n. 4 aprile 2001

 

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Ci tenderà le sue mani e piangeremo...
e capiremo tutto

di Antonietta Augruso
 

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Beate voi donne
che spezzate la Parola e il Pane tra voi
e con i fratelli e le sorelle
e non temete di vivere nella precarietà
e nell’insicurezza.

"E perdonerà la mia Sonija... E tutti giudicherà e perdonerà, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti. E quando avrà finito con tutti, allora apostroferà anche noi: ‘Uscite, dirà, voi pure! Uscite ubriaconi, uscite voi deboli, uscite voi viziosi ... Venite anche voi’.

E obietteranno i saggi, obietteranno le persone di buon senso: ‘Signore perché accogli costoro?’ Ed egli risponderà: ‘Perché li accolgo o saggi, perché li accolgo o voi ricchi di buon senso? Perché nessuno di loro se n’è mai creduto degno’... E ci tenderà le sue mani e piangeremo... e capiremo tutto. Signore venga il tuo regno"1.

E’ l’eco, toccante e suggestivo, delle parole di Marmeladov, nel romanzo Delitto e Castigo. C’è la speranza, di un indegno, nella misericordia di Dio, che lo accoglierà; c’è la protesta dei saggi. E c’è racchiuso il segreto del Regno, un segreto così palese, eppure nella vita sembra così nascosto! "Nessuno di loro - risponde il Signore ai buoni che protestano contro la sua generosità - se n’è ritenuto degno".

E’ l’aspetto fondamentale della beatitudine di cui parleremo. La consapevolezza di essere fragili e sforniti di tutto davanti a Dio, e alla grandezza del suo mistero.

Beati i poveri

Che cos’è che ci fa beati, felici, fortunati? Cos’è che ci rende persone autentiche in cammino? Cosa significa parlare di donne che sentono dentro la forza paradossale e travolgente del radicalismo evangelico?

Beati i poveri, sostiene l’evangelista Luca 6,20; in spirito, aggiunge Matteo (5,3), che poi significa "di fronte a Dio".

Dunque nei primi periodi della sua predicazione Gesù sale su una collina, perché evidentemente davanti a lui c’è tanta gente desiderosa di ascoltarlo, e cerca di consegnare ai suoi ascoltatori il segreto della felicità. Beati infatti significa proprio felici, dal termine greco makàrioi. "Le beatitudini sono la proclamazione del modo di essere evangelici, discepoli autentici di Gesù, uomini e donne fortunate e felici2".

Proprio all’inizio di questo discorso Gesù colloca il messaggio sulla necessità di non farsi ingoiare la vita dalla ricchezza e proclama la povertà come situazione favorevole per seguirlo. Eppure Egli è pienamente consapevole del significato paradossale di una tale affermazione. Conoscerà poi l’espressione tristissima del giovane ricco che se ne va, perché possedeva molti beni (Lc 18; Mc 10).

Forse anche per questo qualcuno Lo considerava un folle e anche i suoi parenti ne erano preoccupati (cf Mc 3,21). Egli aveva sconvolto ogni schema con quel modo strano di vedere la vita. Eppure i soli, gli emarginati, stavano lì ad ascoltare tanto da rendere difficile avvicinarlo (cf Mc 2,2).

E da allora, quelle parole hanno fatto il giro del mondo e chi desidera accogliere il Vangelo nella sua vita sa che deve diffidare della sovrabbondanza di beni materiali, perché dov’è il proprio tesoro lì anche si attacca il nostro cuore (cf Lc 12,34).

"Chi possiede molto, materialmente e moralmente, chi è sicuro di sé, barricato nei suoi privilegi e in tutto ciò che ha e che è, teme sempre di essere disturbato, di vedere vacillare il trono che si è conquistato. Si chiude allora, come un riccio, di fronte alla proposta nuova e coraggiosa di Gesù Cristo"3.

E a volte il superfluo ci impedisce di dare il giusto valore alle cose, di apprezzarle, ma esso è quasi sempre frutto di un’ingiustizia. Se è vero che la ricchezza viene dai sacrifici personali e comunitari, è altrettanto evidente che per una strana legge di equilibrio, per l’arricchimento e l’accumulo di beni di uno, gruppo sociale o categoria che sia, in qualche parte del mondo altri verranno impoveriti, saranno senza il necessario per vivere.

E alla fine la miseria dilaga anche per chi è sommerso dalle cose inutili: perché spesso perde il sapore di tutto o viene travolto in un vortice senza fine, perché vuole sempre di più. Allora niente più tempo per il silenzio, la preghiera, il dialogo ma sempre più tempo al prodotto, alle attività lucrative, alla vita ridotta ad azienda.

Non c’è spazio per molte interpretazioni, né per troppi dubbi sullo stile di vita di chi si sente seriamente inquietato dal Signore. Egli stesso dà suggerimenti molto concreti quando dice che non si possono servire due padroni: Dio e il denaro (cf Mt 6, 24). Perché per amore di uno si finirà con l’odiare l’altro.

Libertà e amore

E’ alla libertà che sono chiamati coloro che vogliono seguire il Signore, e la ricchezza, il possedere delle cose senza necessità è un ostacolo fortissimo. Ecco perché Egli invita a non farsi divorare dell’ansia delle cose e ad avere fiducia nella Provvidenza del Padre celeste (cf Mt 6,25-36).

Non si tratta di una liberazione ascetica individuale (quelle cose che oggi in molti ambienti vanno tanto di moda), si tratta di una libertà che è il cuore della comunione con i fratelli e con Dio. A cosa serve l’impegno nella sobrietà se non in vista della condivisione?

"Il radicalismo della condivisione si rifà più al comandamento dell’amore che all’esigenza di un distacco ascetico: il termine ‘dare’, ‘distribuire’ è più importante di ‘rinunciare’, dato che il fine essenziale, in definitiva, è l’uguaglianza di tutti e la comunione perfetta.

Il perseguimento della ricchezza appare, invece, come un male e un pericolo permanente dal quale il discepolo di Gesù deve guardarsi"4.

Dunque dire "beati i poveri" non vuol dire: "aiutate i poveri ad essere più poveri", perché così sono felici; ma "cercate di non farvi schiavi delle cose, perché al momento in cui bisognerà condividerle non vi avviliate!".

Se si può fare a meno dei propri beni non è solo per avere meno angosce, ma per alleviare quelle di chi è nel bisogno (cf Lc 12,33).

Non per nulla il modulo espressivo più significativo della comunione è quello degli Atti. In uno dei sommari si dice che i primi credenti erano un cuore solo e a nessuno mancava il necessario per vivere (cf At 4,32-35).

C’è una evidente polarità nella povertà evangelica: si è poveri se si mantiene un giusto rapporto con le cose, se si vendono i beni per darli in elemosina (cf Lc 12,33), se effettivamente non si possiedono dei beni, ma tutto questo si accompagna a un movimento interiore. Poveri bisogna diventarlo, attraverso la consapevolezza della fragilità che ognuno porta dentro di sé! Ecco il diventare come bambini (Mt 18,17) e affidarsi in semplicità a Colui che può totalmente mutare le infermità umane. Povero è chi sa di non dover contare troppo sulle proprie ricchezze, perché quella notte stessa potrebbe morire (cf Lc 12,20).

Povero è chi è costretto a mendicare i suoi diritti fondamentali (come il povero Lazzaro) e ha uno sguardo preferenziale da parte di Dio. Ma lo è anche chi rinuncia alla tentazione di credere che l’uomo si possa autosalvare e si rende conto di essere nelle mani di Dio (Lc 18,9-14). Povero è chi sa di essere un servo inutile nonostante il suo sforzo e il suo desiderio di vivere il vangelo (Lc 17,7-10). Chi non si è mai ritenuto degno di entrare nel Regno, ci ha detto Dostoevskij.

E dunque diviene beato, semplice, piccolo, disarmato!

Chi sono i beati?

Si può tracciare una fisionomia del beato? Sì, per certi aspetti, ma anche no. E’ beato chi cammina come un mendicante, senza troppe sicurezze, materiali ma anche interiori; e si sente interpellato da un tale messaggio in mezzo alle difficoltà della vita di ogni giorno. Sono un po’ anche i caratteri distintivi del discepolo di Gesù.

Quando si riflette con serietà sulla Parola ci si rende conto che la perfezione dell’amore è come un orizzonte che si allontana quanto più noi avanziamo: c’è sempre il richiamo ad avere occhi nuovi per vedere le cose più avanti. Non bisogna dimenticare la dimensione dell’attesa, della vigilanza, del perpetuo ricominciare5.

E’ solo per una categoria o un gruppo ristretto di persone questo appello radicale del Vangelo?

Non è qui la sede per distinzioni rigide, volte a delimitare il pezzo di vangelo che è rivolto a uno o all’altro. Anzi, dall’analisi dei testi neotestamentari risulta chiaro che il desiderio di vivere un discepolato serio implica una rottura quasi paradossale con alcuni schemi abituali, e che questo stile di vita è un invito per tutti, non è monopolio, né un impegno solo di pochi. Ci sembra molto interessante l’analisi che sul radicalismo evangelico fa il francescano T. Matura: l’autore sottolinea che "il Nuovo Testamento non conosce una duplice morale, una per i cristiani ordinari, l’altra per i perfetti"6.

Ogni credente, in base al proprio stato di vita, si dovrebbe interrogare partendo dalla parola di Dio, ma anche dalla situazione storico-sociale in cui è chiamato a vivere.

Non è che la Parola deve necessariamente dare delle indicazioni pratiche; ma sicuramente creando un’inquietudine forte, stimola al discernimento. Tutti sappiamo che la povertà evangelica va ben oltre la povertà materiale, ma nessuno sarà così ingenuo da non pensare che la povertà ha anche una dimensione concreta. Il povero in questo senso va identificato.

Nella Bibbia spesso si parla dei poveri indicando alcune situazioni vitali precise: la vedova, l’orfano, lo straniero, l’ammalato, il prigioniero. "Non bisogna rifugiarsi nelle teorie o nelle giustificazioni senza fine per nascondere la realtà, ma semplicemente osservare la vita di coloro che sono ai margini della società e rendersi sensibili alle loro sofferenze"7.

E’ certamente difficile sentirsi sereni, quindi beati e felici in senso evangelico se, nonostante l’espresso desiderio di seguire il Vangelo nella propria vita, poi si vive nelle comodità. Anche la vita religiosa basata sull’accentuazione dei tre poli: povertà, castità, obbedienza, dovrebbe porsi di queste domande. Si continua a rimanere indifferenti agli appelli dei poveri perché si ha paura di rivedere schemi ormai sacralizzati negli anni. E’ il caso di porsi il problema se ciò è ancora evangelico, e non rischiare di vivere di schemi vuoti e ipocriti.

In fondo questa era la preoccupazione fondamentale dei fondatori. "I testi dei fondatori della vita religiosa nel corso dei secoli poggiano sempre sulle esigenze forti dell’evangelo, essi non propongono mai una teoria, un’interpretazione della vita che descrivono. Per quanto li riguarda vogliono, ‘sotto la guida dell’evangelo’ (Benedetto), seguire ‘gli insegnamenti e le tracce di nostro Signore Gesù Cristo’ (Francesco)"8 e servirlo con cuore puro e totale dedizione (Regola carmelitana).

Essi non hanno saputo resistere all’appello, rivolto in realtà a tutti "Se vuoi essere perfetto" (Mt 5,48); dove "perfetto" significa discepolo del Signore.

Beati loro! E possiamo ben dirlo, beati, perché hanno accolto il dono ricevuto sfidando la paura della precarietà, ma soprattutto col desiderio di condividere quella gioia profonda che sperimenta chi si sente trasfigurato dalla Parola di Dio. E in un tale cammino già assaporano il Regno dei cieli. Chi sta sinceramente dietro al Signore senza troppe difese e ha a che fare un giorno con il paralitico e un giorno con la rigidità di chi non ammette le spighe strappate di sabato; sa di non dover contare sulle proprie forze e si siede con gli ultimi, accettando l’invito di Gesù: "Voi stessi darete loro da mangiare" (Mc 6,3).

E insieme a chiunque ha bisogno spezzerà gratuitamente il pane e i pesci!
E sarà beato.
E’ possibile
"La società moderna chiama i mendicanti
vagabondi e accattoni
e li butta fuori.
Anche se vi chiamano vagabondi e accattoni
voi siete gli ambasciatori di Dio"9.

Sono parole di Dorothy Day, parole forti, belle, infuocate. Come la vita di questa donna; il vescovo della sua diocesi ha fatto iniziare il processo per la beatificazione.

Era una donna moderna, faceva la giornalista. La sua vita è stata costellata da episodi incredibili tanto era forte la sua passione per gli uomini, per gli ultimi. "A quindici anni sentivo che Dio desiderava la felicità dell’uomo, provvedendo ai suoi bisogni perché fosse felice e che non ci doveva essere tanta povertà e miseria attorno, così come io vedevo e di cui ogni giorno leggevo sui giornali"10.

E’ continua la sua ricerca di Dio, spesso "sigillata" dall’incontro con l’umano: lo sguardo materno sulla propria bambina le fa nascere il bisogno di adorare e venerare.

Il suo approdo alla comunità cristiana combacia con la sua passione per Il Discorso della montagna; passione amata e sofferta che le provocherà non pochi problemi. In particolare quando in modo esplicito, e contro il parere di molti uomini di chiesa, ella prende posizione contro la guerra civile in Spagna. Più volte il suo giornale "The Catholic Worker" ebbe dei problemi a pubblicare le sue parole; eppure Dorothy insisteva: "E necessario disarmare il cuore, solo allora il nostro amore e la nostra preghiera acquisteranno la forza per vincere il male"11.

Fondatrice di molte case di ospitalità dove ella desiderava fare l’esperienza dell’amore evangelico, rimase sempre attenta a tutti coloro che la storia emarginava. La sua sensibilità la portò sempre a pagare personalmente, come quella volta che qualcuno tentò di ucciderla per l’appoggio dato a New York a una comunità dove neri e bianchi vivevano insieme serenamente, mentre fuori l’odio razziale seminava le sue vittime.

"Era la vigilia di Pasqua, la sua mente era assorta nel pensiero dell’arresto e della passione di Cristo e intanto se ne stava tranquilla in automobile. Si accorse che si stava avvicinando una macchina a velocità ridotta. Fece appena in tempo ad abbassarsi, quando partì il primo colpo di fucile e un proiettile colpì la barra del volante, proprio davanti al suo viso. Parlò poco dell’episodio nei suoi scritti, anche se traspariva la sua gioia per aver finalmente potuto essere vicino a quanti rischiano la propria vita per seguire la via della croce"12.

Traspare una luce incredibile leggendo le vicende di questa donna, quasi contagia la serenità conquistata giorno per giorno. Si legge che le novizie di Madre Teresa di Calcutta rimasero sbalordite, quando andò a trovarle e raccontò loro di tutte le volte che era stata in prigione per amore della verità, dei poveri, della libertà.

A quelle novizie Dorothy parlò del Cristo sotto le spoglie derelitte dei poveri, della chiamata a vivere con loro. La vita con i poveri: vocazione contemplativa, perché porta a vivere alla presenza costante di Gesù.

Dorothy fu una di quelle a cui i riconoscimenti umani arrivarono molto tardi nella vita, eppure al suo settantacinquesimo compleanno l’università di Notre Dame l’insignì della sua massima onorificenza, per aver consolato gli afflitti e afflitto i consolati per tutta la vita. Ma in quell’occasione le parole più belle arrivarono da un’altra donna che conosceva quanto lei il volto di Dio nel povero: M. Teresa di Calcutta. Così le diceva: "Tanto amore, tanto sacrificio, tutto solo per Lui. Tu sei stata un bellissimo tralcio della Vite, che è Gesù, e hai permesso a suo Padre, il padrone della vigna, di potarti in modo così frequente e radicale. Tu hai accettato tutto con grande amore"13.

Beati gli umili

E’ possibile farsi abbracciare dal vangelo, accoglierlo. Se ci accostiamo al vangelo è per ricevere luce, per metterci in ascolto attorno alla persona di Gesù.

Abbiamo bisogno di riceverlo come parola vivente, in un cuore adorante e amante, in un cuore vigilante, che lo lascerà germogliare14.

E invece spesso siamo atrofizzati dall’opulenza, quella che impoverisce tutti; perché priva del necessario alcuni, e toglie ad altri il respiro della sobrietà, trascina nel grigio dell’indifferenza. A volte essa è una sovrabbondanza di cose materiali, a volte è quella strana tranquillità fatta di verità, di certezze, di pratiche, che scavano un abisso tra noi e gli altri. Bisogna rinascere dall’alto (cf Gv 3,3).

E’ ciò che fa guardare con occhi diversi la vita, che ridimensiona le paure di dover ricominciare tutto di nuovo, è ciò che occorre per entrare nel regno (cf Gv 3,5).

Si tratta di una disposizione interiore che mette un po’ tutti sullo stesso piano davanti a Dio. Chissà quanto avrà trepidato Nicodemo quella notte. Quanto avrà vagato il suo cuore inquieto, per quel certo ritornare nel grembo della propria madre: rinascere. Un appello che è forte anche oggi: è il senso dell’umiltà, questa apertura dell’animo a vedere dove il vento soffia e stargli dietro, a scoprire i luoghi e i tempi dove sostano in attesa, i piccoli della storia. Tutti quelli che attendono i segni visibili della tenerezza del Signore.

E’ una povertà che va anche scoperta, cercata; forse quando si è nella notte della vita, mettendosi in cammino in cerca di Rabbi, il Maestro.

"Ad ogni anima umile il Signore dona la sua pace, che è al di sopra di ogni comprensione. L’anima dell’uomo umile è come il mare. Getta nel mare un sasso, turberà appena la superficie, e immediatamente affonderà. Così affondano le afflizioni, nel cuore dell’uomo umile, perché la potenza del Signore è con lui"15.

E’ in altre parole quella che l’evangelista Matteo chiama povertà di spirito, è il cammino, il vigilare sulla propria interiorità di credente.

Invece spesso siamo invitati (basta dare uno sguardo ai cartelloni pubblicitari, o stare un po’ davanti alla TV) a diventare imbattibili, eterni, per via della macchina, o della super potenza di un telefonino. Siamo invitati ad aumentare il numero di persone da tenere a bada con le nostre idee, con le cariche che ci sono affidate (magari perché non abbiamo mai osato dare un’opinione diversa, a chi sta in alto).

Ma l’animo dell’umile, cerca inquieto la luce, anche nella notte! Non si consegna alla rassegnazione, sa che le tenebre si possono vincere e trasformare la disponibilità ad accogliere la novità che la storia degli uomini si aspetta.

Diventando compagni degli uomini, senza la paura di lasciarsi contaminare dal dolore, dalla fragilità.

Non ci vogliono necessariamente (o solo) sconvolgimenti strutturali, nuove costituzioni. "Il Vangelo non è una metodica di emancipazione, ma anche il convincimento che la povertà e la sofferenza, non sono soltanto un oggetto da eliminare bensì una realtà di cui farsi carico come il servo sofferente di Jawhè"16.

Basta guardarsi intorno, con occhi nuovi, ci sono ancora vecchie povertà, ce ne sono tante nuove che attendono la speranza.

Nell’azienda ospedaliera di Udine, invece di affidare i malati terminali a una équipe di professionisti o alla famiglia, hanno chiesto a una suora di rimanere lì. Non per fare l’infermiera, né il medico, ma per vivere il ministero della consolazione: la cura delle ferite che non si vedono.

Il cappellano dell’ospedale ha usato queste parole, su Avvenire del 17 novembre scorso: "Abbiamo preferito affidarci alla capacità di consolazione di una donna che ha votato la sua vita alla tenerezza di Dio".

Sarà lì quella suora a condividere la precarietà e l’insicurezza degli ultimi, dei fragili, a spezzare il pane della sua esistenza: beata lei!

E’ una povertà
che attraversa tutti i bisogni,
che è povera nella misura in cui dona,
ma che non è povera a causa dei poveri
o di una testimonianza verso i poveri, ma a causa di Dio,
a causa della vita eterna
per la quale si vuol scavare
il maggior spazio possibile,
a causa di Cristo unico bene.
Per arrivarvi, essa si trascina dietro
tutte le altre povertà (M. Delbrêl).

E’ la misericordia di Dio che colma i vuoti dell’aridità, della fatica, della povertà; qualsiasi nostra opera non può valere da pretesa, per lui.

Anche qui sta il senso profondo delle beatitudini: nella consapevolezza che il Signore viene incontro alle infermità, ai vuoti presenti in ogni uomo.

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