n. 3 marzo 2001

 

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Le notti di Maria
di Mario Masini
 

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Chi cerca nel Vangelo un testo in cui Maria sia raccordata direttamente alla notte non ne troverà alcuno. Ma questo non equivale a dire che Maria non abbia fatto esperienza delle valenze cronologica, psicologica e spirituale della notte. Infatti era "notte" quando l’angelo del Natale "si presentò ai pastori che vegliavano facendo la guardia al loro gregge e la gloria del Signore li avvolse di luce". Fu in quella notte che l’angelo "annunziò la grande gioia": Maria aveva "dato alla luce il suo figlio primogenito, lo aveva avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia" (cf Lc 2, 7-10).

Era ancora una volta notte quando, "appena partiti i Magi", "Giuseppe, destatosi dal sonno", obbedendo al comando dell’angelo "prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto" (cf Mt 2,12-14). Altre notti, e notti lunghe e variamente dolorose, furono vissute da Maria nel tempo del mistero pasquale di Gesù.

Era "ormai sopraggiunta la sera della Parascève, cioè della vigilia del sabato" (Mc 15,42; Mt 27,57), quando "Giuseppe d’Arimatèa, [...] comprato un lenzuolo, calò (Gesù) giù dalla croce e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro" (Mc 15,43. 46) e "se ne andò" (Mt 27,60): cominciava così per Maria la lunga notte del venerdì, quella dell’assenza di Gesù crocifisso, morto e ormai sepolto. Luca (23,49. 56) ha annotato che "le donne che avevano seguito (Gesù) fin dalla Galilea", dopo aver "osservato", partecipi e dolenti insieme con Maria, gli avvenimenti" della Passione, erano "tornate indietro" (cioè a casa loro) e "secondo il comandamento avevano osservato il riposo del giorno di sabato": per Maria era quella la notte del sabato, la notte della solitudine più nera, il tempo in cui piangere l’ultima lacrima, l’ora in cui se cede la fede crolla anche la speranza e si apre il baratro della disperazione.

Queste notti di Maria sono molto di più di un tratto temporale della sua vita: esse stanno sotto il segno d’una esperienza carica di mistero e nel contempo ricca di luce. Per evitare di coartarle entro significati restrittivi scelgo di designarle con intense espressioni poetiche tratte dagli Inni alla notte di Novalis1 (F. von Hardenberg, 1772-1801), in cui il realismo della vita, dell’amore e della morte si trasfigurano in sogno e visione spirituale.

 

"Notte di gioia, eterna poesia"

Il parto di Maria nella notte di Natale è riferito da Luca (2,7) con la disadorna stringatezza della cronaca: Maria "diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia". S. Brigida ha spinto lo sguardo al di là del velo che ricopre queste parole evangeliche e in una delle sue visioni descrive con squisitezza pittorica e con l’ardimento e l’intuito che sono caratteristici dei mistici quanto ha visto: "Quando la Vergine sentì di aver partorito, subito chinò il capo e giunse le mani al petto; poi con grande riverenza cominciò ad adorare il Bambino dicendogli: "Benvenuto, mio Dio, mio Signore, mio Figlio". Ma il Bambino piangeva e tremava per il freddo e per la durezza del suolo sul quale giaceva, stendeva le braccia e le gambe e si muoveva in cerca di tepore e dell’affetto della Madre. Ella allora lo prese tra le sue mani, lo strinse al suo petto e, accostando la sua guancia a quella del bambino, con il seno lo riscaldava con grande gioia e amorevole tenerezza materna"2.

I tratti narrativi della nascita di Gesù disegnano un’icona di Maria come Madre gioiosa e dolcissima e invitano a immaginare quali pensieri abbiano potuto affollare in quella notte di luce la mente di Maria e per quali memorie abbia potuto esultare il suo cuore. L’angelo del Natale aveva invitato alla festa "annunciando ai pastori una grande gioia" (v. 10); anche Maria era stata invitata alla gioia dall’angelo che, nell’Annunciazione, le aveva detto: "ave", cioè, secondo il greco (kaíre), "gioisci". Questo invito alla gioia aveva rallegrato ma anche un poco "turbato" la Vergine di Nazaret (Lc 1,28. 29) perché ella si rendeva conto che adesso veniva rivolto personalmente a lei l’invito alla gioia che i profeti avevano rivolto all’antica "figlia di Sion" invitandola a gioire perché Dio era finalmente venuto "in mezzo" al suo popolo e vi si sarebbe dato a conoscere come "salvatore potente" (Sof 3,14. 17; Zc 2,14). Si compiva dunque la venuta di Dio e prendeva inizio l’opera del Salvatore e questo avveniva proprio mediante il bimbo che Maria aveva appena partorito. L’angelo del Natale lo aveva dichiarato a tutte lettere ai pastori: "Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore" (v. 11).

Poesia delle cose, certo, nella notte di Natale, e anche gioia per Maria e per i pastori e "grande gioia per tutto il popolo", assicura l’angelo (v. 10). Poesia e gioia intrecciano una corona di luce attorno alla verità del Natale. Per molti secoli i profeti avevano rivolto messaggi di conforto ai "poveri del Signore", a coloro che sulla terra non potevano far conto né sulla ricchezza né sulla cultura né su un qualche potere, ma speravano soltanto in Dio e attendevano da lui la liberazione dalla loro umiliazione: erano gli ‘anâwîm. Maria, "la serva del Signore" (Lc 1,38. 48), era del loro numero, anzi, "ella primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza"3.

La notte del Natale è per Maria notte di gioia perché il bimbo da lei partorito è "il salvatore" di lei e degli altri umili e poveri del Signore come lei. Gioisce perché lei e ognuno che crede come lei può constatare che nel Figlio nato da Maria viene premiata l’attesa e coronata la speranza degli umili e dei poveri del Signore. E anche la speranza si adorna di luce perché vede aprirlesi nuovi orizzonti: nel tempo futuro ognuno che saprà essere umile e povero del Signore potrà vivere l’attesa della liberazione e della salvezza non più soltanto nella fiducia e nella speranza ma nella certezza di essere liberato e salvato: "oggi è nato un salvatore, che è il Cristo Signore".

 

"Arcana notte in plaghe remote"

Erano appena partiti i Magi che con i loro doni avevano forse alleviato la povertà della famiglia di Nazaret, ma che avevano dichiarato la verità del Figlio di Maria riconoscendone la divinità con l’offerta dell’incenso, la regalità con quella dell’oro, l’umanità con quella della mirra. Ma tanta e tanto grande luce della verità venne subito offuscata quando, al fine di sottrarsi alla "furia" infanticida del re Erode il quale "stava cercando il bambino (Gesù) per ucciderlo", Giuseppe "prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto" (Mt 2,16. 11. 13-14).

È questa un’altra delle notti vissute da Maria, notte di segno completamente opposto a quella di Natale. L’oscurità inquadra adesso una famigliola in preda al panico e in fuga precipitosa in direzione di una terra sconosciuta, verso un paese ostile, lungo le carovaniere volatili e insidiose del deserto. Sarebbe facile, a questo punto, abbandonarsi alla ricostruzione psicologica del dolore di Maria e forse anche raffigurarsi le sue perplessità circa la veracità del messaggio dell’angelo del Natale e il riconoscimento dei Magi a riguardo di Gesù. Di fatto, fu facile all’autore del Vangelo dello pseudo Matteo4 fantasticare su accadimenti che si sarebbero compiuti durante il viaggio verso l’Egitto; tra essi quelli degli idoli che crollavano ridicolmente a terra all’arrivo del bambino Gesù, come Dagon, dio dei Filistei, all’arrivo dell’arca dell’alleanza (cf 1Sam 5,2-4), e il prodigio con cui Gesù soddisfece il desiderio della madre di mangiare datteri comandando ad una palma: "Piega i tuoi rami e ristora la mia mamma con i tuoi frutti". E subito la palma piegò la sua chioma fino ai piedi della beata Maria".

Ma la verità non sta in fatti come questi. Quell’"arcana notte" condusse Maria a rivivere nella propria esistenza un’esperienza che era stata del suo popolo. Attento, come sempre è, a Gesù e al suo mistero, il Vangelo narra la fuga in Egitto vedendo il dramma accentrato su Gesù: è lui il perseguitato a morte, è lui il fuggiasco, è lui l’esule. Gesù è tutto questo, ma essendo ancora bambino egli lo vive insieme a sua madre e assume la madre nella sua stessa sorte. E dunque Maria è la madre in fuga nella notte, anch’ella esule insieme con il figlio per salvare il figlio costretto all’esilio per sottrarsi alla morte. In questa condizione Maria rivive, insieme con Gesù e a somiglianza di lui, l’esperienza vissuta nel tempo antico dal suo popolo.

Dal confronto dei testi risulta che l’evangelista Matteo ha improntato il racconto della fuga di Gesù in Egitto su narrazioni anticotestamentarie che alcuni esegeti riconoscono in Giacobbe (Gen 46,2-5) che scese in Egitto per sfuggire alla carestia che infieriva nella Palestina (Gen 41,57), altri in Giacobbe in fuga inseguito minacciosamente sulle montagne dal suocero Labano (Gen 31,1-42). Ma molteplici dettagli fanno intendere che il riferimento più significativo è quello che si richiama alla storia del popolo d’Israele in Egitto.

Il raccordo è stabilito esplicitamente da Matteo (v. 15), il quale cita il profeta Osea (11,1): "Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio". Sorprende che Matteo motivi l’andata e la presenza di Gesù in Egitto utilizzando questo testo che annuncia invece l’uscita d’Israele dall’Egitto. Osea scrive così perché, nella sua ottica, la storia del popolo di Dio comincia appunto con l’esodo dall’Egitto.

Matteo intreccia e sovrappone la prospettiva antica e quella attuale per far sì che eventi e testi esprimano un messaggio che è presente in essi e che nel contempo li trascende. Nel "figlio" l’evangelista raffigura congiuntamente Israele e Gesù e richiama un tratto della loro storia in cui si giocano la loro vita e il loro futuro. Matteo vede Gesù entrare in Egitto povero e fuggiasco così come Giacobbe e la sua famiglia vi erano entrati bisognosi del cibo che li salvasse dalla morte per fame (Gen 42,1ss; 46,1ss); e come il popolo d’Israele era uscito dall’Egitto libero e salvato, così Gesù dopo un breve soggiorno ne uscì salvato perché "perché erano morti coloro che insidiavano la vita del bambino" e – libero da Erode come Israele dal faraone – "entrò nel paese d’Israele" (Mt 2,20. 21).

"In tal modo Matteo presenta Gesù che rivive la storia di servitù e di liberazione dalla servitù nota al suo popolo nei tempi passati. [...] Significativamente, quindi, Matteo colloca il testo del profeta Osea che annuncia l’esodo dall’Egitto come articolazione che separa/unisce entrata ed uscita: l’entrata di Gesù in Egitto è profezia dell’esodo dall’Egitto. I due eventi non possono essere dissociati: secondo la visione evangelica non c’è schiavitù che non trovi in Gesù liberazione"5.

Gesù aveva appena cominciato a vivere che Maria si vide coinvolta in una vicenda spirituale di proporzioni immense. Certo è grande il dolore per quella fuga, per quel viaggio, per l’oscurità dell’avvenire suo e del suo Figlio, ma grande è soprattutto il dramma che quella fuga rammemora, ripete e attualizza. In quella notte veramente "arcana" si ripresentano le infinite fughe nella notte, le famiglie in esilio, il cammino senza approdo del forestiero, la desolazione di chi non ha un luogo di riparo, l’abbandono della propria casa, lo squallore di chi è fuggito in fretta carico soltanto del proprio niente. E in tutto e sopra tutto la paura perché sulle strade, nella notte ma anche nel giorno, c’è sempre qualcuno che vuole uccidere, sia egli un potente assiso sul trono o un malvagio dal volto mascherato.

Dall’oscurità della notte della fuga si staglia l’icona di Maria, donna esule, sposa intrepida, madre alla ricerca d’un luogo di pace ove abitare con il suo Figlio. E nella nostra notte Maria si ripresenta ancora esule e in fuga in ogni madre che con il figlio in braccio cerca salvezza varcando clandestinamente le frontiere o avventurandosi disperatamente sulle vie dei mari.

 

"A nessuna tomba, di dolore piange chi crede amando"

Tra tutte le notti vissute da Maria quella che intercorre tra il venerdì e il sabato fu certamente la più lunga. Dal punto di vista del racconto evangelico essa cominciò a "mezzogiorno, quando si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio", l’ora della morte di Gesù.

A partire da questo momento il Vangelo si esprime come se tutto si svolgesse in una oscurità che è notte, e notte resa ancora più buia dagli eventi che vi si svolgono. "Sopraggiunta la sera, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù". Pilato concesse la salma a Giuseppe. Questi, "comprato un lenzuolo, calò giù dalla croce Gesù e, avvoltolo nel lenzuolo, lo depose in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare un masso contro l’entrata del sepolcro" (Mc 15,33. 42-44. 46).

Con la sepoltura di Gesù alla notte di Maria, che era cominciata in pieno mezzogiorno, si aggiunge adesso un’oscurità che è ben più spaventevole dell’assenza della luce del sole.

Poiché il Vangelo tace su questa notte di Maria, ci troviamo nell’oscurità anche noi che pur vorremmo entrare pensosi e condividenti nell’animo della madre di Gesù. Per accedere alla comprensione e alla condivisione dello stato d’animo di Maria nella notte del venerdì abbiamo a disposizione due vie: possiamo ricordare lo smarrimento di cui abbiamo fatto esperienza quando abbiamo sentito che la persona amata che moriva portava con sé nella tomba una parte di noi stessi; oppure possiamo far ricorso ad alcuni testi dell’antichità cristiana e della preghiera liturgica e cristiana, che hanno fissato un’esperienza credente e più universale.

È a questi che affidiamo la nostra riflessione.

Nella sua Vita di Maria il teologo e mistico della Chiesa greca del VII sec. Massimo il Confessore ricostruisce con fantasiosa coerenza gli avvenimenti che seguirono alla sepoltura di Gesù6. Egli propone anzitutto un tratto taciuto dal racconto evangelico ma di cui Michelangelo ha genialmente intuito la grandezza scolpendo nel marmo della sua "Pietà" l’umanissima verità di Maria, madre amorevolissima, coraggiosa e forte: "Quando Giuseppe di Arimatea ebbe staccato dalla croce il suo Re e Figlio, Maria accolse tra le sue braccia colui che era stato deposto e abbracciò con tenerezza le membra ferite". Poi Massimo ricorda che le donne che avevano assistito "guardando da lontano" (Mt 27,55) alla tragedia del Golgota, "quando i capi dei sacerdoti e gli scribi si recarono al sepolcro di Gesù con le guardie e condussero uomini della coorte per custodirlo e verificarono la tomba e sigillarono la pietra, allora, prese dalla paura, anche queste donne fuggirono", come in precedenza erano fuggiti gli apostoli, fatta eccezione per Giovanni, il discepolo che amava Gesù ed era amato da Gesù (Gv 19,26). E Giuseppe di Arimatea e Nicodemo (Gv 19, 38-39), dopo aver provveduto a profumare e ad avvolgere nella sindone il cadavere di Gesù, a deporlo nel sepolcro (Mt 27,59-60), così offrendo al loro Maestro un ultimo tributo di devozione, anch’essi, al pari delle donne, avevano lasciato il sepolcro.

A questo punto Massimo scrive un’espressione che forse non corrisponde alla fattualità storica ma i cui tratti incidono con l’essenzialità e la nitidezza d’una xilografia l’icona di Maria come donna inarrendevole nell’amore, coraggiosa nella fede, intrepida nella speranza: "La santa immacolata madre del Signore invece rimase là, presso il sepolcro, sola; guardava attentamente con gli occhi vigili dell’anima e del corpo; prostrandosi in ginocchio, pregava senza interruzione e senza posa": "rimase là", "guardava con gli occhi dell’anima", "pregava". Tre verbi bastano per dipingere l’icona della Madonna Addolorata e di ogni madre nel dolore.

Secondo la sua spiritualità sempre ricca di afflato mistico. la liturgia della Chiesa di lingua greca immagina poeticamente la preghiera della Vergine Addolorata, la donna del dolore, in questa interminabile notte di solitudine, e la propone così: "L’Agnella, vedendo morto il suo Agnello, oppressa dal dolore gemeva, commuovendo tutto il gregge a gridare con lei: Anche se sei sepolto in una tomba, sei tu colui che ha svuotato le tombe. Disceso volontariamente sotto terra, o Salvatore, hai ridato la vita agli uomini morti e li hai riportati nella gloria del Padre. O Luce del mondo, luce mia, Gesù mio dilettissimo! O Dio e Verbo! Mia gioia! Come potrò sopportare la tua sepoltura di tre giorni? Ora le mie viscere di madre sono dilaniate". La preghiera di Maria non si dilunga più di tanto in lamentazioni, ma subito si apre alla speranza: "Quando ti vedrò, o Salvatore, Luce senza principio, gioia e delizia del mio cuore?".

La speranza si tramuta rapidamente in invocazione credente: "Risorgi, o Misericordioso. Risorgi, tu che doni la vita, dice la Madre che ti ha generato"7. Speranza e fede si trasfigurano in certezza, come dice questa invocazione che s. Massimo presta alla Vergine: "Io so con certezza che tu risorgerai, e che avrai pietà prima di tutto di tua Madre e poi di questa Sion e di Gerusalemme che ha tanto peccato: ivi chiamerai a raccolta tutti i pagani ed edificherai il tempio vivo della Chiesa dei pagani. Felice il giorno, quando mi farai sentire di nuovo la tua dolce voce, quando rivedrò il tuo volto divinamente bello e sarò ricolma della tua grazia desiderata. Beato il momento quando ti contemplerò manifestamente come Dio vero e Signore dei vivi e dei morti".

Il dolore di Maria è grande, ma più grande è la sua fede e del tutto conforme al mistero cristiano, secondo il quale non c’è dolore che non venga da Dio tramutato in gioia, non c’è morte che non venga trasformata in vita, perché il giorno che dura in eterno non è il venerdì della Passione, ma la domenica della Risurrezione.

Questa notte vissuta dalla Vergine esperta della solitudine e del dolore insegna al cristiano pregare così: "Santa Maria, Vergine della notte, noi t’imploriamo di starci vicino quando incombe il dolore e irrompe la prova e sovrastano la nostra esistenza il freddo delle delusioni e l’ala severa della morte. Santa Maria, liberaci dal brivido delle tenebre. Tu che, nell’ora del Calvario, hai sperimentato l’eclissi del sole, stendi il tuo manto su di noi, perché ci sia più sopportabile la lunga attesa della libertà.

"Alleggerisci con carezze di madre la sofferenza dei malati. Riempi di presenze amiche e discrete il tempo vuoto di chi è solo. Rivolgi gli occhi tuoi misericordiosi a chi ha perso la fiducia nella vita. Santa Maria, donna del dolore, non lasciarci soli nella notte a gemere sulle nostre paure. Se, nei momenti di oscurità, sarai vicina a noi e ci sussurrerai che anche tu, Vergine della speranza, hai atteso lo spuntare della luce, le sorgenti del pianto si disseccheranno sul nostro volto. E sveglieremo insieme con te l’aurora"8.

Maria, Vergine della notte, Madre dal cuore trafitto, Donna della speranza.

 

"Tacito nunzio di misteri infiniti"

Il racconto evangelico della Passione è drammatico sotto molti aspetti, oltre quello, tragico, che riguarda Gesù. Due verbi fissano la situazione determinatasi con l’arresto di Gesù durante la notte del giovedì nel Getsemani: "Tutti abbandonarono (Gesù) e fuggirono" (Mc 14,50). Di questi fuggiaschi tre ricompaiono sulla scena evangelica ove personificano gli atteggiamenti spirituali possibili di fronte al fallimento di Gesù in questo momento. Giuda, "sballottato dalla notte come un barile dalle onde", vive "una notte senza stelle, profonda e tumultuosa come l’alto mare"9 e, cedendo alla disperazione, va ad "impiccarsi" (Mt 27,3-10; At 1,18-19): egli e l’emblema della disperazione.

Pietro ricompare sulla scena evangelica con una fisionomia in cui si mescolano le maggiori contraddizioni: è il discepolo fedele che segue Gesù nella notte dell’abbandono da parte di tutti gli altri apostoli e nel luogo della condanna; è il discepolo che dopo tanto coraggio proprio allora e lì diventa rinnegatore del suo Maestro e persino spergiuro; è il discepolo subito si pente, si ravvede e ritorna fedele (Mc 14,53-54. 66-71; Gv 21,15-19).

Il Vangelo non dice che cosa sia stato di Giovanni mentre si svolgevano queste vicende: egli compare sul Calvario, presso la croce, insieme ad alcune poche donne fedelissime e alla Madre di Gesù. È a Maria e a Giovanni che, sul punto di morire, il Crocifisso affida un testamento in cui sono racchiuse le molte cose significate dall’affidamento del discepolo alla madre e della madre al discepolo ed espresse figurativamente nell’espressione: "E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa" (Gv 19,27).

Gli esegeti hanno stretto entro un amorevole assedio questa espressione greca (eis tà ídia) intuendo che la sua oscurità è causata non da mancanza ma da eccesso di senso: è ovvio infatti che essa significa molto di più del solo abitare di Maria "nella casa" di Giovanni a Gerusalemme (o a Efeso, secondo un’antica tradizione). Pur nella sua elementarità, questo riferimento ci serve comunque quale punto di partenza per considerare l’animo di Maria nella notte tra il Sabato di Gesù nella tomba e la Domenica della sua risurrezione.

Se quella del Venerdì era stata la notte del dolore e del trauma perché la morte aveva spezzato la vita, quella del Sabato fu la notte dello sconcerto perché in essa la fede nella risurrezione era messa alla prova del tempo, del protrarsi della scadenza, dell’attesa d’un compiersi che sembrava impossibile. Fu tempo di fede, ma anche di tentazione della fede; fu tempo di speranza, ma anche di tentazione della speranza. In quella notte fu necessario un amore indefettibile e incrollabile, perché la fede crolla e la speranza si spegne se viene a mancare l’amore.

La lettera pastorale per l’anno corrente è stata dedicata dal vescovo di Milano a La Madonna del Sabato santo10. In essa il card. C. M. Martini immagina di introdursi con grande discrezione nella "casa" di Giovanni e di mettersi a dialogare con Maria. Poiché il Vangelo cela nel più assoluto silenzio la permanenza di Maria in quella casa, ciò che ci può aiutare a scostare un poco questo velo è il parallelo con la presenza di Maria in un’altra casa – quella di Nazaret – ove aveva avuto luogo l’Annunciazione e nella quale la Vergine era stata presente da protagonista.

L’Annunciazione segna il sopraggiungere del compiersi delle promesse: di quella biblicamente chiarissima legata alla nascita di un discendente di Davide, erede del suo trono e del suo regno (Lc 1,32; 2 Sam 7,1ss); di quella biblicamente oscura riguardante il "resto d’Israele" composto da quei credenti poveri e umili – gli ‘anâwîm – al cui numero Maria mostra di appartenere quando "magnifica il Signore" ed "esulta" perché "Dio ha guardato all’umiltà della sua serva" (Lc 1,46-48)11; di quella biblicamente oscurissima per Maria (e per noi) benché esplicita nelle parole dell’angelo: "Colui che nascerà sarà Santo e chiamato Figlio di Dio" (Lc 1,35). Maria viene così a trovarsi in una situazione in cui tutto è chiaro a livello di Parola di Dio, ma tutto è oscuro alle esigenze della razionalità, incompiuto nel tempo, rimandato ancora al futuro pur avendo già attraversato secoli di storia.

Pensieri come questi devono aver attraversato l’animo di Maria in quella notte del Sabato: le era ben chiara sia la previsione di Gesù – "Il Figlio dell’uomo sarà schernito, oltraggiato, flagellato e ucciso" – sia la sua promessa – "Il terzo giorno risorgerà" (Lc 18,31-33) –, e tuttavia in quella notte la sua razionalità poteva costatare che l’unica verità compiuta nei fatti e nel tempo era quella della morte. La risurrezione di Gesù? Sì, Maria credeva che sarebbe avvenuta, ma "il terzo giorno" quando sarebbe arrivato? quale sarebbe stato?

Nell’Annunciazione Maria aveva potuto chiedere all’angelo di spiegare alla sua razionalità come sarebbe potuta diventare possibile l’impossibile maternità che egli le aveva proposto. E ne aveva ottenuto la spiegazione (Lc 1,34-35); e anche se questa aveva abbagliato la sua razionalità con la luce del mistero, tuttavia aveva acceso la sua fede, come aveva riconosciuto Elisabetta: "Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45).

Nella notte del Sabato, invece, ci sono per Maria soltanto interrogativi; interrogativi che ella deve vivere nella più totale solitudine; interrogativi che non trovano risposta perché non c’è Gabriele a rispondervi; interrogativi ai quali poteva dare risposta soltanto la fede. Notte della fede da vivere entro una notte di fede. Inoltre, Maria vive la notte del Sabato nell’accettazione di una solitudine inconsolabile, nel silenzio di qualsiasi parola illuminatrice, nell’oscurità di una spiegazione che non viene, nella resa al mistero di Dio. Se questa non è fede…

Già la tradizione monastica medievale aveva dato rilievo al fatto che nel Sabato in cui Gesù fu nella tomba Maria si conservò più di tutti salda nella fede. Questo Sabato fu riempito dalla fede di Maria; è lei a tenere accesa la fiamma della fede: è come se la fede della Chiesa si fosse raccolta in lei12. È questa una delle ragioni teologiche che hanno indotto la dedicazione del sabato alla memoria di Maria13. A buon diritto la preghiera cristiana canta la fede che Maria ha vissuto in ogni tempo e soprattutto nella notte del Sabato: "Hai creduto al tuo Figlio: /quando cresceva come uno di noi, /quando parlava l’eterna parola, /quando moriva tradito su un legno. – Hai creduto alla Pasqua: /dopo la croce risplende la luce, /che ti fa madre di tutti per sempre, /china sui passi di ogni tuo figlio"14.

Anche l’Annunciazione aveva segnato per Maria l’inizio del tempo dell’attesa, un’attesa che si prolungò fino a quando, a Betlemme "si compirono per lei i giorni del parto" (Lc 2,6). Da allora Maria visse un cammino che la rese esperta dell’attendere: per trent’anni aveva atteso a Nazaret che Gesù desse inizio alla sua missione; poi per tre anni aveva atteso che venisse riconosciuto se non come Figlio di Dio, almeno come Messia d’Israele; durante tutti i giorni della Passione aveva atteso che venisse riconosciuta l’innocenza del suo Figlio; sul Calvario per tre ore (Mc 15,33) aveva atteso che morte mettesse fine alle sofferenze del Figlio crocifisso e al suo strazio di madre. E anche quando tutto era giunto a compimento, come ella aveva udito dire dal Figlio morente (Gv 19,30), in questa notte di Sabato bisogna attendere ancora15.

E questo è un tempo di attesa diverso da quelli vissuti da lei in precedenza: davanti a quelle attese si profilava l’orizzonte della fine, fosse pure quello della morte. Adesso, invece, c’era soltanto da attendere: attendere confidando nella promessa di Gesù, attendere l’aurora del misterioso "terzo giorno", attendere l’alba della vittoria della vita sulla morte. Per quanto avvolto nell’oscurità, questo è tuttavia il vero volto dell’attesa: quello dell’attesa che confida nella promessa divina, che si radica nel mistero della Pasqua, che crede alla vittoria della vita, che spera nella ripresa della vita. Chi aspetta senza sperare così crede di aspettare, ma in realtà non aspetta proprio niente16.

Soltanto chi ha speranza vive in attesa, perché la speranza è la vita dell’attesa. La "speranza viva" (1Pt 1,3) mantiene viva l’attesa, la quale è capace di credere alla vita sempre, perfino, come Abramo, "contro ogni speranza" (cf Rm 4, 18).

A raffigurarci l’attesa vissuta da Maria nella notte del Sabato ci aiuta l’esperienza del sacerdote e poeta Clemente Rebora, da lui espressa nella celebre lirica (del 1920) Dall’immagine tesa17, nella quale il vuoto dell’attesa e il dolore per l’assenza vengono trasfigurati dalla fede e dalla speranza in gioiosa percezione dell’approssimarsi dell’Assente: "Vigilo l’istante con imminenza di attesa – e non aspetto nessuno. [...] Non aspetto nessuno: ma deve venire, verrà, se resisto, a sbocciare non visto, verrà d’improvviso, quando meno l’avverto; verrà quasi perdono di quanto fa morire, [...] verrà, forse già viene il suo bisbiglio".

Anche la preghiera cristiana contempla l’attesa di Maria: "Tu attendi vigile che dal buio scaturisca la Luce, dalla terra germogli la Vita. Attendi l’alba del giorno senza tramonto, l’ora del parto dell’umanità nuova. Attendi di vedere nel Figlio risorto il volto nuovo dell’uomo redento, di udire il nuovo saluto di pace, di cantare il nuovo canto di gloria"18.

Maria, donna dell’attesa, vergine della speranza, madre sempre sulla soglia ad additare il nuovo nascere del giorno.

È vero che nell’Annunciazione Maria era rimasta "turbata" (Lc 1,29) e tuttavia, pur permanendo la sorpresa e lo sconcerto, era prevalsa su tutto la gioia, come attestato da quel "fiat", da quell’"avvenga di me", che secondo il greco (ghenóito) vale accoglienza gioiosa, addirittura festosa del messaggio recato dall’angelo a Maria. Invece in questa notte di Sabato non echeggia alcuna gioia; se non c’è l’angelo dell’Annunciazione, potesse esserci almeno quello che nel Getsemani aveva confortato Gesù (Lc 22,42): invece niente, nessuno.

Dove Maria ha potuto attingere il coraggio di restare presente quando tutti erano fuggiti? Dove Maria ha attinto la forza di continuare a sperare quando non c’erano orizzonti per la speranza? Inoltre, come noi anche Maria dovette interrogarsi sul senso e sul valore di tutto quel silenzio, di tutta quella solitudine, di tutto quel soffrire nel silenzio e nella solitudine.

La risposta che Maria dovette darsi è anche la spiegazione che ella dà a noi. Nei giorni della Pasqua più che in ogni altro tempo "si è manifestato l’amore di Dio per noi" (1Gv 4,9): il Padre non ha risparmiato il suo Figlio ma lo ha dato per tutti noi (cf Rm 8,32); "il Figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20). Nella notte del Sabato l’amore di Maria ha raggiunto il vertice della purificazione, dell’essenzialità, della trasparenza perché in questo momento il suo amore aveva per fondamento soltanto la fede e per orizzonte soltanto la speranza.

Nella notte del Sabato, sulla soglia del compirsi del triduo pasquale, Maria vive per intero la triade della santità cristiana: la fede, la speranza e la carità, e la vive secondo la scansione ascensionale insegnata da s. Paolo: "Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità" (1Cor 13,13). "Nel suo Sabato santo" la verità di Maria ci si offre anche nell’ampiezza della sua esemplarità: oggi Maria è "l’icona della Chiesa dell’amore, sostenuta dalla fede più forte della morte e viva nella carità che supera ogni abbandono" e insegna ad "amare anche nella notte della fede e della speranza"19.

Maria, Madre dal dolore immenso e dall’infinita pace, Donna del terzo giorno, Vergine dell’alba dell’eterna Pasqua.

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