n. 2
febbraio 2003

 

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I simboli e la vita spirituale - I
di Erminio Antonello

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I simboli della vita del credente e il loro valore

«Dio si onora con il silenzio, non perché non si possa dire nulla o nulla si ricerchi su di lui, ma perché qualsiasi cosa su di lui si dica o si ricerchi, siamo coscienti di essere ben lontani dalla sua comprensione»1. I simboli e le immagini elaborate dalla tradizione di fede sono come una scia di luce che può facilitarci nell’incontro con Dio. Essi alludono al mistero, lasciandolo intatto nel suo silenzio. Il clima razionalistico di stampo illuminista, ora in lento declino ma da cui pure proveniamo, ha svalutato il linguaggio simbolico e immaginifico considerandolo un sottoprodotto del pensiero e della sua capacità ordinativa e raziocinante. Per il credente, e per l’uomo in genere, è necessaria pertanto una rieducazione “mistica” dello sguardo, per dare alla vita spirituale quel “respiro estetico” senza del quale essa facilmente inaridisce.

Gesù ci è stato maestro in questo. Ha toccato i sentimenti delle folle, senza mai scendere al sentimentalismo. Ha parlato in parabole, si è servito della similitudine di tutto ciò che vedeva e sentiva per parlare del Regno: i bambini, le vedove, i poveri, i malati; i gigli, l’erba del campo, gli uccelli, i lampi, il sole e la pioggia, le nubi e il vento, il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i cani; tutto sotto il suo raccontare diventava eco di un mistero di cui egli ben conosceva la voce. E prima e dopo di lui, la storia della fede ci ha conservato i vissuti religiosi sotto forma di immagini, gesti, parole o canti, senza i quali il nostro pregare e l’ascolto della Parola di Dio diventerebbero immediatamente aridi.

Dice un proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. E perché, s’interroga Milan Kundera che riporta il detto, Dio ride guardando l’uomo che pensa? Perché l’uomo pensa e la verità gli sfugge. Perché, più gli uomini pensano, e più il pensiero dell’uno s’allontana dal pensiero dell’altro. E infine, perché l’uomo non è mai ciò che pensa di essere»2. Il pensiero divide, il simbolo invece unisce. Non casualmente il termine antitetico a “simbolo” è “diabolos”, «colui che divide e disperde».

Il simbolo salva l’unità e permette di leggere l’immensa diversità del creato nella sua armonica bellezza. E’ perciò di primaria importanza, dal punto di vista dell’educazione religiosa, entrare in sintonia con il mondo dei simboli per avvicinarsi al mistero di Dio, poiché, mentre le parole colgono la superficie della realtà, il simbolo porta in luce i fondali della religiosità umana e introduce alla contemplazione.

 Il mondo della raffigurazione simbolica ha a che fare con il linguaggio poetico e artistico, che trascolora lo sguardo banale sulla vita, illuminando la semplice materialità delle cose di rimandi inattesi. Diceva Leopardi che lo spirito poetico fa per così dire «vedere le cose in maniera doppia»3: nell’osservare un oggetto, infatti, uno spirito poetico non si ferma alla sua funzionalità materiale, ma ne coglie aspetti allusivi, che ricollegano per via emotiva al mondo dello spirito. Così un qualsiasi oggetto della natura: una siepe, un campanile, un passero diventano capaci di evocare stati d’animo, ricordi, vissuti. Similmente il credente si serve della grammatica dei simboli, delle figure e della musica, per dialogare con il suo Signore.

Ogni consacrato dovrebbe avere spiccato il senso poetico, il senso del bello e una grande capacità di vibrare di fronte ai richiami dell’esistenza. Purtroppo però la contemplazione estetica e artistica è un profilo assai modesto nella formazione spirituale moderna, ove primeggia piuttosto il pensiero e l’azione. Essa è dovuta certamente, oltre che al razionalismo di cui parlavamo, anche alla sordina in cui è stata relegata l’azione dello Spirito Santo, il cui aspetto caratteristico nell’economia dell’Incarnazione è – come ci fa cantare il Veni Creator – di «accendere la luce dei sensi». Possiamo dire che una vita spirituale non è un’astrazione dalla materialità dell’esistenza, ma si traduce in una sensibilità che la illumina. E perciò genera uno stile espressivo che sa apprezzare la creazione, la quale tutta rimanda alla memoria dell’amore di Dio per l’uomo. Forse la beatitudine di Gesù di diventare come bambini per accedere al Regno è intimamente connessa con il mondo incantato dei fanciulli.

Un eccessivo razionalismo nel guardare alla vita, finisce per sopprimere quella sensibilità al mistero, di cui i nostri padri ci hanno lasciato una metodica insigne attraverso il loro modo di dare forma alla contemplazione del mistero di Cristo nella musica, nella liturgia, nell’arte della costruzione e in genere in ogni forma artistica. Inoltrarsi nell’insondabilità del mistero di Cristo riversato in noi nel dono dello Spirito Santo attraverso l’incanto della bellezza resta per i consacrati uno dei compiti di maggior interesse nel tempo della post-modernità.

 

Con questa preoccupazione, poniamo attenzione a tre grandi simbologie, il deserto, l’acqua e il vento, che nella Sacra Scrittura ritmano e descrivono l’esistenza credente nella sua avventura con Dio. Segni e simboli di bellezza primordiale che, da semplici elementi della natura, assurgono a spazi che delimitano una geografia dello spirito, poiché attraverso ad essi il credente si sente come “contenuto” dall’universo che lo circonda.

Terra arida, acqua, vento non sono solo elementi della vita, ma descrivono simbolicamente i sentimenti di fronte alla maestosità e imponderabilità dell’esistenza. Possono raccontare l’esistenza segnata dall’abbraccio di Dio oppure il dramma del suo distacco. Il simbolo «dà da pensare», diceva Paul Ricoeur4. E di fatto i simboli della grande tradizione biblico-evangelica sono la traccia della fatica dell’alleanza e riecheggiano la gioiosa scoperta della fedeltà di Dio. Essi continuano a introdurre il credente a capire il senso della sua fede.

 Il deserto e la condizione umana

 Il deserto non poteva non toccare la fantasia degli antichi. E ancora oggi è teatro di imprese al limite della sopravvivenza, perché continua a sollecitare l’immaginario di molti e il rischio d’avventura di altri. Il suo solo pensiero richiama a un luogo dove la vita è impossibile. Smarrirsi nel deserto è come essere votati alla morte. In esso risiedono le potenze ostili alla vita: fame, sete, smarrimento, tempeste di sabbia, serpenti sono la minaccia permanente per chi lo attraversa. Perdersi nel deserto genera miraggi, fantasmi e paure, esattamente come quando la realtà diventa rarefatta e incapace di mostrare una qualche possibilità positiva di futuro. L’accostamento all’interiorità umana nei suoi momenti aridi e desolati è perciò immediato. “Vivere nel deserto” è trovarsi nell’angoscia della vita e nei meandri della disperazione e della solitudine. Di questa situazione umana la Chiesa si fa carico nella sua preghiera: «Tu, che all’aspre solitudini della terra assetata donasti il refrigerio dei torrenti e dei mari, irriga, o Padre buono, i deserti dell’anima coi fiumi d’acqua viva che sgorgano dal Cristo»5.

 La tradizione biblica recepisce questo significato fondamentale del deserto dalla simbolica universale dell’umanità e lo descrive come terra spaventosa (Dt 1,19) e desolata (Ez 6,14), «terra di steppe e di frane, terra arida e tenebrosa, terra che nessuno attraversa e dove nessuno dimora» (Ger 2,6). Ma nella letteratura biblica vi è uno stacco originale. Proprio simile luogo di desolazione è scelto da Dio per dar vita alla storia d’elezione di Israele: «Egli trovò Israele in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali, il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero» (Dt 32,9-12; cf Ez 16,5 ss).

 Israele da sé non è nulla; se diventa qualcosa, lo diviene in forza di un’elezione, che lo pone in una relazione di amore per una missione. Per realizzare questa pedagogia del rapporto di predilezione, Dio sceglie il deserto, che diventa tutt’uno con la storia del popolo di Israele e quasi ne costituisce la filigrana che lo accompagna. Se per noi il deserto è sinonimo di morte, da esso Dio sa trarre la vita. La sorpresa della rivelazione non si smentisce nei suoi paradossi, ed anzi in essi rivela la sua originalità. Dio percorre strade diverse dalle nostre, mostrandosi proprio in tal modo come il Dio che supera i pensieri dell’uomo. Il deserto, dunque, da luogo della morte, diventa la dimora che istruisce il credente e lo fa entrare in una coscienza totalmente nuova e più autentica nell’alleanza con Dio.

  La pedagogia divina del deserto

 Il deserto per associazione di idee richiama immediatamente all’israelita la fuga dall’Egitto, i quarant’anni di sofferenza verso la terra della promessa (Dt 29,5), gli entusiasmi della liberazione dalla schiavitù e le delusioni dei tradimenti.

Nel deserto gli Israeliti patirono la tentazione di ritornare alla schiavitù come posizione più comoda: «Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto? ... Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Es 14,11). Ma Dio li ha, per così dire, tormentati interiormente per purificarli e scioglierli dall’illusione del benessere a basso costo, un benessere materiale, che non avrebbe comunque saziato la loro attesa di vita.

Per questo, nell’insegnamento dei profeti, il ricordo del deserto rimanda al tempo della giovinezza dell’alleanza di Israele, a cui ritornare nei tornanti decisivi della storia (Os 2,14; 13,5). Il deserto allora da luogo della desolazione diventa luogo della formazione per il popolo prediletto: lì impara la sua identità di popolo chiamato a vivere nella fedeltà con il Dio dell’Alleanza.

E, sotto quest’aspetto, non è casuale che la preparazione della venuta definitiva del Signore avvenga nel deserto (Mt 3,1), ove con la predicazione di Giovanni il Battista il nuovo popolo di Dio (anche in stretto legame con il battesimo, parallelo al passaggio del mar Rosso) si raccoglie e si forma. E più ancora, Gesù stesso nell’iniziare a predicare la presenza del Regno prende le mosse dai quaranta giorni nel deserto, ove è «condotto dallo Spirito» (Mt 4,1 par). E se Gesù dopo ogni miracolo si ritira nel deserto (Mc 1,35; Lc 4,42; 5,16) non è solo per ritagliarsi fuori un qualche riposo dalla fatica, ma per mettersi in contatto con la Presenza che lo determina come persona.

Per tutto questo, allora, il deserto non è il simbolo generico di una qualche mistica della solitudine o di una separazione cultuale dal mondo. Il deserto è propriamente lo spazio educativo scelto da Dio, per affinare cuore e anima del popolo eletto e legarlo a sé in un’appartenenza singolare: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2).

 Nel deserto avviene una mutazione interiore per la coscienza del popolo dell’alleanza: esso deve morire a se stesso e prendere coscienza della vocazione di essere “proprietà di Dio”. Vi nasce nel dolore e nel tradimento, mostrando che la misericordia di Dio sa assorbire ogni infedeltà e trasformare ogni peccato. La via di Dio non aveva nulla che potesse essere paragonata alla fertile terra d’Egitto, ove al popolo nulla pareva mancare per soddisfare i bisogni primari della vita.

Il deserto era il deserto: e tutto era complesso. I rifornimenti scarseggiavano, l’acqua mancava, lo scoraggiamento era all’ordine del giorno, e poi non si arrivava mai alla terra della benedizione. Eppure per questa strada era necessario passare per portare il cuore a divenire autentico e a scoprirne l’inettitudine e la falsità dei suoi progetti.

Dirà san Paolo che, se Dio ha condotto il suo popolo nel deserto, «ciò è avvenuto come esempio tipico (typos) per noi» (1Cor 10,6): ogni persona deve passare attraverso il suo deserto per ritrovare la verità di sé. Proprio perché il cuore dell’uomo è inaffidabile, deve essere educato e reso il più possibile affidabile.

 Dio è educatore e corregge quelli che ama. Il passaggio al nostro presente non è così difficile: non sta forse il Signore usando la stessa metodologia nel nostro tempo? Non ci sta forse facendo passare attraverso l’aridità del funzionalismo, della burocrazia anche religiosa, del secolarismo, per snellire la nostra vita spirituale e recuperare l’autenticità della nostra vocazione? Non è forse la smemoratezza di Dio nella nostra cultura post-cristiana il deserto da attraversare per ritrovare la verità e la forza della testimonianza di noi consacrati?

  I deserti dell’anima

Il deserto porta in sé un altro simbolismo, che ne rende attualissimo il richiamo spirituale. A che cosa rimandano le affascinanti e infide dune di sabbia, accumulate e continuamente disfatte dalla furia dei venti? Domani non si troveranno più gli stessi accumuli di sabbia e le orme delle carovane del giorno prima saranno cancellate. Questa mutevolezza del deserto e questa sua labilità di landa sconfinata, che sfugge a ogni capacità di dominio umano, ne fa immediato rimando alle oscillazioni del cuore umano. Da entità geografica il deserto tende ad assumere una valenza antropologica.

Quando Dio è lontano e non fa sentire la sua azione salvifica, il cuore si riempie di aridità e di angoscia: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63,2). Non c’è forse immagine più adeguata di questa per esprimere sia la verità dell’uomo amareggiato e prostrato dal dolore, sia il bisogno che egli ha di Dio. Abbandonato a se stesso, è trascinato qua e là dalle sue passioni e reso instabile dagli umori. L’esistenza umana è strana, problematica e perfino terribile, non avendo in se stessa piena intelligibilità ed essendo attraversata dall’incertezza del vivere e dalla sicurezza del morire. Il cuore umano da solo non riesce a reggere di fronte all’insicurezza della vita. Anela a qualcosa di solido e di sicuro.

 Qualcosa che pure aveva in sé, poiché l’uomo è uscito dall’amore di Dio, ma che il male ha sgretolato. La forza allegorica del deserto si amplifica qualora si consideri che la sabbia è fatta da un’infinità di piccolissimi detriti calcarei, che vento ed intemperie hanno strappato alla compattezza della roccia. La distesa del deserto è un immenso accumulo di roccia, che ha perso la sua consistenza. E come la sabbia tenuta fra le mani scivola via tra le dita, così l’uomo non è capace di tenere insieme la sua vita.

L’uomo non sta in piedi da solo. La disgregazione è l’inevitabile esito di una vita fondata su una insensata fiducia in se stessi. L’uomo perciò deve riprendere la sua relazione a Cristo, per ritrovare se stesso. Chiunque non resti ancorato a «Cristo che è la roccia» (1Cor 10,4) si dissolve. «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, perché non era fondata sopra la roccia» (Mt 7,26-27).

 Nella frammentazione degli istanti in cui la vita riprende continuamente da capo il suo corso, occorre restare attaccati a Gesù che è il principio della vita. E’ proprio nell’istante, l’unico reale frammento di vita che scorre sotto gli occhi, che si decide sempre, ogni volta, tutta la vita. Ogni istante, per quanto ritenuto insignificante, tale non è, perché in esso prende corpo la prospettiva della scelta fondamentale della libertà di ognuno, dando continuamente forma alla sua esistenza. Non si può infatti vivere alcun istante dissociandolo da una qualche modalità in cui si esprime, perché non si vive che dentro a circostanze concrete. Si vive sempre in qualche modo: non ci sono dunque momenti vuoti, neutri o indeterminati. Orbene, slegata da Lui, la vita si complica e si deteriora, perché perde il collante, che dà unità all’esistenza. Lontano da Cristo, il cuore umano diventa deserto e aridità, dissoluzione e disgregazione.

  

Attualizzazione: il deserto e la prova della vita

 Non c’è da meravigliarsi delle derive umane. Verso di esse misteriosamente la misericordia di Dio, resasi manifesta nella storia di Gesù, continuamente si china. E quando Dio vuole conquistarsi il cuore dell’uomo, mette in atto la sua pedagogia e lo sottomette alla prova. L’animo umano, paradossalmente, nella prova ritrova la sua verità. Pressato dal dolore, perde la sua boria istintiva e può ritrovare la giusta misura per stare in rapporto benevolo con gli altri e con il destino della vita. Patire, nessuno lo vorrebbe; eppure, senza il patire, è come se all’uomo venisse a mancare l’ambiente che lo conduce a identificarsi con il suo limite e a sciogliere il nativo delirio d’onnipotenza.

 Ogni volta che Dio sceglie una persona per un compito particolare lo conduce non attraverso vie brevi e facili, ma mediante un lungo e pericoloso cammino di prova.

 E’ vero, di fronte alle prove e alle delusioni ogni anima grida la sua amarezza. E’ inevitabile, poiché il desiderio dell’uomo anela al compimento e alla positività della vita. E oggi in realtà è diventato maggiormente arduo integrare la prova e la difficoltà nel concetto generale di vita, per una diffusa visione narcisistica dell’esistenza, tutta tesa al proprio benessere piuttosto che ad autotrascendersi in un significato. Se la sofferenza viene incontro, si tende a sfuggirla più che a cercarne un qualche senso. Per molti è uno scandalo insopportabile.

La sofferenza umana (particolarmente l’innocente), nel migliore dei casi, viene interpretata come il chiaro segno dell’impotenza di Dio e, nel peggiore, un rimando alla sua crudeltà. Ma è proprio così? Non è forse che l’illusione onnipotente dell’uomo acceca nel riconoscere il proprio limite e con ingenuità proietta su Dio la propria insofferenza al limite?

 Forse ai consacrati è chiesto, oggi, fra le cose più urgenti di testimoniare la forza purificatrice e liberante della prova della vita. La prova infatti porta a galla i motivi di fondo che muovono il cuore, mettendo a nudo la propria posizione. Essa sfronda da ogni inessenzialità.

 La fedeltà, la magnanimità, la verità di un uomo si vedono nella prova. Pertanto, la condizione di deserto dell’anima è insieme dolorosa e preziosa. Dolorosa, poiché il cuore dell’uomo non è fatto per la desolazione e la solitudine. Ma anche preziosa, perché la macerazione nel dolore di un’assenza o di una colpa acuisce il desiderio di verità di un cuore umile. Nella vita spirituale, l’assuefazione al divino infatti è un tranello facile: si può stare davanti a Dio con devozione formale, in modo tale da non doversi rimproverare nulla. Ma è il cuore che Dio vuole. Ed il cuore umano facilmente scade di tensione quando l’appagamento delle cose distoglie l’attenzione dalla piega della sua naturale inclinazione che lo sporge verso l’eterno e l’infinito. Un cuore sazio non cerca Dio. Il dolore invece può far sentire con la sua ferita un grande bisogno di Dio. L’amarezza della vita dilata l’animo quando è accolta nell’umiltà e nella fede.

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