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n.3
maggio/giugno 2015

 

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Vita religiosa
Il suo nome è testimonianza

 
di
GERMANO MARANI

 

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Nei documenti degli ultimi vent'anni la Chiesa ha sottolineato, parlando della vita consacrata, i due aspetti della comunione e della missione della comunità religiosa. Non a caso, oggi la gente fatica a credere che sia possibile vivere insieme, lavorare insieme. La testimonianza che la vita insieme non solo è possibile, ma è bella, diventa allora, oggi più che mai, la prima missione a cui i religiosi sono chiamati. L'identità di comunione e di missione, tra l'altro, appartiene agli inizi della vita religiosa, quando Antonio comincia ad essere seguito nell'eremitismo dai suoi discepoli e quando, con Pacomio, nasce la vita cenobitica.

La Trinità mistero di vita e di comunione

Il primo e più alto modello della vita di comunione ci è dato dalla Santissima Trinità.

La Trinità è talmente piena d'amore, che vita, amore, comunione, missione, sono la stessa cosa nella santità di Dio; e, dicono i Padri, per sovrabbondanza d'amore, vuole far partecipe di questa ricchezza immensa, infinita anche l'uomo. Allora comunione e missione sono la stessa identica realtà: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Per comprendere questo mistero di amore, fermiamoci ad analizzare alcune parti dell'icona della Trinità dipinta da Andrej Rublëv, monaco canonizzato dalla Chiesa ortodossa russa nel 2000. Egli ha lottato tutta la vita per non rappresentare la terribilità del giudizio, ma la fiducia nella misericordia di Dio. La grande divergenza tra lui e il suo maestro, Teofane il greco, era proprio su come Dio si comporta con gli uomini che lo dimenticano. Se Teofane era molto pessimista nei confronti degli uomini, Andrej Rublëv diceva che Dio va incontro all'uomo, che non è un castigatore. E dopo approfondita ricerca e grande lotta interiore, egli arriva a dipingere l'icona della Trinità che ora contempliamo. Sappiamo che la Trinità non si può dipingere. Anche Rublëv si rifà a un simbolo: la visita dei tre angeli ad Abramo, i quali, secondo il modo orientale, vengono accolti sotto la quercia di Mamre da Abramo e Sara (cf. Gen 18). I tre angeli sono la Trinità che visita l'uomo. Questa visita della Trinità, scelta da Rublëv come simbolo, fa passare dalla non-fede a una fede piena, attraverso il fatto che veramente si realizza la promessa di Dio. Notiamo che lo sfondo dell'icona è d'oro: non c'è niente nell'icona che esca fuori dall'oro, l'oro è l'unica cosa che tiene dentro tutto. L'oro significa la santità, dunque la fedeltà di Dio, che biblicamente è un aspetto maschile (hesed) della stessa misericordia di Dio, femminile (rahamim). Significa che Dio non ti lascia mai, che non c'è niente della storia dell'uomo che possa andare fuori dalla fedeltà e dalla misericordia di Dio. La nostra storia è già tutta dentro di Lui.

Per una cultura trinitaria

Se vogliamo fondare una teologia spirituale della comunione e della missione, non possiamo che partire da qui, dalla Santissima Trinità. Qui è il segreto di ogni feconda comunione, di ogni feconda sinodalità, di ogni feconda testimonianza, nello Spirito Santo, di ogni feconda missionarietà. Le comunità cristiane e in particolar modo le comunità religiose sono chiamate a vivere e a riflettere come una luce, una piccola luce la comunione d'amore trinitaria. Essa corrisponde all'aspirazione più profonda iscritta da sempre nel cuore dell'uomo: vivere in comunione con Dio e con il prossimo e in armonia con il cosmo e la natura. L'uomo non può in nessun modo pensare se stesso, il suo futuro, al di fuori della Santissima Trinità.

L'eterno «disegno d'amore» (Ef 1,5) della Trinità attende e suscita una risposta d'amore. E quel mistero che unisce le Tre divine Persone desidera essere trasportato e vissuto sulla terra, nella santa Chiesa: «perché siano una sola cosa » (Gv 17,11). Senza sconti e riduzioni umane. I religiosi, per la loro stessa vita, sono in prima linea nella ricerca di una vera e propria intelligenza e cultura trinitaria nei confronti delle persone, degli eventi, delle cose. Non possiamo limitarci e attardarci troppo a vivere nel nostro "piccolo mondo antico", disperdere tempo ed energie in cose del passato, attardarci a sciogliere i grovigli delle nostre piccole situazioni, mentre la storia dell'uomo va avanti.

Svegliare il mondo

I nostri santi fondatori sono un messaggio del Cielo, una parola del Padre per farci capire un po' di più del suo Disegno d'amore, una risposta di Dio ai problemi che attanagliano l'uomo. E a noi la Chiesa chiede di continuare a essere, sulla loro scia, di «svegliare il mondo», non rinunciando mai alla profezia, ci ripete papa Francesco anche nella recente Lettera apostolica a tutti i consacrati. In un certo modo il frutto della comunione con Dio e fra i credenti che come dice San Giovanni Crisostomo è anche il dono della celebrazione  ai Santi Misteri di Cristo e della partecipazione ad essa, è già una escatologia pre-partecipata (cf Padre T. Spidlik). Già stiamo partecipando e vivendo del frutto della comunione la cui pienezza è escatologica.

Non bisogna dimenticare che lì dove è il dono dello Spirito Santo, si insinua più subdola la tentazione. Il nemico, che è per primo una relazione mancata, farà di tutto per disturbare e infrangere le relazioni, per fomentare divisioni, che cercano di rendere nulla la croce di Cristo. In un mondo dove prevalgono autoaffermazione, antagonismo, efficienza, immagine, successo, invidia, vanagloria, dobbiamo più che mai testimoniare che l'uomo, la donna, si realizza solo nella partecipazione all'amore stesso della Trinità. Un amore che sa superare le divisioni, dare spazio all'altro, costruire relazioni, suscitare strumenti flessibili di comunione, nella semplicità del quotidiano.

La vita fraterna nel segno della Trinità

È del 1996 l'esortazione apostolica post-sinodale di san Giovanni Paolo II Vita consecrata, che magistralmente esprime le dimensioni cristologica ed ecclesiale della vita religiosa in una prospettiva trinitaria. Trattando più specificatamente della fraternità, l'esortazione parla della vita fraterna «come spazio umano abitato dalla Trinità, che estende così nella storia i doni della comunione propri delle tre Persone divine», come «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto». Ci è chiesto di lasciarci condurre e attrarre nelle profondità della Santissima Trinità, per testimoniare profondità di carità e di servizio, di comunione e di relazione, di riconoscimento dell'altro; profondità di perdono, di far passare ogni cosa dalla morte alla vita, di stupore e di speranza nei confronti del fratello. Se le altezze della Trinità sono ancora troppo alte da raggiungere nella preghiera e nella contemplazione cominciano dal perdono fraterno, la preghiera per il nemico e scopriremo lentamente anche la il mistero della Trinità che ci avvolge, origine e fonte di tutto questo.

Le persone consacrate sono chiamate a essere «esperte di comunione » e a «praticarne la spiritualità » (VC 46): un richiamo a quella «spiritualità della comunione », sinodalità, camminare insieme, syn-odos, cui più volte ha invitato san Giovanni Paolo II e che nella Lettera a tutti i consacrati riprende anche papa Francesco: Mi aspetto che la "spiritualità della comunione", indicata da san Giovanni Paolo II, diventi realtà e che voi siate in prima linea nel cogliere "la grande sfida che ci sta davanti" in questo nuovo millennio: "fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione". Una comunione che per essere piena dev'essere insieme visibile e invisibile. Occorre crescere in quella che è la visibilità della comunione, data dalla carità e dallo Spirito Santo; è una grazia di Dio da chiedere continuamente alla Madre di Dio e ai santi. Ed è questa comunione sempre maggiormente visibile che in qualche modo rende la salvezza di Cristo percepibile, qui, ora ed anche in terre lontane.

La comunione è ricca di frutti

La comunione è feconda di frutti enormi nella Chiesa intera. «Il monaco è sempre essenzialmente l'uomo della comunione», afferma l'Orientale lumen (14). A questo Giovanni Paolo II aggiunge che la comunione non avviene senza conversione, e non c'è conversione senza una conversione pastorale, aggiungerebbe papa Francesco. Non c'è comunione,  non c'è sinodalità, senza conversione, non c'è conversione senza testimonianza e missione. Questa è la strada della vera umanizzazio ne e del crescere in umanità. Questa crescita nell'essere esperti dell'umano (Paolo VI), attira gli altri, parla agli altri, ne sia un esempio Papa Francesco che confessa che gli piacerebbe molto uscire con qualche amico a mangiare la pizza, ma non può. Questa semplice confessione molto umana ma di un uomo di Dio, attira la simpatia di molti.

Uno sguardo sul mondo

Il monaco, inoltre, ha uno sguardo particolare sul mondo, sulla città in cui vive e sugli uomini e le donne che vivono nella stessa città. Al monaco non bastano le strade del mondo per ritrovare nei suoi fratelli l'immagine, magari appena tracciata, incompleta, nascosta o persino deturpata, ma sempre immagine vera e autentica del Signore Gesù, che reclama di essere portata a compimento.

«Anch'io sono come te», è l'improvvisa quanto autentica, necessaria esclamazione del giovane monaco Alëša, che nel romanzo di Dostoevskij sorprende il fratello Dmitrij Karamazov, intemperante e passionale; così vicina alla pura e trasparente consapevolezza con cui santa Teresa di Gesù Bambino, tanto cara al padre Mastiliak, il cui processo di beatificazione si è appena aperto, chiede perdono per ogni suo fratello, protestando di non volersi alzare dalla «tavola colma di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori» (Scritto autobiografico C). Chi respira dentro il Disegno del Padre, come in un immenso oceano in cui ogni goccia trova casa, non si turba più del proprio peccato e tantomeno di quello degli altri; ma ne soffre e se ne fa carico, sapendo, per usare ancora le parole di Dostoevskij, che «non c'è che un solo mezzo per salvarsi: rendersi responsabili di tutti i peccati umani […], sinceramente responsabili di tutto e per tutti». «È indispensabile trovare la strada che conduce verso l'altro uomo».

Senza la responsabilità spirituale attiva, scelta, senza la disponibilità al sacrificio a volte anche cercato, non vi è esistenza vissuta nell'amore e non vi è salvezza per la società che vive nella città e nelle campagne.

Vera e falsa comunione

A volte un surplus di carità, vissuto lì dove il Signore ci ha posto, farebbe avanzare la nostra vita spirituale, la vita comunitaria e la vita dell'intero Corpo, verso il Regno di Dio, pienamente, in un cammino insieme, sinodale e comunitario. La carità è croce, ma insieme sempre anche profonda letizia. È la gioia dei piccoli del Regno, che ci è dato di sperimentare fin d'ora, se ci crediamo. Oggi purtroppo sta sparendo questa cultura dell'essere responsabili per l'altro, dell'essere compagni di strada nel cammino verso il Regno e il rischio si insinua anche nelle nostre comunità religiose, quando si dimentica che amare è essere responsabili e portare i pesi gli uni degli altri, darsi da fare perché la Chiesa sia sempre più bella e senza macchia. Come nel Disegno divino Dio si è manifestato all'uomo massimamente nella Pasqua del Figlio, che sulla croce ha sperimentato il culmine dell'abbandono per donare ogni amore e tutto l'amore, così è nelle continue morti e risurrezioni di una vita gomito a gomito che nasce la comunione e si costruisce l'armonia e la bellezza del cammino insieme e sinodale. Questo è già una piccola luce di testimonianza monastica religiosa. Intorno a sé e nel mondo intero. Non nella sterile osservanza di una legge o in una moralistica, pur necessaria coerenza ai valori professati. Certo, esiste anche la falsa comunione, come esiste la falsa spiritualità, quella che si nutre di abbagli spirituali.

Significativo è l'esempio di san Simeone di Tessalonica, detto il Nuovo Teologo, che ci ribadisce che la fede cristiana è anzitutto un'esperienza. Egli, dedicandosi alla vita spirituale, ebbe una visione di luce: vide la sua stanza tutta illuminata. Non vi dette peso. In seguito, ebbe una nuova visione di luce e gli comparve Cristo. Ma anche in questo caso fu preso dai dubbi. Infine, ebbe un forte sentimento della propria piccolezza e nello stesso tempo si accorse di amare profondamente tutti come fratelli, anche quanti lo perseguitavano e dicevano male di lui, senza sua colpa. Lo esprime con poche parole: «Povero e amante dei fratelli, pt chòs philádelphos». Solo a quel punto, si convinse che davvero si trattava di Cristo e che l'amore divino aveva invaso il suo cuore.

Germano Marani sj.

Docente

Pontifico Istituto Orientale

Pontificia Università Gregoriana

g.marani@unigre.it

 

 

 

 

 

 
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