturali i religiosi e le religiose furono spesso in prima fila nei soccorsi, dal terremoto di Messina a quello della Marsica, da quello della Basilicata a quello del Friuli. Fino ai più recenti appelli dell’emigrazione in senso inverso, dalle coste albanesi e nordafricane verso le aree e le città in cui si annidano i disagi dell’esclusione e le istanze di integrazione.

Ma la vita nazionale è fatta soprattutto di vita quotidiana. Attende di essere esplorata la rete di diffusione delle case religiose e delle opere nelle città e nelle aree periferiche; negli ospedali, nelle attività caritative e assistenziali, nelle scuole, nelle attività associative, del tempo libero, in tempi di democrazia e in tempi di dittatura.

Da molte istituzioni pubbliche i religiosi e le religiose hanno dovuto ritirarsi o sono stati estromessi negli ultimi decenni, eppure sarebbe avvilente dimenticare il patrimonio di valori umani, civili, culturali e religiosi da essi coltivati e trasmessi, nella visione di un umanesimo cristiano declinato nelle scelte della vita quotidiana. Non meno hanno contribuito a sviluppare valori economici con il loro lavoro poco retribuito, la formazione al lavoro delle giovani generazioni, non di rado sottraendole alle spire della delinquenza e dell’emarginazione. Senza dimenticare, certo, le lentezze, le arretratezze, le chiusure, gli opportunismi.

Laboratori di identità culturale

Posto che nella società globalizzata, nell’Italia plurale in cui viviamo, sia necessario riconoscere i valori identitari di una società, la grammatica della sua cultura, è indispensabile indagare quale apporto specifico abbiano dato gli istituti religiosi con una fede tradotta in opere molto concrete, capillari nel territorio, diversificate, per diversi decenni in crescita, senza temere di affondare oltre Eboli. Sia chiaro, è altrettanto necessario scandagliare se gli istituti hanno dato un apporto efficace per contrastare mali italiani radicati, come la mafia, l’illegalità, lo sfruttamento delle persone e dell’ambiente.

Solo con una ricostruzione storica documentata sarà convincente l’affermazione che la storia dell’educazione e dell’assistenza in Italia non si può scrivere onestamente senza tener presente l’apporto di moltissimi religiosi e religiose. Ma si troveranno persone disponibili a una ricerca su questi temi, che riguardano il passato ma si affacciano sul presente, non senza inquietare le coscienze e le menti?

C’è da augurarsi che la domanda non cada nel vuoto, espressione di una rinuncia rassegnata a rendersi presenti oggi anche in questa forma di partecipazione alla vita nazionale. Il Coordinamento Storici Religiosi (www.storicireligiosi.it) intende non mancare all’appuntamento. Attanagliati dalle urgenze è difficile per le Congregazioni investire in questo senso, eppure la lungimiranza della gratuità non è oggi meno impellente. Un altro modo non retorico per non essere a parte rispetto alla vita del proprio Paese.

Grazia Loparco fma
Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium»
Via Cremolino 141 - 00166 Roma

 

 

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