n. 4 aprile 2001

 

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di Biancarosa Magliano

 
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"Ho sempre tentato di comprenderlo e di seguirlo, l’ho portato nelle mie tasche o nella mia bisaccia durante i viaggi e lo interrogo ogni giorno e tuttavia sento che continua ad afferrarmi senza sosta. Molto spesso mi capita, durante una conversazione o mentre sto leggendo, di fermarmi dinanzi a un’espressione che suscita in me stupore o che mi sembra di non aver mai ascoltato". E’ un’affermazione scritta da Giuseppe Lanza del Vasto, nato or sono cent’anni e morto or sono venti. E continua: "ripensandoci mi ricordo che si tratta proprio di citazioni di Matteo, Marco, Luca o Giovanni; riprendendo in mano il libro, lo riscopro e mi accorgo che, nonostante io l’abbia letto infinite volte, mi sembra nuovo e ne resto affascinato".

Uno dei primi più forti sentimenti che il vangelo provoca in quest’uomo dalle grandi architetture metafisiche, saggista, poeta, attore, filosofo, pittore, promotore, al pari di Gandhi, della non violenza, che ebbe contatti non sporadici con le principali religioni del mondo, viene colto dallo stupore.

Egli - e non lui soltanto - prova stupore di fronte alla chiarezza e alla durezza, alla semplicità e alle forti, sorprendenti, sconvolgenti, idealità evangeliche. Il vangelo, lo si ammetta o no, è graffiante, esplosivo. Manda in frantumi i sogni che abbiano valenza soltanto umana; i non evangelici desideri di vita, le brame più nascoste: "Chi vuol salvare la propria vita la perderà…". Ma possiamo pure affermare che lo stupore è una categoria biblica. Certamente una categoria evangelica.

E’ lo stupore che prova il Creatore nel susseguirsi del sorgere, secondo la narrazione della Genesi, delle sue opere: "E vide che era cosa buona". E’ lo stupore della mamma di Mosè che dopo aver partorito il bimbo "vide che era bello e lo nascose per tre mesi".

E non è un grido di stupore e meraviglia - oltreché di sconfessione di se stesso e di fede in un Altro - quello del re Ciro, quando al ritrovare Daniele vivo dopo averlo fatto gettare nella fossa dei leoni, esclama: "Sei grande, o Signore, Dio di Daniele, e fuori di te non ce n’è un altro!".

Lo stesso cantico di Daniele che preghiamo ogni prima domenica durante la celebrazione delle Lodi è un inno di benedizione, frutto della meraviglia che il cantore sente di fronte alla bellezza e alla magnificenza di ogni cosa creata: uccelli e pesci, freddo e gelo, neve e brina; luce e tenebra, germogli, quadrupedi e rettili e quanto si muove nel vento…

E non era stupore quello di Ben Sira, quando scriveva: "Bellezza del cielo è la gloria degli astri, ornamento splendente nelle altezze del Signore"?

Nel vangelo a volte è stupore per quello di cui si è testimoni; altre per le parole che si ascoltano. Per i prodigi che Gesù compie.

Luca narra dei pastori che, avvertiti dagli angeli, vanno in cerca del bambino. Lo trovano e poi raccontano; diventano messaggeri del lieto annunzio ricevuto. E "tutti quelli che udirono (il racconto) si stupirono delle cose che i pastori dicevano". La notizia propagata suscita in tutti un sentimento di stupore. E non è forse stupore l’atteggiamento di Anna nel tempio,

sopraggiunta mentre già vi erano Maria e Giuseppe con Gesù, che prorompe "a lodare Dio e a parlare del Bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme". In virtù della sua fede, semplice e povera, della sua attesa silenziosa, ora esulta e si fa evangelizzatrice eloquente. Il bimbo cresce: a dodici anni va con la madre e san Giuseppe a Gerusalemme e vi si ferma, entra nel tempio, e lì dibatte con i dottori della legge. Meraviglia soprattutto per l’acutezza delle domande, per l’esattezza delle risposte, per la conoscenza della legge. Luca commenta: "Tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore".

Il capitolo 7 del vangelo secondo Matteo riporta buona parte del discorso della montagna. Il penultimo versetto suona così: "Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle rimasero stupite della sua dottrina…". Luca al capitolo quarto ha

un’affermazione simile: "Coloro che l’ascoltavano si meravigliavano del suo insegnamento". Dopo che il paralitico, calato attraverso il tetto e alla cui guarigione Gesù aveva premesso il perdono dei peccati, meritandosi la contestazione dei farisei, è detto: "Tutti rimasero stupiti e levavano lode a Dio". In altro passo è enunciato il "luogo" dove lo stupore ha sede e l’intensità in crescendo dello stupore stesso. E’ quando Gesù sceso dal monte dove era andato a pregare, cammina sulle acque e li rassicura: "Coraggio, sono io, non temete". Poi sale con loro sulla barca. L’evangelista commenta: "E sempre più dentro di loro si stupivano". Lo stupore, per gli apostoli, non è una percezione superficiale, un’emozione a fior di pelle; una consapevolezza nomade. E’ motivato; ha il movente in quel che vedono, sentono, ascoltano, di cui sono testimoni.

Lo stupore è il primo gradino della fede ed è la chiave di lettura del libro dell’Apocalisse, il quale per comunicare speranza in una situazione difficile e di persecuzione usa simboli ed espressioni che stupiscono. In tal modo scuote il lettore dall’abitudine, dalla tristezza per lasciarsi interrogare dalla presenza di Dio. Lo stupore suscita il silenzio che fa accogliere la Parola e il suo messaggio: "Quando l’agnello aprì il settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora".

E non era forse indotto da stupore S. Clemente quando scriveva: "Tu, o Signore, sei giusto nei giudizi, ammirabile nella fortezza, incomparabile nello splendore, sapiente nella creazione e provvido nella conservazione, buono in tutto ciò che vediamo e fedele verso coloro che confidano in te, o Dio benigno e cosa c’è di più ammirabile della divina bellezza? Quale pensiero è più gradito e più soave della magnificenza di Dio?".

La capacità di stupirsi è segno di capacità di "essere in"; essere in a quanto succede dentro e attorno a noi. E’ espressione di profondità di sentire, di godere, di patire, di lasciarsi coinvolgere e affascinare dalla visione delle cose, dall’udire la musicalità del linguaggio, della parola, del canto. E lì sostare in un primo momento per poi andare oltre, perché l’invisibile non si raggiunge se non attraverso il visibile…

Lo stupore genera il canto di glorificazione, l’inno dell’alleluia, o, anche, il silenzio della contemplazione e dell’estasi, dell’incanto e della beatitudine.

La capacità di lasciarsi prendere dallo stupore rende intangibili, immuni e protetti dalla possibilità dell’appiattimento. Perché la novità di ogni giorno è tanta che non lascia spazio né alla noia, né alla monotonia, né al fastidio o al disgusto.

Raïssa Maritain, estasiata, scriveva: "Rami fioriti delle acacie, degli aranci, dei roseti, dei lillà, profusione di piante, fecondità miracolosa del bosco…!". E continuava: "più dell’albero è fecondo il cuore; fa maturare il suo frutto nel silenzio".

Il battesimo e la speciale consacrazione, alla quale accenna anche il papa nella Novo millennio ineunte, ci hanno chiamati e abilitati a essere martellanti fautori di valori, di libertà, di fraternità; a "essere richiamo pungente e forte" - come diceva il card. Giacomo Biffi a Bologna il 2 febbraio ultimo. Ad essere forze sananti in tutti gli ambiti in cui siamo chiamati a vivere e a operare. In una tensione totalitaria.

Il ministro della sanità Veronesi non molto tempo fa denunciava una situazione che, se presa alla lettera, ci pone tutti in questione: 10 milioni di italiani soffrono del "mal di vivere". Come mai? Perché? E’ un’affermazione di peso sconcertante. Poco meno di un quinto della gente che vive al nostro fianco, forse che si imbatte sulla nostra strada, non sa perché vive, non gode della propria realtà. Non conosce, non ammette il perché dell’esistenza. Della propria e forse neppure di quella altrui. Non ha motivazioni. Non ha interessi. E’ il contrario di quel filo rosso che permea la Parola di Dio.

Allora? Riandare alla propria storia, accoglierla con gioia e stupore, abbracciare l’universo, guardarsi attorno e sostare. Sostare per fare memoria e godere di tutto il bene, il bello, il vero che è stato seminato come germe di vita nella storia personale, nella vita di relazione; di quello che è stato e di quello che è.

Stupore per la chiamata iniziale alla vita e alla relazionalità. Stupore per quel germogliare di alberi che diventeranno ricchi di frutti; per il mughetto di bosco. O di fronte a una folta capigliatura di bimba e a quel sorriso che esprime tutta la gioia di vivere. Stupore quando ci si sente accarezzati da un’aria lieve o dai colori sfumati della montagna o dal tintinnio di timida fonte; per la ridistribuzione della fraternità: tu ami me io amo te; voi amate noi, noi amiamo voi. Stupore per la scolaresca vivace che giorno dopo giorno è più matura, più "adulta"; per quell’handicappato che, amato e curato con amore, ha molti sorrisi per te.

Molti motivi sono indecifrabili. Ognuno ha i suoi.

Ma ce n’è uno che vale per tutti. E sarà nella notte in cui l’annuncio pasquale inaugurerà il regno senza fine e ascolteremo e canteremo, profondamente stupiti, l’alleluia.

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