n. 4
aprile 2002

 

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Seguire Gesù
In prospettiva della missione

di Fernanda Barbiero

 

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"Stare con Gesù" per ridestarsi alla missione

Nel numero precedente di Consacrazione e Servizio concludevo dicendo che è giunto il tempo di riqualificarsi nella fede. Ma quale fede? Non certamente una fede generica, bensì la fides catholica quale, in modo sorprendente e gratuito, si riconosce in Gesù Cristo e in Lui delinea tutto il suo volto: l’abbandono al Padre cui diventa dolce obbedire. Non una fede che soggettivizza se stessa fino a sfigurarsi in una dimensione semplicemente umana. La radicalità della fede in Cristo, per sua natura, è realtà che prende forma, cioè occupa lo spazio stesso della persona, diventa il proprium personale. In questo senso la fede sfocia nella sequela, nella forma radicale del seguire Cristo Gesù. Essa non si comprende semplicemente nel far propri alcuni atteggiamenti o nell’imitare lo stile di vita di Gesù, nell’accogliere i valori da Lui proposti, nell’aderire alle verità che Egli ha insegnato. Tutto intero l’esistere personale viene coinvolto. Appropriarsi della cattolicità del cammino della fede, significa diventare discepoli di Cristo, significa portare l’esistere personale nel mistero di Cristo che per lo Spirito, in rationabile obsequium al Padre, si è impegnato per l’uomo: ogni uomo e tutto l’uomo. Significa vivere l’esperienza che Paolo racconta in Galati 1,15-16:

«Colui che mi ha scelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato con la sua grazia si compiacque di rivelare in me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani».

Il Padre Dio rivela suo Figlio nel cuore del discepolo perché egli lo annunci al mondo. La missione sta al cuore della sequela, si concretizza nella stessa persona del discepolo. Si può dire che è ratio costitutiva del suo essere come lo è stato per Paolo1. La missione è un punto decisivo e irrinunciabile della sequela. Il discepolo vive di questa forza senza mai esaurirla; la missione, per il discepolo, appartiene al rapporto stesso con il suo Signore e Maestro. Per cui occorre superare la tendenza a separare lo stare con Gesù da una parte e il servizio, la missione dall’altra. Lo stare con Gesù, essere dei suoi, non lo si può isolare a un fatto personale e la missione, il servizio di carità, considerarlo un fatto irriducibile, esteriore ad esso. Lo stare con Gesù è nell’orizzonte della missione in sinu ecclesiae e la missione, con immediatezza e totalità, ha il suo punto di partenza nello stare con Gesù. Essa è comunione teologale e quindi comunione di fede, di speranza e di sapienza spirituale. Ha il suo punto di attrazione nel Crocifisso (Gv 8,28 e 12,32).

 

…e patire l’amore

La missione ha bisogno dell’intimità con il Signore Gesù. Essa ha una sua intrinseca dimensione contemplativa. Essa – infatti – è radicata nel profondo del mistero di Dio, scaturisce dal silenzio pieno dell’Ineffabile, dalla comunione con Colui del quale non si dice più perché solo si ama, non si cerca ma si contempla. E’ là che si comprende il valore simbolico (non allegorico) dell’amore come esperienza religiosa suprema, fulgidamente attestata dal Cantico: «Il mio amato è mio e io sono sua» (2,16). E’ là che «si rimane in Dio e Dio in noi» in una intimità tale per cui è «Cristo che vive in me» e «Dio è tutto in tutti». E’ là che la passio charitatis, l’amore folle del Crocifisso diviene radice e principio di salvezza. E’ là che l’attrazione per il Maestro, la devozione piena a Gesù passa dal «sentito dire al vedere con i propri occhi» (Gb 42,5-6). La contemplazione del Maestro non è per il discepolo un fatto emozionale, ma un evento d’amore che trasforma il discepolo. La contemplazione del Verbo di vita trasforma la vita del discepolo, ha una forte incidenza sull’essere del discepolo, ne determina l’itinerario ed è identificazione non arbitraria per la missione sempre più conforme a quella dell’Inviato dal Padre, del Verbo che

«ha risuonato nel mondo e la carne lo ha accolto prestando la prima obbedienza e offrendo la prima riposta»2.

Lo smarrimento del nostro tempo non è dunque realtà da cui fuggire o alla quale negarci, ma banco di prova di una fede davvero autentica e umana. Un cammino nel quale procedere con Cristo, che assume tutta la realtà umana, che guarda le folle e ne sente compassione, che prega per coloro che il Padre gli ha affidato.

Mediante la preghiera ciò che

«io posso o non posso fare non si misura più su me stesso e sulle mie forze ma su Cristo e sulla sua chiamata. Allora nascono i segni del Regno»3.

Questa esperienza religiosa è incontro mistico aperto a tutti, non appannaggio di alcuni privilegiati; è incontro che sbocca nell’eterno4. Il discepolo che qui e ora ha fatto esperienza della comunione con il divino sa che nulla lo potrà separare dall’amore del suo Dio. Dio è in lui e lui è in Dio e su questa base Gesù Cristo viene riscoperto quale solida roccia su cui il discepolo costruisce la propria vita. In forma tale che la fede in Lui viene a integrarsi nella persona fino a strutturare il suo stesso personale essere. Ciò significa che discepoli si diventa quando si è in grado di dare risposta vitale alla fondamentale questione posta da Cristo a Pietro a Cesarea di Filippi e in lui a ognuno che voglia dirsi suo discepolo: «Mi ami tu?». Allora seguire Gesù è impossibile senza vivere Gesù, senza vivere il Figlio. La fede nel Figlio di Dio non potrà mai essere dimensione marginale dell’esistenza; essa ha bisogno di inverarsi nell’esistere quotidiano, nell’esistere storico dei discepoli di «coloro che hanno zelo di piacere a Dio»5, che cercano Gesù per Gesù, che si propongono cioè di vivere in modo coerente e radicale il loro battesimo. Non si scappa dall’evidenza che per comprendere il discepolo occorre partire dal Maestro. Il centro da cui partire è il Maestro. Per comprendere l’uomo occorre ricorrere a Dio6. Il segreto dell’uomo non è chiuso nell’uomo stesso: non è l’uomo fondamento a se stesso. Per balbettare qualcosa sul discepolo occorre sostare presso il Maestro. Il fondamento radicale del discepolo va cercato nella densità divina della grazia, del dono di Cristo. Non consiste nel dare considerazione alle risorse umane o spirituali. Non nasce da criteri ideologici, nasce dal cuore di Dio, dalla vita di Cristo.

 

Nel vortice della santità di Dio…

Per approdare alla radicalità evangelica, occorre entrare nel cammino della santità di Dio. L’esigenza profonda della santità di Dio, della vita divina in noi connota la missione come offerta di sé, disponibilità all’altro ed è espressione della profondità del proprio essere in Cristo, cioè della propria fede. Soltanto se si assume la santità di Dio come motore della missione si può rinnovare la missione secondo le esigenze immutabili della fede e il primato della carità proclamato alto nel Vangelo (Mt 25,31-46). La missione non è qualcosa di periferico alla vita del discepolo, ma qualcosa che sta al suo centro. Essa manifesta ciò che concretamente si pensa di Dio. Essa misura la correttezza della fede in Cristo. Per porsi sul cammino della radicalità evangelica occorre dare risposta alla questione posta da Gesù al giovane che aveva molte ricchezze:

“Vuoi essere perfetto?” ossia “vuoi diventare santo?”, “vuoi seguirmi davvero?” «Sii perfetto come è perfetto il Padre tuo che è nel cielo» (Mt 5,48).

Occorre seguire l’itinerario dell’Inviato dal Padre, del Servo Crocifisso che ha preso su di sé la fatica di essere uomo che ha sentito compassione per le folle (Mt 9,36), ha avvertito un fuoco interiore che lo spingeva a donarsi, si è mescolato ai peccatori fino a essere accusato di complicità, ha pianto del pianto di una madre, vedova, che accompagnava alla tomba l’unico figlio, s’è indignato per l’ipocrisia dei capi religiosi, per l’astuzia dei politici, ha preso per mano i rifiuti della società in un gesto di compassione e di vibrante umanità, ha imparato l’obbedienza dal soffrire e il soffrire gli venne dal suo appassionarsi agli uomini, dal suo lottare per loro.

«La croce non è una sadica invenzione del Padre, è l’incontro dell’amore con l’incredibile durezza del male e del peccato»7.

Non basta un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone vicine e lontane (SrS 38). L’itinerario di Gesù, il missionario del Padre implica una precisa, costante e ferma decisione a impegnarsi per il bene dell’altro. Esso non è staccato dalla coscienza della responsabilità che ognuno ha nei confronti di tutti. Proprio su questo aspetto il discepolo è chiamato maggiormente ad agire, a lottare contro la cultura della distrazione, dell’indifferenza, smascherando tutti gli atteggiamenti di falsa prossimità che credono di giustificarsi dietro un passivo e sterile sentimento di compassione nei confronti degli altri. L’essere discepoli in senso evangelico diviene impegno per l’altro, perdersi a favore dell’altro, riconoscere in ogni altro il fratello che ci è stato affidato. Un dinamismo di responsabilità che apre alla reciprocità di ognuno nei confronti di tutti.

Alla luce della fede in Cristo la responsabilità reciproca degli uni verso gli altri sollecita a vedere l’altro come un aiuto datoci e da rendere partecipe al banchetto della vita a cui tutti gli uomini sono invitati da Dio. Essa riveste la dimensione della gratuità totale, della bontà e della misericordia vincendo la logica della violenza, del conflitto, della divisione e vivendo l’assunzione delle sofferenze e delle angosce degli uomini del nostro tempo. Essere discepoli significa ritrovare anzitutto in sé le ragioni della communio per irradiare la vita in Cristo. Esattamente la comunione è la vocazione più profonda dell’umanità e dunque il traguardo della missione la cui forza costitutiva è la misericordia (DiM 6) che della pietà divina è il volto. Comprenderla significa penetrare nel mistero della croce, farsi coinvolgere dal miracolo di questo amore che prevale sul male e sulla morte, perché al di sopra di tutto vi è la fedeltà di Dio alla sua promessa, a se stesso.

La comunione, ossia questa crescente unificazione dell’umanità, incide sulla missione. Essa è sogno che viene da lontano, porta con sé le vibrazioni del mistero trascendente, assume l’amore del Padre «che ha tanto amato il mondo» e dialoga con le aspirazioni più profonde dei popoli. In tal modo la missione diventa espressione suprema della carità, consapevolezza di essere chiamata ad ascoltare culture, religioni, espressioni della sapienza di tutti i popoli disseminati lungo la storia dell’umanità, anche il cammino silenzioso e nascosto dei popoli “minori”.

 

…in ascolto della storia

L’universo dei popoli che è abitato da molti volti e da molte voci e tutte con uguale diritto di ascolto e di espressione8, ha provocato la missione a riflessioni concrete, in una storia dove non solo si è chiamati a parlare di Dio, a dire il mistero, ma ad ascoltare, a contemplare Dio da altri raccontato, saperlo riconoscere commensale al banchetto delle culture e delle religioni. E l’ascolto di Dio è difficile sempre perché Egli «passeggia nel fondo degli abissi» (Gb 38,1) e nessuna sapienza lo può conquistare, ma solo cercare, adorare e accogliere. Non si è mandati come maestri, ma come discepoli bisognosi di imparare a leggere la storia e il mistero9.

La storia! Ossia il passato e il presente che solca la carne del mondo e rivela la visita di Dio. L’ascolto fa consapevoli di una metodologia della missione nella quale la teologia è chiamata a compiere la diaconia di testimone fedele di ciò che ha visto, udito e contemplato. In tal modo la storia diviene la realtà in cui il dogma si svela, si trasforma in esperienza viva della fede, in stile di vita che prepara il futuro dell’umanità. L’ascolto di Dio corregge sistemi ideologici di conquista che hanno troppo segnato la missione di sangue e allarga la geografia oltre le spartizioni dettate dall’economia mondiale. L’ascolto è l’ethos alternativo a quello che i grandi processi storico-economici hanno generato, è l’economia di recupero della Parola rivelata e disseminata nella sofferenza delle genti. L’ascolto è l’atteggiamento di Dio, il Santo che

«ode il grido» (Es 3,7), «ascolta la preghiera» (Sal 6,10), «conta i passi del vagare umano» e «raccoglie nell’otre suo le lacrime» (Sal 40,3; 56,9). 

 

…seduti al pozzo dei popoli

La missione deve entrare nel dialogo dei popoli con Dio. L’annuncio non può essere separato dai suoi destinatari. E dunque non si può disgiungere l’annuncio di Dio dalla condizione in cui i popoli lo pensano e lo cercano. L’annuncio non può subire passivamente la storia, ignorare la cultura quasi sempre determinata da chi detiene il potere economico oltre che politico. Deve interpretare la storia e provocare la cultura, farne luogo in cui la verità di Dio si rivela provocando i popoli a un futuro diverso. Diverso perché capace di delineare cammini nuovi e lasciar germogliare tempi nuovi.

Si delinea così una nuova categoria di missione. Si tratta di vedere qual è il concetto di missione che corrisponde alle nuove situazioni dei popoli, quali sono i nuovi orizzonti. Ciò significa anche un rinnovamento della ecclesiologia la quale deve essere segno ed espressione di una chiesa in cammino, in missione, dinamica dunque10! Ciò significa anche una certa spiritualizzazione, interiorizzazione della missione superando la visione del missionario attivista sfrenato per restituirlo alla forza della santità: un uomo delle beatitudini, un contemplativo sulle strade del mondo.

L’enfasi sottolinea che si tratta di essere missionari, prima che di fare i missionari. Saper fare tante cose, essere specialisti non è sufficiente per essere uomini della missione e neppure garantisce il successo missionario.

Occorre essere uomini dello Spirito perché è lo Spirito il vero protagonista di tutta la missione ecclesiale (RM 21). Ciò che conta, dunque, è lasciarsi condurre da Lui verso la pienezza della vita in Cristo, disponibili ad ascoltare la sua voce (RM 30). Capaci di riconoscere la sua presenza e la sua azione nel cuore degli uomini e nelle diverse situazioni di vita, avendo rispetto per l’opera dello Spirito Santo11 nei popoli e nelle varie stagioni della storia.

La vita religiosa è oggi provocata da questo sogno a passare da consumatrice di religiosità a protagonista della fede e della speranza, della fame e sete di giustizia. La vita religiosa deve farsi ascolto del gemito indescrivibile dei poveri, di coloro che sono ai margini della storia, deve sedere al pozzo dei popoli e intrecciare possibilità di vita per il futuro e non mandare perduta l’antica promessa di liberazione coltivata nel tempo dai profeti e dai giusti:

«Costituirò tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia. Non si sentirà più parlare di prepotenza nel tuo Paese, di devastazione o di distruzione nei tuoi confini. Tu chiamerai salvezza le tue mura e gloria le tue porte» (Is 60,17b-18).

La missione, in quest’ottica, si spinge dentro l’esigenza profonda della vita di Dio in noi, emerge dalla novità della vita in Cristo e alimenta la fede difficile della novità del dono di Dio. Al discepolo è richiesto di accoglierlo, e svilupparlo per realizzarsi in conformità a Cristo. Allora il perché della missione è tutto relativo all’aprirsi all’amore di Cristo. Il perché della missione in tale luce torna a inquietare la Chiesa, la comunità dei discepoli del Signore e non lascia tranquilla la vita religiosa. L’essenza dell’essere discepolo espressa con le parole bibliche essere con Lui, stare con Gesù va di pari passo con il prendere parte alla sua missione.

La missio tocca ogni fibra dell’essere discepolo e segna l’intero suo modo di vivere. Dice la dimensione vitale della fede ossia il riflesso del rapporto vivo con Cristo e che deve farsi visibile. Non il numero delle norme e delle pratiche aiuterà la vita religiosa a essere segno rilevante nel mondo di oggi, ma la qualità della vita di fede. Ossia le relazioni concrete nelle quali manifestare l’amore e la pietà di Dio per il mondo (castità); la novità cristiana dell’affermazione della giustizia e dell’uguaglianza e dignità dei popoli (povertà); l’umile superamento dei rapporti di potere convertendoli nella partecipazione, nella condivisione e nella comune ricerca di ciò che a Dio piace (obbedienza).

 

Camminare nella novità di Dio

La vita religiosa è chiamata a uscire dai propri steccati non solo geografici ma anche umani e teologali, per andare oltre e proporre in modo radicale la missione. Essa è ponte tra “chiese”, popoli e culture e va ristudiata e reimpostata in questo postmoderno che, mentre si rivolge all’immediato, al frammento, esclude punti di riferimento, direttive autorevoli, ideali totalizzanti, progetti di futuro.

«L’individuo postmoderno prende gli eventi e le cose come vengono e le dimentica come vanno, predilige il mondo dei diritti ma non quello dei doveri, vive la sua vita come una successione di atti staccati dalle loro conseguenze, milita contro qualsiasi piano o progetto, chiama “Dio” chiunque lo faccia star bene per un minuto e incorona “santo” chi lo ha improvvisamente miracolato, si oppone al sacrificio in nome dei beni futuri, non ammette nessun ritardo alle sue gratificazioni»12.

D’altro canto sperimenta grande incertezza e solitudine,

«senza più orientamenti e bussole, si affida sempre più agli esperti, ai cerca-sentieri, agli psicologi santoni dell’inconscio, a riti strani ed esoterici che pregano con mantra inusuali di cui si è celato e spesso perso il significato»13.

E tuttavia sa apprezzare la non violenza, ama la tolleranza e il dialogo, esige il rispetto della persona, onora il creato e le minoranze. La missione è amoroso costante accompagnamento, un farsi tutto a tutti nello spirito missionario di 1Cor 9,18-23. Le situazioni storiche cambiano sempre più velocemente, la missione cammina, la vita religiosa deve seguire Dio che cammina nella storia.

E’ vero che Dio lascia tracce del suo operare nella vita dei popoli, ma le sue azioni non sono mai prevedibili. Egli va seguito nel suo sorprenderci con la novità che lo connota14. Aprirsi alla missione comporta assumere una nuova teologia della vita religiosa, un nuovo vocabolario. Si rende necessario re-inventare i voti in modo da dare allo Spirito la libertà di agire in vista dell’unificazione dell’umanità e per fare in modo che essi siano realmente segno notevole. Questo è quanto va maturando una vita consacrata che si lascia definire e interpellare dal suo essere discepola e di mettersi al servizio del suo Maestro e Signore. C’è bisogno di parlare al mondo con la forza della vita e i voti che altro sono se non sono espressione di vita, interpretazione dell’esistenza? I valori evangelici che li inverano

«costituiscono un modo particolarmente intimo e fecondo di partecipare alla missione di Cristo» (VC 18).

Dunque tutto è per rendere visibile la Vita che è in noi, ossia rendere visibile Gesù Signore «Dio compassionevole e misericordioso» (Es 34,6), in forme sempre più alte e sempre più estese.

 

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