n. 4
aprile 2002

 

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Parola e senso: La vita consacrata e le sfide
della globalizzazione
di Emilio Grasso

 

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A chiunque di noi può facilmente capitare, navigando in internet, facendo dello zapping davanti allo schermo televisivo o sfogliando una qualsiasi rivista, d’imbattersi in un susseguirsi d’immagini dominate dalla violenza o dal sesso o, molto più spesso, da un cocktail esplosivo, fantascientifico e senza significato di violenza e sesso. Un susseguirsi frenetico d’immagini senza parola e senza senso. Gran parte di queste immagini, per una legge del mercato globalizzato, è di produzione nord-americana. Esse dominano soprattutto il mercato dei poveri che le recepiscono passivamente senza possibilità di scelta e di capacità critica. Ad esse, al massimo, si alternano interminabili sequenze di avvenimenti sportivi, in grande prevalenza partite di calcio e corse automobilistiche.

I giovani, soprattutto, restano incollati per ore davanti ai differenti mezzi di comunicazione e ripetono acriticamente le immagini immagazzinate, assorbendo i comportamenti che da essi sono veicolati.

Questa passività davanti al “senza parola” e al “senza senso” invita a riflettere.

 

La parola e il senso

Senso e parola sono i due significati del termine greco logos con il quale comincia il Vangelo di san Giovanni: «In principio era il Logos»1.

Annunziare il messaggio evangelico, o anche solo limitarsi a testimoniarlo, laddove si costruisce un mondo senza parola e senza senso: questa è l’autentica sfida della missione nel nostro tempo.

In un suo famoso articolo, Pier Paolo Pasolini parlava già negli anni ’70 del fenomeno della omologazione della gioventù. Al fondo non v’era differenza sostanziale tra i giovani delle baraccopoli delle grandi metropoli del Nord o del Sud del mondo. Eppure Pasolini scriveva prima che dilagasse il fenomeno della globalizzazione.

Al di là di differenze empiriche, il parlare a un giovane in Africa o America Latina o a un giovane dei paesi postindustriali presenta le stesse difficoltà di fondo. Se non ci si limita a un discorso di tipo assistenziale o assecondante tutte le forme di rivendicazione, ci si trova di fronte a un rifiuto di ascolto. Il problema è che parliamo a un mondo ove senso e parola sono sempre più emarginati.

In queste condizioni si cerca di muoversi (vecchia storia di sempre…) rincorrendo le ultime mode in vigore, imitando la cultura dello show e facendo appello alle star del momento. Si pensa, in tal maniera, di riuscire a veicolare il messaggio cristiano, adattandolo al massimo alle situazioni del momento e, tentazione sempre in agguato, di entrare in concorrenza con altre forze mediatiche.

Tipica, in questo senso, l’autentica irruzione del “fenomeno Padre Marcelo Rossi” che con le sue celebrazioni-spettacolo in poche settimane ha conquistato l’intero Brasile. Per noti teologi che lavorano in Brasile, P. Marcelo Rossi rappresenta oggi «la perfetta inculturazione nella cultura urbana»2.

Il messaggio cristiano ha però in sé un nucleo irriducibile che non permette nessuna possibilità d’inserimento pacifico e senza rotture nelle differenti culture.

V’è un punto ove non esiste dialogo, ove il messaggio cristiano non è assimilabile senza un passaggio che richiede passione e morte. La croce è piantata nel cuore dell’annunzio cristiano ed è con questa croce che dobbiamo, prima o poi, fare i nostri conti.

Fino a quando non si affronta, nella desolazione della sua nudità, nel passaggio esodiale del deserto e della solitudine, nella morte dei nostri sogni e dei nostri progetti, questo nucleo irriducibile dell’annuncio cristiano, noi restiamo sempre al di qua della riva. Possiamo aver fatto, detto, scritto, vissuto magnifiche parole. Ma queste parole diventano vita, diventano amore solo quando passano per il crogiolo della croce.

Una croce per la quale si passa e che unica ci traghetta verso le rive della libertà e dell’amore. Essa non è conciliabile con esperienze limitate nel tempo o funzionali ai nostri progetti.

Essa, come la morte, ha il carattere della totalità, della irrevocabilità, della finitudine come apertura unica alla libertà e all’amore. Tutto nella vita è rivestito del carattere di ambiguità. Solo la croce, come rottura dei nostri piani e morte dei nostri progetti, rivela la profondità dei nostri cuori e ci permette di vedere chi noi veramente siamo.

Fino a quel momento tutto è ambiguo.

È lì, in quell’accadimento non programmato, che le parole dette acquistano il loro significato e cade il velo che oscurava anche a noi stessi la profondità del nostro cuore.

Non esiste missione autentica della Chiesa senza la croce, perché la Chiesa stessa nasce dal costato trafitto del Signore Gesù.

Alla fine d’ogni anno le agenzie missionarie ci comunicano gli elenchi dei missionari «morti in nome di Dio per donare la vita. L’uccisione di questi martiri non suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della terra: non lo si nota, ma rende fecondo il campo per nuove semine e raccolti. Essi sono il segno che l’amore è possibile»3.

 

L’illusione della rimozione della morte

È in atto nella nostra cultura un processo di rimozione o d’incorporazione indifferente della morte nella vita.

La morte infastidisce e disturba. Essa va al massimo anestetizzata ed espulsa dal vissuto quotidiano. Tutto lo sforzo dell’uomo tende ad allontanare e sterilizzare sofferenza e morte. Figurarsi se può essere accolto un messaggio che si fonda su d’una morte liberamente accettata, su d’un amore che arriva in piena libertà all’estreme conseguenze del suo donarsi.

La cultura d’oggi, al contrario di quella figlia o madre dei grandi miti del XIX secolo, è una cultura che tende a espellere dal suo seno le grandi avventure che comportano passione e morte.

Nel nostro tempo, il cristianesimo non si trova a confrontarsi con “vite donate” per cause a lui estranee o contrarie. Il confronto non avviene sul terreno del per chi si dona la vita. Esso, oggi, è tra chi è pronto a perderla perché pone in un “oltre la vita” la sua speranza e chi, non ponendo nessun oltre, s’organizza per conservarla al massimo.

Ma questa conservazione, questo installarsi oltre ogni ragionevolezza, viene spezzato irrimediabilmente da avvenimenti improvvisi e non previsti. È con questi fatti che prima o poi tutti dobbiamo fare i conti. Metterli fuori dalla nostra visione vuol dire continuare a rifiutare la parola e il senso che essi contengono in sé, seppur in maniera velata. E, come abbiamo visto, senso e parola sono i due aspetti del Logos, della Parola di Dio senza la quale ogni missione della Chiesa si riduce a viaggio turistico o evasione dalle proprie responsabilità.

Esiste la necessità d’un presupposto filosofico-culturale senza il quale ogni nostro discorso risulta “vuoto che cade nel vuoto”.

 

Censurare la sofferenza dalla nostra vita

È anche per questo che, al di là di motivazioni di altro tipo, desta sensazione e richiama l’attenzione di chi opera in missione o nell’animazione missionaria la notizia che negli Stati Uniti hanno deciso di vietare ai minori di 17 anni, non accompagnati da un adulto, il film La stanza del figlio di Nanni Moretti4.

Ha scritto Michele Serra, commentando questa decisione: «Quale scandalo, quale choc, quale sconvenienza in un film che racconta la morte senza mostrare nemmeno un cadavere (solo una bara), e racconta il dolore umano senza esporre gli organi interni? Si parla di una morte vicina, che azzera la distanza stellare che il cinema ha saputo mettere tra lo spettacolo della morte e la morte vera. Questo ci fa capire quanto la spettacolarità anestetizzi il dolore e la paura, e quanto la gigantesca produzione hollywoodiana (horror, noir, bellica) sia ben più facilmente metabolizzabile rispetto all’indigeribilità del dolore morettiano. Nel cinema americano si muore in massa, a raffica, e si muore atrocemente. Ma un film in cui qualcuno muore ‘veramente’, muore come capita di morire fuori dai cinema, disobbedendo al cinema, beh, un film così è inevitabilmente sospettabile di poter impressionare i minorenni»5.

A dei minorenni cui è negato un discorso sulla morte, la morte normale, la morte quotidiana, la morte improvvisa che, come nel film di Nanni Moretti, pone il protagonista di fronte alla necessità di un cambiamento radicale di atteggiamento nei confronti della realtà, a questi giovani come dare nella sua verità l’annunzio evangelico, l’annunzio della gioia pasquale, gioia che non delude perché è risurrezione che passa per la passione e la morte di croce? Come parlare della missione nel mezzo della passione del mondo, nel cuore del popolo oppresso e crocifisso? È possibile andare d’accordo con una cultura il cui programma è quello di eliminare a qualsiasi prezzo la sofferenza dal mondo? 

«La sofferenza – ha ben a ragione scritto il Card. Ratzinger – fa parte della condizione umana. E colui che vorrà realmente eliminare la sofferenza dovrà inevitabilmente eliminare l’amore. Poiché non v’è amore senza sofferenza, perché l’amore include sempre una parte di abnegazione. Esso comporta sempre delle rinunce e delle sofferenze in ragione della differenza di temperamenti e di situazioni drammatiche. Sapendo che il cammino dell’amore, cammino dell’esodo al di fuori di sé, è il vero cammino dell’umanizzazione dell’uomo, noi comprendiamo che la sofferenza costituisce un processo di maturazione. Colui che ha interiormente accettato la sofferenza si matura e diviene comprensivo verso gli altri e più umano. Colui, invece, che ha sempre evitato la sofferenza non comprende gli altri; egli diviene duro ed egoista»6.

Evangelicamente amore e croce costituiscono la stessa realtà: amore e croce sono l’unica possibilità data all’uomo per accedere alla pienezza della libertà.

Non v’è libertà senza la verità dell’amore: un amore che non si tira indietro di fronte alla sofferenza, sofferenza che supera e sconfigge definitivamente la morte.

Tutto il resto è solo gioco soffocante di parole.

 

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