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S in dalle sue
origini, il cinema ha prodotto le sue proprie interpretazioni della
storia di Gesù. Già nel 1897, l’anno dopo l’invenzione del cinema, i
primi lavori teatrali per film sulla Passione, essenzialmente collezioni
di quadri statici sulla Via Crucis della durata di solo pochi minuti,
cominciavano a esser prodotti e vastamente proiettati e frequentati
dagli entusiasti patroni della nuova arte del cinema.
La Passione di Cristo
di Mel Gibson porta questa tradizione di centosei anni al completamento
del suo ciclo: come quei primi film e come le tradizionali Stazioni
della Via Crucis e i Misteri dolorosi del Rosario, il film di Gibson è
limitato alle ultime dodici ore della vita di Gesù, a cominciare dalla
scena nell’Orto di Getsemani e concludendosi con la morte di Gesù sulla
croce. Il film include anche parecchie scene retrospettive di eventi
della vita pubblica di Gesù e un breve riferimento alla Risurrezione.
Fin dalle sue origini, il cinema ha
prodotto le sue proprie interpretazioni della storia di Gesù. Già nel
1897, l’anno dopo l’invenzione del cinema, i primi lavori teatrali per
film sulla Passione, essenzialmente collezioni di quadri statici sulla
Via Crucis della durata di solo pochi minuti, cominciavano a esser
prodotti e vastamente proiettati e frequentati dagli entusiasti patroni
della nuova arte del cinema.
La Passione di Cristo
di Mel Gibson porta questa tradizione di centosei anni al completamento
del suo ciclo: come quei primi film e come le tradizionali Stazioni
della Via Crucis e i Misteri dolorosi del Rosario, il film di Gibson è
limitato alle ultime dodici ore della vita di Gesù, a cominciare dalla
scena nell’Orto di Getsemani e concludendosi con la morte di Gesù sulla
croce. Il film include anche parecchie scene retrospettive di eventi
della vita pubblica di Gesù e un breve riferimento alla Risurrezione.
Lo sviluppo della
tradizione dei film su Gesù
Fin dal 1897 e le prime “Passioni”, la
tradizione dei film su Gesù ha subito molte variazioni e alcuni dei suoi
più acclamati e importanti film hanno rivelato un’interessante diversità
di modi di affrontare l’argomento, sia in stile sia in contenuto.
Hollywood ha poi apportato la sua
impronta con una serie di film epici su Gesù: Il Re dei re, di De
Mille, nel 1927, Re dei re, di Nicholas Ray, nel 1961 e La più
grande storia mai raccontata, di George Stevens, nel 1965. Più
tardi, Broadway e i suoi drammi musicali hanno ispirato due film su Gesù,
entrambi usciti nel 1973: il rock-musical Jesus Christ Superstar,
di Norman Jewison, ispirato da un’unica canzone bestseller da un
milione di dollari dallo stesso nome e Godspell, il molto più
serio folk-musical, basato su una tesi di Master’s in Teologia. Il
susseguente mutamento della tradizione è in forma di giallo psicologico,
L’Ultima Tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, la cui messa
in circolazione incontrò veementi proteste nel 1988.
Negli anni ‘70 furono prodotti due film
italiani su Gesù che ebbero un impatto duraturo sulla tradizione: Il
Messia, di Rossellini nel 1975, che, con i suoi moderati costi di
produzione e prolungati dialoghi, ha proposto quella che è stata
definita l’impostazione didattica e, nel 1977, Gesù di Nazaret,
di Zeffirelli, che, con la sua bellezza e il suo buon gusto, annunciò
l’impostazione estetica ed è rimasto, sin d’allora, una pietra miliare
di cui ognuno che aspiri a fare un film su Gesù deve tener conto.
Negli anni recenti, andando incontro al
gusto popolare e alla sensibilità ormai conformata alla televisione,
sono stati prodotti tre film su Gesù: Jesus, fatto in Italia – da
cattolici – come parte di una serie di film biblici, The Book of
Matthew, nel 2002 e The Gospel of John, nel 2003, prodotti
negli Stati Uniti da gruppi evangelici protestanti. Questi film
affrontano la narrazione del Vangelo in un modo molto letterale. Tutti e
tre trovano il loro mercato specialmente nell’ambito del “video-market”.
Non c’è dubbio che l’apogeo della
tradizione dei film su Gesù sia stato segnato da Il Vangelo secondo
Matteo, di Pier Paolo Pasolini, prodotto nel 1964 e accolto con
grande acclamazione della critica lungo gli anni. Fatto piuttosto
significativo: è l’unica vita Christi inclusa nella lista del
Vaticano dei più grandi film religiosi, pubblicata nel 1997.
Data l’imponente capacità del cinema a
raggiungere e toccare la vita di milioni di persone, non è facile per
un/a cristiano/a con un minimo di spirito missionario obiettare ad una
rappresentazione di Gesù in quel medium. Ogni onesto tentativo di
rappresentare artisticamente la vita di Gesù è, in teoria, lodevole;
tuttavia dobbiamo riconoscere che tutti i film su Gesù, dati lo sfondo e
le scelte stilistiche dei loro registi, pongono agli spettatori e ai
critici problemi spinosi: molti di essi, infatti, diventano lezioni su
che cosa evitare nel fare un film su Gesù.
Per esempio, le “Passioni” dei primi
tempi, proprio perché sono mute e brevi, favoriscono un’esagerata
gesticolazione da parte degli attori e un aspetto crudamente
caricaturale dei personaggi, separandoli nettamente in “buoni” e
“cattivi”. Naturalmente i “cattivi” sono ebrei, per la maggioranza
rappresentati come brutti, avari, assetati di sangue, totalmente
riprovevoli. Questa tecnica semplicistica, molto problematica, salta
all’occhio guardando, per esempio, i brevi episodi su Gesù in
Intolleranza, di Griffith (1916). I discepoli di Gesù sono
sfacciatamente “buoni”, mentre le autorità religiose ebree preoccupate,
sempre in complotto, esteticamente sgradevoli, sono, dalla prima
all’ultima, sfacciatamente “cattive”.
La tradizione dell’epica hollywoodiana
solleva parecchie questioni, fra le quali quello di inventare
l’abbellimento nel romanzare il testo del Vangelo, con personaggi non
storici e non biblici, spesso molto elaborati e disgiunti dalla storia
centrale di Gesù e che spesso la sminuiscono. Per esempio, le scene
softporn dell’assolutamente improbabile relazione tra Maria
Maddalena e Giuda, all’inizio de Il Re dei re di De Mille –
inclusa un’orgia al sontuoso palazzo di Maddalena, e Maria che cavalca
verso l’orizzonte (alla Ben-Hur) in una biga trasportata da quattro
zebre – inquadrano in un tono disastrosamente sbagliato la storia di
Gesù che le segue. Più tardi, nel film Il Re dei re, Ray crea un
personaggio inventato, il gentile centurione Lucio che, dalla nascita
alla morte di Gesù, mantiene contatti con tutti i protagonisti: in
realtà, e stranamente, è Lucio e non Gesù che dà coesione alla
narrazione.
Dando per scontato il diritto di scelta
– gli artisti hanno il diritto di basare un film sulla propria ottica,
anche profondamente personale, su Gesù e sull’evento Cristo, – tutti i
film su Gesù che romanzano il testo e lo spirito della Bibbia presentano
un particolare problema.
È un fatto ben documentato che il
pubblico tipico, gli spettatori o i telespettatori, percepisce quello
che vede sullo schermo – un’immagine il cui impatto è aumentato e molto
ingrandito dal vasto schermo in Technicolor, vari effetti
fotografici super-realistici e un possente sistema sonoro THX – come
realtà.
Se, poi, si tratta di un film anche
vagamente biblico, quello che appare sullo schermo è percepito come
realtà biblica. Quindi, allorché un film – forse ricolmo di materiale
non-storico, non-biblico e che, forse, propone anche una cristologia e
una teologia della salvezza così lontane da quelle comunemente proposte
dalla Chiesa odierna dall’essere addirittura eretiche – si presenta, o è
lodato da altri, come “veramente cattolico nella sua visione”, come
“l’autentica storia della Bibbia”, la critica cattolica ha il diritto e
il dovere di indicare gli errori, i punti deboli e le limitazioni di
questo film.
Un’altra dimensione problematica dei
film su Gesù riguarda gli attori che vengono scelti per interpretare i
personaggi biblici. Ne La più grande storia mai raccontata, per
esempio, il contrasto fra il solenne, lugubre Max von Sydow (nella parte
di Gesù) – un attore i cui ruoli precedenti erano stati principalmente
quelli di tormentati antieroi nei film di Ingmar Bergman – e le varie
star hollywoodiane in brevi ruoli, tipo Charlton Heston, Shelley Winters,
Sidney Poitier, Angela Lansbury e Telly Savalas fa sorgere la questione
dell’identità di attori popolari che, inesorabilmente, interferisce coi
personaggi rappresentati – il regista francese Robert Bresson li chiama
oscuri “filtri” – e lo stesso si dica della comunicazione del messaggio
evangelico.
Un’altra fatale limitazione de La
più grande storia è la decisione, da parte di Ray, di oscurare a tal
punto l’identità ebrea di Gesù – per esempio l’Ultima Cena non è
rappresentata come un pasto rituale ebreo – che, alla fine, non solo
Gesù non risulta ebreo, ma anche la sua concreta umanità e storicità
finiscono con lo sparire e, in effetti, con la negazione della fede
cristiana nell’Incarnazione, Gesù diventa una specie di strano Cristo
universale, astratto e irreale.
I due film-musical su Gesù
introducono il problema della credibilità ed efficacia di un personaggio
Gesù che, assieme ai suoi discepoli, si mette ogni tanto a cantare – in
Godspell, magari, la cosa funziona, ma in Superstar, no –
e poi Superstar, con la sua peculiare interpretazione della
storia di Gesù, in uno stile frammentario postmoderno, è una classica
prova delle limitazioni di quel genere e della conseguente
dispersione della proclamazione evangelica. Un’ancor più grave
limitazione di entrambi i film è che, Superstar in modo
particolare, rappresentano la Risurrezione vagamente e in modo non
corretto.
Gesù di Nazaret,
con tutta la sua tecnica impeccabile e la sua bellezza mozzafiato, manca
dell’incisività che contraddistingue i vangeli e che dovrebbe
caratterizzare una rappresentazione della storia di Gesù.
Scrupolosamente autentico per quanto riguarda i costumi, l’ambiente
culturale e la messa in scena, il film diventa una serie di attraenti
tableaux da cartolina, ivi inclusa una crocifissione sterilizzata,
una specie di Passione-senza-la passione. L’im-patto radicale del
Vangelo, quindi, svanisce. Anche Zeffirelli cade nella trappola di
Nicholas Ray, creando un personaggio non-biblico, Zerah, che manipola a
tal punto sia le autorità romane sia quelle ebree che, alla fin fine, è
lui – un personaggio storicamente inesistente – ad essere il maggior
responsabile della morte di Gesù. Zerah assolve due funzioni: fa
opportunamente deviare qualsiasi accusa di anti-semitismo e, allo stesso
tempo, crea una subtrama che serve a mantener vivo l’interesse degli
spettatori durante questo lunghissimo film.
Il tono freddamente didattico de Il
Messia di Rossellini – nel quale Gesù insegna e predica più che in
qualunque altro film – lascia lo spettatore indifferente e la sua molto
abbreviata, distaccata rappresentazione della Passione fa sembrare la
morte di Gesù più quella di un eroe, tipo Socrate, forse, che l’atto
appassionato di spoliazione sacrificale del Dio Incarnato, che effettua
la salvezza dell’umanità.
Anche il popolare modo di affrontare il
Vangelo mostra severe limitazioni. Per esempio, il cattolico film
Jesus illustra bene il pericolo della diluizione del testo
evangelico e del messaggio cristiano, come nel caso della scena della
samaritana, al pozzo. Gesù e i discepoli si mettono a tirarsi acqua
addosso e Gesù finisce col non costruire mai il suo cruciale dialogo con
la donna. Stratagemma, questo, inteso ad attirare qualunque pubblico; la
dichiarazione del produttore: «Abbiamo voluto accertarci di non
offendere né cattolici, né protestanti, né ebrei, né mussulmani», dice
tutto; il film non offende nessuno, ma il sale del Vangelo è stato
rimpiazzato dallo zucchero.
Sia The Book of Matthew sia
The Gospel of John, film mai distribuiti commercialmente, mettono
bene in evidenza i problemi di una trasposizione troppo letterale e,
tutto sommato, blanda del testo biblico, nella sua interezza e
verbatim, al medium cinematografico, coi suoi propri canoni
stilistici ed esigenze. Il guru delle comunicazioni Marshall McLuhan
dice che «il medium è il messaggio» e il medium
cinematografico comunica il suo messaggio in modo diverso da quello
della stampa e della proclamazione verbale.
Fino a La passione di Cristo di
Gibson, L’Ultima Tentazione di Cristo di Martin Scorsese è stato,
senza dubbio, il più controverso dei film su Gesù. Quando uscì, molti
furono scandalizzati, a causa di un malinteso di base, dalla sequenza
dell’«ultima tentazione», che fu interpretata come un’obiettiva
rappresentazione di un’azione sessuale di Gesù. In realtà, la questione
ben più grave del film era la sua incongruenza e le spesso bizzarre
decisioni tecniche adottate: per esempio, una canzone musulmana che
invoca Allah durante la scena dell’Ultima Cena e un’anacronistica e
incredibilmente cruenta scena del “sacro Cuore”, al di là di ogni
estremo.
Il film, inoltre, erra grandemente
nella sua analisi psicologica e nel distorto ritratto antropologico che
fa di Gesù, come di un uomo che soffre di severi conflitti psicologici,
quasi a rasentare la psicosi, e che, in effetti, non risolve mai i suoi
conflitti. Alla fine è grazie al suo intimo amico Giuda che questo Gesù
finisce col morire sul Calvario1.
In ultima analisi, nonostante le ripetute affermazioni fatte da Scorsese
alla stampa sulla sua fede cattolica e nonostante l’affrettata smentita
che precede i titoli, l’Ultima Tentazione non riesce a risolvere
adeguatamente il mistero dinamico della dimensione umano-divina
dell’esistenza di Gesù e a rappresentare una valida teologia cristiana
della salvezza.
La Passione di
Gibson
L’ultimo dei film su Gesù, La
Passione di Cristo, offre una potente esperienza emozionale; a volte
è doloroso osservarla e doloroso rifletterci. Solo nominalmente simile
ai primi film sulla Passione, il lavoro di Gibson, ovviamente, li
sorpassa di gran lunga: la sua durata, la complessità della sua
narrativa e il suo stile contemporaneo sono tutti elementi che lo
distanziano dalle prime “Passioni”, così come il fatto che non solo
rappresenta visualmente gli elementi tradizionali della Passione di Gesù,
ma li interpreta, dando loro una certa spinta teologica. Mentre i primi
film erano muti, con occasionali titoli a indicare il dialogo, Gibson fa
parlare ai suoi personaggi le lingue antiche: Gesù e gli altri ebrei
parlano l’aramaico e i romani, la lingua latina.
La Passione
di Gibson, pur evitando la maggior parte degli eccessi delle epiche
hollywoodiane, a volte sviluppa, in modo irritante, alcune dimensioni
della narrativa biblica, facendole andare, generalmente, verso il
sentimentale. Dà un ruolo molto ingrandito alla moglie di Pilato e alla
sua intercessione perché il marito non condanni Gesù; include
addirittura un accorato incontro fra lei e la madre di Gesù. Anzi Gibson
crea un rapporto dinamico fra Maria, Maria Maddalena2
e la moglie di Pilato e, in un certo senso, la sua
rappresentazione della Passione di Gesù è vista e adattata attraverso i
loro occhi. Ci sono dei momenti molto belli nell’interazione delle
donne, per esempio, quando Maria, aiutata da Maria Maddalena e Claudia e
seguendo un rito ebreo – osservato ancor oggi quando gli ebrei sono
dilaniati dalle bombe suicide – asciuga il sangue di Gesù dal suolo, nel
luogo della flagellazione3.
Comunque, alla fine, quest’ingegnoso accorgimento, che funge – a volte –
da sollievo dall’orrore della tortura di Gesù, tende troppo verso il
sentimentale.
La scena stessa della flagellazione,
che sembra senza fine, la sua crudeltà sadica aumentata da troppe scene
estreme, in primo piano, – per esempio, il sangue che schizza e la carne
piagata e anche da un pesante accompagnamento musicale, che spesso
echeggia il molto sintetizzato sonoro del film di Scorsese e le sette o
otto terribili cadute di Gesù durante la sua ascesa al Calvario – non
trovano giustificazione come necessaria sofferenza di Gesù in espiazione
dei peccati dell’umanità. Sembrano più elementi pseudo-biblici,
equivalenti alle sanguinose scene di battaglia che costellano il
precedente sforzo registico e recitatorio di Mel Gibson: Braveheart
(1995), tutto azione, ma scarso significato morale-spirituale.
Più di una volta, Gibson scivola nel
kitsch che caratterizza i film su Gesù hollywoodiani. Per esempio,
per far sí che Gesù, in catene, incontrasse ancora una volta Giuda,
Gibson lo fa percuotere dai soldati che lo arrestano, gli fa perdere
l’equilibrio e lo fa cadere da un precipizio e, in una strana imitazione
dello sport estremo di bungee-jumping, lo fa rimanere sospeso a
breve distanza dal suolo, sopra Giuda. Più tardi, per punire il ladrone
che aveva insultato Gesù, Gibson fa discendere un immenso corvo sulla
sua croce che, in quello che mi sembra un riferimento a Gli uccelli
di Hitchcock (1963), gli becca gli occhi; la raffinata scena è
fotografata in primissimo piano. Poi, verso la fine della crocifissione,
Gibson fa avvicinare Maria di Nazaret al figlio morente e le fa baciare
i suoi piedi; ne esce con bocca, viso e vestiti insanguinati. L’effetto
è davvero bizzarro, un po’ una via di mezzo fra immagini di vampiro e le
terribili immagini dell’insanguinata e disperata Jacqueline Kennedy, il
22 novembre 1963. Più tardi, a suggerire che il soldato romano con la
lancia è “lavato nel sangue dell’Agnello”, Gibson, in una mossa
veramente strana, fa cadere l’uomo in ginocchio e lo fa pregare sotto
una vera e propria doccia del sacro sangue di Gesù. Nessuno ha pensato
di dire ai tecnici degli effetti speciali che a quel punto, dopo dodici
ore di spargimento di sangue, sarebbe rimasto a Gesù ben poco del suo
sacro sangue e, certamente, non sarebbe sprizzato dal suo costato.
Il terremoto, che nel Vangelo strappa
il velo del tempio in due (Lc 23,45) ne La Passione continua
indefinitamente e spacca l’intero tempio in due. Uno dei più strani
effetti nel film è la “lacrima di Dio”, una goccia d’acqua che, grazie a
manipolazione digitale, cade con gran suono dall’occhio di Dio in cielo
fino alla terra e sul Calvario e dà inizio alla violenta
tempesta-terremoto che indica la morte di Gesù.
Sarebbe dir poco affermare che La
Passione di Gibson non ha niente del film musicale, ma il suo
ritratto di Erode come un nervoso, smorfioso, nevrotico con tanto di
parrucca sulle ventitré, buttata là in fretta, sembra presa di peso da
Jesus Christ Superstar. Mi stavo quasi aspettando che il Tetrarca
conducesse Gesù alla sua piscina e, cantando, gli domandasse: «change
the water into wine» (trasforma l’acqua in vino)…
Se Gesù di Nazaret e Il
Messia mancano, da una parte, d’incisività e dall’altra d’impatto
emozionale, il film di Gibson compensa per entrambi. A nessun punto
della storia cerca di rappresentare la bellezza fine a se stessa, la sua
tesi teologica è chiarissima e l’impatto emozionale sullo spettatore è
incontestabile.
Infine, mentre, da un canto, Gibson
cerca accuratamente di evitare la dominante e fatale analisi
psico-sessuale de L’Ultima Tentazione di Cristo, in sostanza,
proprio come Scorsese, soggioga lo spettatore alle stesse montagne russe
emozionali. I due film hanno in comune alti valori di produzione:
fotografia molto energica, con velocissime lenti, molte riprese
soggettive dal punto di vista del morente Gesù, effetti speciali, – in
Gibson limitati principalmente ai suoi vari personaggi ripugnanti
raffiguranti il male – montaggio aggressivo e pesante e, a volte,
un’opprimente messa a fuoco della violenza fisica ed emozionale. In
Scorsese ci sono alcuni momenti di sollievo visivo ed emozionale, ne
La Passione di Gibson, pochissimi.
Il Vangelo
di Pasolini e La Passione di Gibson
Il Vangelo secondo Matteo
di Pasolini è stato ed è tuttora il più grande dei film su Gesù. La
Passione di Gibson, sebbene radicalmente diversa da esso,
stranamente ha molti punti in comune con Il Vangelo. Pasolini ha
fatto il suo film in seguito a una profonda esperienza personale
religiosa, con la quale era stato graziato dopo aver letto il Vangelo di
Matteo durante un ritiro ad Assisi. L’impegno di fede di Gibson nella
tradizione cattolica, risultatomi ancor più evidente in un colloquio a
quattr’occhi con lui dopo la proiezione de La Passione, è
innegabile. Entrambi questi uomini hanno prodotto i loro film con
infaticabile coraggio ed energia spirituale.
I due film sono documenti forti e senza
compromessi in contenuto e stile. I messaggi cristiani che proclamano
sono chiari e privi di ambiguità; mettono a confronto gli spettatori,
forse in modo disagevole, con scelte radicali – come fece la
predicazione di Gesù. Forse per questa ragione, entrambi i film sono
stati sottoposti a una tempesta di controversie. Per mesi, nel
1963-1964, durante la produzione del Vangelo di Pasolini, accuse
e condanne vennero pubblicate nei media italiani da persone che,
naturalmente, non potevano aver idea di come il film, alla fine, sarebbe
riuscito. Il nocciolo dei commenti negativi, provenienti soprattutto da
circoli legati al Partito Cristiano Democratico, era che Pisolini –
ex-membro del Partito Comunista, ateo e apertamente omosessuale – non
poteva fare un film valido su Gesù; anzi, tale film non poteva che
essere una perversione del Vangelo. La premiere del film al
Festival di Venezia del 1964 era presieduta da centinaia di carabinieri
armati; si aspettavano dimostrazioni. Il film fu anche aspramente
criticato da L’Osservatore Romano, però trentatré anni dopo il
Vaticano riconobbe la sua grandezza.
Le accuse di
anti-semitismo
La Passione
di Gibson ha generato più commenti e controversie della maggior parte
dei film su Gesù4,
sia prima, sia dopo la sua proiezione; anzi, una vera e propria animata
atmosfera di polemica si è sviluppata nei suoi confronti. Accuse e
contro-accuse sono state pubblicate nei media quasi quotidianamente, per
la maggioranza riguardo a quella che si sospetta e si teme che sia la
posizione anti-semita del film. Alcune accuse sono basate su un
montaggio primitivo del film, precedente a una vigorosa revisione. La
maggioranza di esse era basata su copie abusive di una versione iniziale
della sceneggiatura del film; improbabile motivo su cui basare un
giudizio finale del film, perché la maggioranza dei montaggi finali –
eccezione fatta, forse, dei film di Hitchcock – differiscono grandemente
dalle loro ideazioni originali.
Teologi, pastori e alte autorità della
Chiesa sono stati arruolati da entrambi i gruppi, nella speranza di
rafforzare le loro posizioni. Perfino il sofferente Giovanni Paolo II è
stato ingiustamente e sfortunatamente invischiato nella controversia,
con pretese, da una parte, che lui abbia visto il film e che gli sia
piaciuto e con insistenti smentite, dall’altra, che il Papa non fa
commenti sui film, preferendo lasciare quel compito agli esperti5.
Naturalmente, anche se il Papa ha visto il film, la sua valutazione
dello stesso, sia essa positiva o negativa (il suo presunto commento: «È
com’era», sembra positivo.) non ha certo la teologica e vincolante
autorità di un pronunciamento ex cathedra.
Inoltre, recensioni negative sono state
scritte da persone che non hanno visto il film, invocando l’oscura ombra
dell’Olocausto e pretendendo, allarmisticamente, che il film potrebbe
sguinzagliare nuove persecuzioni contro gli ebrei, e sono stati fatti
fondamentalmente trascurabili e spesso inaccurati commenti sulla vita
personale e la fede del regista, soprattutto allo scopo di screditare il
film.
La questione principale è, qui, il modo
in cui il film rappresenta la responsabilità per la condanna e
l’esecuzione di Gesù, e questa è stata una questione molto pressante per
tutti i film su Gesù, una questione che ciascun regista deve affrontare.
Sono i romani che devono essere incolpati della morte di Gesù o sono i
governanti religiosi ebrei ad essere responsabili? Sono tutti i
governanti ebrei o solo alcuni? O la colpa si allarga, ad implicare gli
ebrei come comunità o come razza?
La discussione su tali quesiti ha molta
importanza, perché l’accusa di deicidio – fatta contro gli ebrei sin
dall’inizio del Cristianesimo – è stata la sorgente e la struttura della
persecuzione degli ebrei da parte dei cristiani per molti secoli, e
perché i drammi europei sulla Passione – spesso anti-semitici – dal
Medio Evo fino ad oggi sono considerati da molti come uno dei cruciali
elementi religiosi, nello sfondo dell’Olocausto nazista nel ventesimo
secolo.
Questa terribile accusa è, per la
maggior parte, basata su un verso nel vangelo di Matteo: «Il suo sangue
ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,26), epiteto gridato
unanimemente dalla folla di adirati ebrei, nel cortile del palazzo di
Pilato; la frase, in effetti, invoca una maledizione divina su quegli
ebrei e su tutti gli ebrei di tutti i tempi ed è stata citata molte
volte come giustificazione per atti di violenza organizzata contro gli
ebrei, perpetrati, per la maggioranza, da cristiani.
Dal concilio Vaticano II, la posizione
della Chiesa è diventata molto più chiara verso l’antisemitismo,
condannandolo in qualunque forma si presenti. Giovanni Paolo II ha
visitato la Sinagoga di Roma, dove si è riferito agli ebrei come ai
«nostri prediletti fratelli, i nostri fratelli maggiori»6,
ha pregato al Muro del Pianto a Gerusalemme e ha pubblicamente implorato
il perdono divino dei molti atti di odio e violenza contro gli ebrei.
Nel 1988, la Conferenza dei Vescovi
Cattolici degli Stati Uniti, traendo ispirazione dal documento del
Vaticano II Nostra Aetate, pubblicò un documento che definisce
molto chiaramente le linee direttive per la rappresentazione della
Passione di Gesù da parte dei Cattolici «comprese, ma non limitate a
drammatiche presentazioni, messe in scena della morte di Gesù, più
comunemente conosciute come “drammi della Passione”7.
Fino a tempi recenti, i drammi della Passione sono stati ben noti per le
loro violentemente anti-semitiche rappresentazioni degli ebrei, sempre
con la citazione dell’offensivo verso da Matteo.
La Passione di Cristo
di Gibson assume una posizione piuttosto equilibrata riguardo alla
critica questione della rappresentazione della responsabilità per la
morte di Gesù. Da una parte, l’individuo Caifa e alcuni dei suoi
colleghi del Consiglio, che spinge i romani a condannare Gesù, sono
forse un po’ stereotipati e la loro autorità sul debole e, forse, troppo
buon Pilato un tantino esagerata; le “Direttive” dei Vescovi ammoniscono
di non «caricaturare gli Ebrei»8.
Comunque, poi, adeguandosi alle “Direttive”, Gibson controbilancia bene
la posizione di Caifa e colleghi, facendo vedere parecchi membri del
Consiglio in violento disaccordo – Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e
altri ebrei sostenitori di Gesù, – che condannano l’inchiesta contro
Gesù come una «traversia, una bestiale parodia» e si precipitano
incolleriti fuori dell’assemblea. Nelle scene di folla, durante i
processi di Gesù, sfortunatamente il film mostra troppa gente radunata
nei cortili, un’esagerazione dalla quale le “Direttive” ammoniscono di
astenersi, asserendo che la probabile verità storica de «la piccola
folla al palazzo del Governatore» non dovrebbe mai essere sostituita da
una “marea”9.
Dopo, però, quasi a controbilanciare questo
lapsus, e molto significativamente, Gibson non include le famose parole
offensive della folla: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i
nostri figli». (Mt 27,26). Inoltre, non tutti nella vasta folla sono
contro Gesù. Si sentono voci dissenzienti e poi queste scene sono in
forte contrasto, qualche momento più tardi, con scene che Gibson mostra
di grandi folle in vigorosa protesta in favore di Gesù, mentre ascende
faticosamente il Calvario. Le loro proteste in parole e gesti sono così
forti che i soldati romani hanno difficoltà a controllarli. Poi, quando
Simone di Cirene, costretto al servizio dai soldati, comincia ad aiutare
Gesù a portare la sua croce, uno dei soldati romani si rivolge a lui con
un beffardo: «Tu, ebreo!». L’anti-semitismo, qui, è di un romano e il
film chiaramente lo condanna. Il pro-semitismo di quell’episodio
Simone-Gesù è molto eloquente: Simone, dapprima riluttante, impaurito,
pauroso di aiutare Gesù, una volta entrato in contatto con lui, sorregge
non solo la croce, ma anche, letteralmente, Gesù, sussurrandogli
ripetutamente amorose parole di sostegno: «Siamo quasi arrivati … È
quasi fatto …». La ripresa dei due visti di spalla, con le braccia
intrecciate, mentre salgono faticosamente la collina, è molto
commovente.
Infine, la più chiara prova che il film
non intende assumere una posizione anti-semitica è la penultima scena,
una fisicamente statica, ma moralmente dinamica rappresentazione della
Pietà, in cui un’addolorata Maria, affiancata da Maria Maddalena, da
Giovanni e dal convertito soldato romano, non fissa Gesù morto nelle sue
braccia (il gesto che sarebbe stato più logico) ma, invece, la cinepresa
e, quindi, lo spettatore; questa è l’unica volta in cui Gibson
interrompe il quadro drammatico, e quindi l’illusione drammatica della
narrazione, e si rivolge direttamente allo spettatore. Questa lunga
ripresa, che dura venti secondi, invita irresistibilmente noi spettatori
a entrare nella narrazione e ad assumere la nostra responsabilità come
peccatori per la morte di questo Gesù che – il film ripetutamente
chiarisce – è morto per i nostri peccati.
Che uno sia d’accordo con lui o no,
Gibson qui dice, più chiaramente di tutti gli altri registi di film su
Gesù, che non sono stati gli ebrei a uccidere Gesù: ognuno di noi umani
peccatori è responsabile della sua morte.
Il vangelo secondo
Mel Gibson
Se il Vangelo di Pasolini e
La Passione di Gibson hanno degli elementi in comune, in realtà le
differenze fra di loro hanno molta più importanza.
La differenza più ovvia è che quello di
Gibson è un dramma sulla Passione, mentre quello di Pasolini copre
(letteralmente) quasi tutto il vangelo di Matteo.
Pasolini limita il dialogo del suo film
esclusivamente alle parole di Matteo, mentre Gibson, giustificatamente,
dà loro ampio sviluppo. Entrambi i film hanno sottotitoli in inglese ma,
mentre Pasolini fa parlare italiano ai suoi personaggi, quelli di Gibson
comunicano in aramaico e latino. Unica nella tradizione dei film su Gesù,
quest’audace e coraggiosa iniziativa da parte del regista è
meravigliosamente efficace10.
In ultima analisi, il film di Gibson è
un’interpretazione prettamente personale della storia di Gesù, cosa che
il regista ammette esplicitamente, una sorta di “vangelo secondo Mel”.
Nel suo contenuto riflette elementi tratti dai vangeli, da altri libri
non canonici11
e dal personale interesse devozionale del regista.
Quanto allo stile, il film riflette
molti elementi tratti dal cinema di azione hollywoodiano – è un
genere che Gibson conosce bene – e, ovviamente, dal suo film
precedente, Braveheart (1995), il cui messaggio – «Tutti muoiono.
Non tutti veramente vivono» – è stranamente simile al messaggio di
alcuni affissi per La Passione di Cristo: «La morte era la sua
ragione per vivere».
In contrasto al film di Pasolini, in
ascetico bianco e nero, col suo schietto montaggio lineare che rispetta
le ellissi nel vangelo di Matteo, La Passione è in vividi colori
e utilizza una serie di tecniche di torsione di tempo e spazio – dei
flashback e un montaggio parallelo – per modulare e anche analizzare
gli elementi della sua narrazione. Personalmente, trovo l’esagerato uso,
da parte di Gibson, di fotografia al rallentatore e i suoi digitalmente
creati-mostri/incarnazioni del male irritanti, una concessione al cinema
hollywoodiano e, dopo tutto, inefficace. D’altra parte, le sogggettive
scene retrospettive, durante la crocifissione di Gesù, che rappresentano
le parole e i gesti dell’istituzione eucaristica all’Ultima Cena sono
particolarmente efficaci e teologicamente avvedute; Gesù sta vivendo
nella sua carne la sublime realtà da lui creata sacramentalmente
nell’Ultima Cena, realtà che i cristiani commemorano efficacemente nella
celebrazione sacramentale dell’Eucaristia.
Mentre Pasolini inserisce alcuni brevi
brani di musica classica in contrappunto, Gibson conferisce intensità al
suo film con uno spartito musicale denso, a volte eccessivamente
pesante, composto per l’occasione. Nella fotografia, Pasolini utilizza,
di preferenza, molte basilari riprese, angolazioni e movimenti della
cinepresa; Gibson, come abbiamo già detto, elabora una gran varietà di
vertiginose tecniche fotografiche, compresi alcuni effetti speciali
digitalmente ottenuti, tutti pezzi forti del contemporaneo film
hollywoodiano.
Alcune delle innovazioni di Gibson nel
tradizionale contenuto dei film su Gesù, sebbene extra-bibliche, sono
molto belle ed efficaci. Quando Maria entra nel cortile sopra la stanza
nella quale Gesù è arrestato e torturato, Gibson la fa adagiare per
terra e mettere la guancia sulle pietre del selciato: vuole essere
vicina a suo figlio e Gesù, sotto, sente la sua presenza, il suo amore
che gli dà forza. Sulla via del Calvario, quando Maria corre ad aiutare
Gesù, caduto per l’ennesima volta – non bastano le tre cadute della
tradizionale via crucis – Gibson inserisce a quel punto una scena
flashback di lei che corre a prendere in braccio Gesù, da bambino e in
lacrime perché era caduto nella loro casa; poi Gesù, di nuovo nel tempo
presente, insanguinato e sofferente, consola la madre «Vedi, madre... io
faccio nuove tutte le cose». Le parole sono tratte dall’Apocalisse
(21,5), ma qui assumono significato di teologia della salvezza,
indicando Gesù come completamente consapevole di effettuare la salvezza
del mondo. Gibson ripropone molto bene la stessa idea in due altri gesti
di Gesù riguardanti la croce: al principio dell’ascesa al Calvario, Gesù
letteralmente abbraccia la sua croce azione che confonde i soldati
romani, e poi, sulla cima del Calvario, Gesù gettato per terra dai colpi
dei soldati, letteralmente si trascina sulla croce. È un imponente
simbolo della sua volontaria scelta di morire per i peccati
dell’umanità.
Le posizioni
teologiche dei due film
Ciascun regista annuncia il suo
programma tematico e, quindi, la posizione teologica del proprio film
nel suo titolo. Il Vangelo di Pasolini proclama la Buona Novella
della vita, la predicazione e le guarigioni, la Passione, Morte e
Risurrezione di Gesù il Cristo, l’evento definitivo della Salvezza, la
liberazione del popolo di Dio: sebbene intransigente nelle sue
aspettative, alla fine la teologia di Pasolini è una teologia della
gioia e della speranza nel Signore Risorto. In contrasto, la Passione
di Gibson dimostra innanzi tutto una teologia dell’espiazione, una
teologia della Croce. Mette a fuoco solo le sofferenze e la morte di
Gesù, distaccate e disassociate dalla sua predicazione e dal ministero
di guarigione; si concentra sulla libera decisione di Gesù di assumere
su se stesso, come capro espiatorio, come il Servo Sofferente di Isaia,
i peccati dell’umanità e di vivere questa raccapricciante prova per
redimere i peccatori.
Ovviamente, per stabilire questa messa
a fuoco, il film si apre con una citazione dai salmi di Isaia sul Servo
Sofferente, che i cristiani intendono come immagini della Passione di
Cristo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le
nostre iniquità» (Is 53,5); ognuna delle tante sferzate della frusta
durante le scene seguenti della flagellazione sembrerebbe rappresentare
una di queste trasgressioni.
I flashback di Gibson
dell’Ultima Cena, come abbiamo già visto, mentre attenuano brevemente lo
schiacciante effetto dell’agonia fisica di Gesù, allo stesso tempo
modulano quella sofferenza, agiscono come strumento ermeneutico per
quell’agonia. Mentre la croce di Gesù viene alzata, un flashback
lo fa vedere mentre dice, sul pane: «Questo è il mio corpo offerto in
sacrificio per voi» e mentre la croce è innalzata al suo posto, un
secondo flashback lo mostra mentre dice, sul vino: «Questo e’ il calice
del mio sangue... sparso per voi e per molti in remissione dei peccati».
Questo Gesù è l’Agnello sacrificale, la vittima sull’altare il cui corpo
e sangue, come nel Sacrificio Eucaristico, sono offerti in espiazione
per i peccati dell’umanità.
La scena più
cruciale della Risurrezione
La scena della Risurrezione è una delle
più importanti in tutti i film su Gesù.
Il contenuto e lo stile della sua
interpretazione rivelano molto sulla posizione teologica del regista e
possono confermare o negare l’impatto teologico dell’intero film.
Pasolini crea una ripresa di venti secondi di Gesù su una collina,
nell’atto di proclamare con energia e urgenza, le parole del vangelo di
Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono
con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20), mentre
un gruppo di discepoli e altre persone corrono gioiosamente verso di
lui. Sulla colonna sonora, un’esplosione di musica sacra e canto – il
molto energico “Gloria” della Messa Luba congolese, coi suoi tamburi e
le sue voci gioiose – sottolineano il significato della Risurrezione
come una vittoria cosmica non solo per Gesù, ma per l’intero popolo di
Dio, una vittoria dal chiaro impatto comunitario e missionario.
In netto contrasto con questa, le scene
della Risurrezione di Gibson non sembrano suscitare alcun coinvolgimento
da parte di coloro che hanno vissuto la Passione con Gesù, cioè della
nascente comunità cristiana. Gibson pone la sua cinepresa in un luogo
buio. Sentiamo la pietra che suggella la tomba rotolar via e realizziamo
che la cinepresa è dentro la tomba, che si riempie gradualmente di luce
dal di fuori. La ripresa si sofferma sul sudario di Gesù, che contiene
il suo corpo e poi misteriosamente, e in un ovvio riferimento alla
sindone di Torino, si sgonfia: la salma di Gesù non c’è più. Poi Gesù è
inquadrato nella scena: lo vediamo di profilo, in una ripresa di testa e
spalle, con tutti i segni della Passione svaniti dal suo viso. Ci si
domanda se ha ancora le ferite sulle mani, i piedi e il costato, ma non
c’è alcun dubbioso san Tommaso, o alcun altro, là presente, a verificare
questo fatto. Sul sonoro sentiamo il battere di tamburi che suonano un
ritmo militare – la Risurrezione di Gesù il Cristo non è certo una
vittoria militare; forse Gibson intende un omaggio a Braveheart,
narrazione spietata di guerra – e, mentre i tamburi battono sempre più
forte, Gesù esce lentamente dal riquadro. Lo schermo ritorna
all’oscurità.
Gibson rappresenta l’evento della
Risurrezione non come una vittoria cosmica per Gesù e per tutti gli
uomini e le donne di tutti i tempi, l’evento-perno della storia umana,
ma piuttosto come un’esperienza privata di Gesù. Non c’è gioia o
speranza nella scena. Maria la madre, Maria Maddalena, Giovanni e il
soldato romano convertito rimangono sofferenti e passivi nel tableau
della Pietà, separati dalla Risurrezione da un paravento che rimane
scuro per sei secondi e dall’egocentrico Signore, tornato in vita per se
stesso.
Fin dall’inizio del film, Gibson ci ha
rappresentato una Maria che ha un tale rapporto psicologico-spirituale,
madre-figlio con Gesù che, perfino a distanza, lei sente il dolore di
lui e lui sente la presenza e l’amore di lei. Certamente, questa
comunione madre-figlio, il cui rinnovarsi viene promesso quando Gibson
fa sussurrare Gesù a Maria con autorità: «Vedi, madre ... io faccio
nuove tutte le cose», una comunione così violentemente interrotta dalla
morte di Gesù, si sarebbe logicamente ristabilita, avrebbe potuto e
dovuto ristabilirsi nella Risurrezione. Ma Gibson, occupato nell’estremo
coinvolgimento coi peccati dell’umanità che caratterizza la sua teologia
dell’espiazione12
e la maggioranza dell’azione dei suoi film, si lascia scappare
l’occasione di dar speranza a tutti noi peccatori. Peccato!
Il film di Gibson
e gli
Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola
La Passione di Cristo
di Gibson non è facile da guardare, non è facile da accettare. Ho
trovato l’interminabile ed estrema violenza fisica perpetrata su Gesù
molto pesante, resa ancor più opprimente dallo stile spesso violento del
film, a volte addirittura “al di là della ragione” (testuali parole di
Gibson), a volte esagerato oltre a quanto sarebbe necessario per
rappresentare il sacrificio di Gesù per la redenzione di noi peccatori.
Come gesuita, un peccatore che sa di essere salvato, la mia vita è
centrata su Gesù il Cristo, incontrato attraverso gli Esercizi
Spirituali di sant’Ignazio. Negli Esercizi, che noi gesuiti facciamo
annualmente, la “Terza Settimana” è l’esperienza della Passione di Gesù,
contemplata in preghiera per cinque ore ogni giorno, a volta vividamente
quanto qualunque scena nel film di Gibson. Tuttavia, nella mia
esperienza, c’è una cruciale differenza tra la versione di Gibson e
quella di Ignazio. Gli Esercizi Spirituali pongono l’esperienza di
preghiera della Passione fra un’esperienza del ministero di Gesù, cioè
la “Seconda Settimana”, in cui l’esercitante condivide con gioia
vocazione e comunità con Gesù e diventa il suo discepolo, e poi la
“Quarta Settimana,” la Risurrezione di Cristo durante la quale – di
nuovo per cinque ore di preghiera contemplativa al giorno –
l’esercitante vive la gioia e la vittoria del Signore Risorto. Questo dà
all’esercitante una grande speranza.
Nel film di Gibson,
una meditazione devozionale nel modo francescano delle Stazioni della
Croce – la devozione di san Francesco alla croce è ben nota, come pure
il fatto che è stato lui il primo cristiano a ricevere le stimmate, i
segni della Passione di Gesù – sperimentiamo la Passione dal di fuori,
separata dalla Buona Novella della sua predicazione e delle sue
guarigioni e isolata dalla sua Risurrezione. Rimaniamo ai piedi della
croce, passivi e sconsolati, assieme agli altri. Per Giovanni e il
soldato, per le donne che, nel Vangelo, sono le prime a testimoniare la
Risurrezione e per noi – peccatori che hanno trovato la loro speranza
nella vittoria del Signore Risorto – La Passione di Cristo di
Gibson offre poca speranza.
Fin dal 1897 e le prime “Passioni”, la
tradizione dei film su Gesù ha subito molte variazioni e alcuni dei suoi
più acclamati e importanti film hanno rivelato un’interessante diversità
di modi di affrontare l’argomento, sia in stile sia in contenuto.
Hollywood ha poi apportato la sua
impronta con una serie di film epici su Gesù: Il Re dei re, di De
Mille, nel 1927, Re dei re, di Nicholas Ray, nel 1961 e La più
grande storia mai raccontata, di George Stevens, nel 1965. Più
tardi, Broadway e i suoi drammi musicali hanno ispirato due film su Gesù,
entrambi usciti nel 1973: il rock-musical Jesus Christ Superstar,
di Norman Jewison, ispirato da un’unica canzone bestseller da un
milione di dollari dallo stesso nome e Godspell, il molto più
serio folk-musical, basato su una tesi di Master’s in Teologia. Il
susseguente mutamento della tradizione è in forma di giallo psicologico,
L’Ultima Tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, la cui messa
in circolazione incontrò veementi proteste nel 1988.
Negli anni ‘70 furono prodotti due film
italiani su Gesù che ebbero un impatto duraturo sulla tradizione: Il
Messia, di Rossellini nel 1975, che, con i suoi moderati costi di
produzione e prolungati dialoghi, ha proposto quella che è stata
definita l’impostazione didattica e, nel 1977, Gesù di Nazaret,
di Zeffirelli, che, con la sua bellezza e il suo buon gusto, annunciò
l’impostazione estetica ed è rimasto, sin d’allora, una pietra miliare
di cui ognuno che aspiri a fare un film su Gesù deve tener conto.
Negli anni recenti, andando incontro al
gusto popolare e alla sensibilità ormai conformata alla televisione,
sono stati prodotti tre film su Gesù: Jesus, fatto in Italia – da
cattolici – come parte di una serie di film biblici, The Book of
Matthew, nel 2002 e The Gospel of John, nel 2003, prodotti
negli Stati Uniti da gruppi evangelici protestanti. Questi film
affrontano la narrazione del Vangelo in un modo molto letterale. Tutti e
tre trovano il loro mercato specialmente nell’ambito del “video-market”.
Non c’è dubbio che l’apogeo della
tradizione dei film su Gesù sia stato segnato da Il Vangelo secondo
Matteo, di Pier Paolo Pasolini, prodotto nel 1964 e accolto con
grande acclamazione della critica lungo gli anni. Fatto piuttosto
significativo: è l’unica vita Christi inclusa nella lista del
Vaticano dei più grandi film religiosi, pubblicata nel 1997.
Data l’imponente capacità del cinema a
raggiungere e toccare la vita di milioni di persone, non è facile per
un/a cristiano/a con un minimo di spirito missionario obiettare ad una
rappresentazione di Gesù in quel medium. Ogni onesto tentativo di
rappresentare artisticamente la vita di Gesù è, in teoria, lodevole;
tuttavia dobbiamo riconoscere che tutti i film su Gesù, dati lo sfondo e
le scelte stilistiche dei loro registi, pongono agli spettatori e ai
critici problemi spinosi: molti di essi, infatti, diventano lezioni su
che cosa evitare nel fare un film su Gesù.
Per esempio, le “Passioni” dei primi
tempi, proprio perché sono mute e brevi, favoriscono un’esagerata
gesticolazione da parte degli attori e un aspetto crudamente
caricaturale dei personaggi, separandoli nettamente in “buoni” e
“cattivi”. Naturalmente i “cattivi” sono ebrei, per la maggioranza
rappresentati come brutti, avari, assetati di sangue, totalmente
riprovevoli. Questa tecnica semplicistica, molto problematica, salta
all’occhio guardando, per esempio, i brevi episodi su Gesù in
Intolleranza, di Griffith (1916). I discepoli di Gesù sono
sfacciatamente “buoni”, mentre le autorità religiose ebree preoccupate,
sempre in complotto, esteticamente sgradevoli, sono, dalla prima
all’ultima, sfacciatamente “cattive”.
La tradizione dell’epica hollywoodiana
solleva parecchie questioni, fra le quali quello di inventare
l’abbellimento nel romanzare il testo del Vangelo, con personaggi non
storici e non biblici, spesso molto elaborati e disgiunti dalla storia
centrale di Gesù e che spesso la sminuiscono. Per esempio, le scene
softporn dell’assolutamente improbabile relazione tra Maria
Maddalena e Giuda, all’inizio de Il Re dei re di De Mille –
inclusa un’orgia al sontuoso palazzo di Maddalena, e Maria che cavalca
verso l’orizzonte (alla Ben-Hur) in una biga trasportata da quattro
zebre – inquadrano in un tono disastrosamente sbagliato la storia di
Gesù che le segue. Più tardi, nel film Il Re dei re, Ray crea un
personaggio inventato, il gentile centurione Lucio che, dalla nascita
alla morte di Gesù, mantiene contatti con tutti i protagonisti: in
realtà, e stranamente, è Lucio e non Gesù che dà coesione alla
narrazione.
Dando per scontato il diritto di scelta
– gli artisti hanno il diritto di basare un film sulla propria ottica,
anche profondamente personale, su Gesù e sull’evento Cristo, – tutti i
film su Gesù che romanzano il testo e lo spirito della Bibbia presentano
un particolare problema.
È un fatto ben documentato che il
pubblico tipico, gli spettatori o i telespettatori, percepisce quello
che vede sullo schermo – un’immagine il cui impatto è aumentato e molto
ingrandito dal vasto schermo in Technicolor, vari effetti
fotografici super-realistici e un possente sistema sonoro THX – come
realtà.
Se, poi, si tratta di un film anche
vagamente biblico, quello che appare sullo schermo è percepito come
realtà biblica. Quindi, allorché un film – forse ricolmo di materiale
non-storico, non-biblico e che, forse, propone anche una cristologia e
una teologia della salvezza così lontane da quelle comunemente proposte
dalla Chiesa odierna dall’essere addirittura eretiche – si presenta, o è
lodato da altri, come “veramente cattolico nella sua visione”, come
“l’autentica storia della Bibbia”, la critica cattolica ha il diritto e
il dovere di indicare gli errori, i punti deboli e le limitazioni di
questo film.
Un’altra dimensione problematica dei
film su Gesù riguarda gli attori che vengono scelti per interpretare i
personaggi biblici. Ne La più grande storia mai raccontata, per
esempio, il contrasto fra il solenne, lugubre Max von Sydow (nella parte
di Gesù) – un attore i cui ruoli precedenti erano stati principalmente
quelli di tormentati antieroi nei film di Ingmar Bergman – e le varie
star hollywoodiane in brevi ruoli, tipo Charlton Heston, Shelley Winters,
Sidney Poitier, Angela Lansbury e Telly Savalas fa sorgere la questione
dell’identità di attori popolari che, inesorabilmente, interferisce coi
personaggi rappresentati – il regista francese Robert Bresson li chiama
oscuri “filtri” – e lo stesso si dica della comunicazione del messaggio
evangelico.
Un’altra fatale limitazione de La
più grande storia è la decisione, da parte di Ray, di oscurare a tal
punto l’identità ebrea di Gesù – per esempio l’Ultima Cena non è
rappresentata come un pasto rituale ebreo – che, alla fine, non solo
Gesù non risulta ebreo, ma anche la sua concreta umanità e storicità
finiscono con lo sparire e, in effetti, con la negazione della fede
cristiana nell’Incarnazione, Gesù diventa una specie di strano Cristo
universale, astratto e irreale.
I due film-musical su Gesù
introducono il problema della credibilità ed efficacia di un personaggio
Gesù che, assieme ai suoi discepoli, si mette ogni tanto a cantare – in
Godspell, magari, la cosa funziona, ma in Superstar, no –
e poi Superstar, con la sua peculiare interpretazione della
storia di Gesù, in uno stile frammentario postmoderno, è una classica
prova delle limitazioni di quel genere e della conseguente
dispersione della proclamazione evangelica. Un’ancor più grave
limitazione di entrambi i film è che, Superstar in modo
particolare, rappresentano la Risurrezione vagamente e in modo non
corretto.
Gesù di Nazaret,
con tutta la sua tecnica impeccabile e la sua bellezza mozzafiato, manca
dell’incisività che contraddistingue i vangeli e che dovrebbe
caratterizzare una rappresentazione della storia di Gesù.
Scrupolosamente autentico per quanto riguarda i costumi, l’ambiente
culturale e la messa in scena, il film diventa una serie di attraenti
tableaux da cartolina, ivi inclusa una crocifissione sterilizzata,
una specie di Passione-senza-la passione. L’im-patto radicale del
Vangelo, quindi, svanisce. Anche Zeffirelli cade nella trappola di
Nicholas Ray, creando un personaggio non-biblico, Zerah, che manipola a
tal punto sia le autorità romane sia quelle ebree che, alla fin fine, è
lui – un personaggio storicamente inesistente – ad essere il maggior
responsabile della morte di Gesù. Zerah assolve due funzioni: fa
opportunamente deviare qualsiasi accusa di anti-semitismo e, allo stesso
tempo, crea una subtrama che serve a mantener vivo l’interesse degli
spettatori durante questo lunghissimo film.
Il tono freddamente didattico de Il
Messia di Rossellini – nel quale Gesù insegna e predica più che in
qualunque altro film – lascia lo spettatore indifferente e la sua molto
abbreviata, distaccata rappresentazione della Passione fa sembrare la
morte di Gesù più quella di un eroe, tipo Socrate, forse, che l’atto
appassionato di spoliazione sacrificale del Dio Incarnato, che effettua
la salvezza dell’umanità.
Anche il popolare modo di affrontare il
Vangelo mostra severe limitazioni. Per esempio, il cattolico film
Jesus illustra bene il pericolo della diluizione del testo
evangelico e del messaggio cristiano, come nel caso della scena della
samaritana, al pozzo. Gesù e i discepoli si mettono a tirarsi acqua
addosso e Gesù finisce col non costruire mai il suo cruciale dialogo con
la donna. Stratagemma, questo, inteso ad attirare qualunque pubblico; la
dichiarazione del produttore: «Abbiamo voluto accertarci di non
offendere né cattolici, né protestanti, né ebrei, né mussulmani», dice
tutto; il film non offende nessuno, ma il sale del Vangelo è stato
rimpiazzato dallo zucchero.
Sia The Book of Matthew sia
The Gospel of John, film mai distribuiti commercialmente, mettono
bene in evidenza i problemi di una trasposizione troppo letterale e,
tutto sommato, blanda del testo biblico, nella sua interezza e
verbatim, al medium cinematografico, coi suoi propri canoni
stilistici ed esigenze. Il guru delle comunicazioni Marshall McLuhan
dice che «il medium è il messaggio» e il medium
cinematografico comunica il suo messaggio in modo diverso da quello
della stampa e della proclamazione verbale.
Fino a La passione di Cristo di
Gibson, L’Ultima Tentazione di Cristo di Martin Scorsese è stato,
senza dubbio, il più controverso dei film su Gesù. Quando uscì, molti
furono scandalizzati, a causa di un malinteso di base, dalla sequenza
dell’«ultima tentazione», che fu interpretata come un’obiettiva
rappresentazione di un’azione sessuale di Gesù. In realtà, la questione
ben più grave del film era la sua incongruenza e le spesso bizzarre
decisioni tecniche adottate: per esempio, una canzone musulmana che
invoca Allah durante la scena dell’Ultima Cena e un’anacronistica e
incredibilmente cruenta scena del “sacro Cuore”, al di là di ogni
estremo.
Il film, inoltre, erra grandemente
nella sua analisi psicologica e nel distorto ritratto antropologico che
fa di Gesù, come di un uomo che soffre di severi conflitti psicologici,
quasi a rasentare la psicosi, e che, in effetti, non risolve mai i suoi
conflitti. Alla fine è grazie al suo intimo amico Giuda che questo Gesù
finisce col morire sul Calvario1. In ultima analisi,
nonostante le ripetute affermazioni fatte da Scorsese alla stampa sulla
sua fede cattolica e nonostante l’affrettata smentita che precede i
titoli, l’Ultima Tentazione non riesce a risolvere adeguatamente
il mistero dinamico della dimensione umano-divina dell’esistenza di Gesù
e a rappresentare una valida teologia cristiana della salvezza.
La Passione di
Gibson
L’ultimo dei film su Gesù, La
Passione di Cristo, offre una potente esperienza emozionale; a volte
è doloroso osservarla e doloroso rifletterci. Solo nominalmente simile
ai primi film sulla Passione, il lavoro di Gibson, ovviamente, li
sorpassa di gran lunga: la sua durata, la complessità della sua
narrativa e il suo stile contemporaneo sono tutti elementi che lo
distanziano dalle prime “Passioni”, così come il fatto che non solo
rappresenta visualmente gli elementi tradizionali della Passione di Gesù,
ma li interpreta, dando loro una certa spinta teologica. Mentre i primi
film erano muti, con occasionali titoli a indicare il dialogo, Gibson fa
parlare ai suoi personaggi le lingue antiche: Gesù e gli altri ebrei
parlano l’aramaico e i romani, la lingua latina.
La Passione
di Gibson, pur evitando la maggior parte degli eccessi delle epiche
hollywoodiane, a volte sviluppa, in modo irritante, alcune dimensioni
della narrativa biblica, facendole andare, generalmente, verso il
sentimentale. Dà un ruolo molto ingrandito alla moglie di Pilato e alla
sua intercessione perché il marito non condanni Gesù; include
addirittura un accorato incontro fra lei e la madre di Gesù. Anzi Gibson
crea un rapporto dinamico fra Maria, Maria Maddalena2 e la
moglie di Pilato e, in un certo senso, la sua rappresentazione della
Passione di Gesù è vista e adattata attraverso i loro occhi. Ci sono dei
momenti molto belli nell’interazione delle donne, per esempio, quando
Maria, aiutata da Maria Maddalena e Claudia e seguendo un rito ebreo –
osservato ancor oggi quando gli ebrei sono dilaniati dalle bombe suicide
– asciuga il sangue di Gesù dal suolo, nel luogo della flagellazione3.
Comunque, alla fine, quest’ingegnoso accorgimento, che funge – a volte –
da sollievo dall’orrore della tortura di Gesù, tende troppo verso il
sentimentale.
La scena stessa della flagellazione,
che sembra senza fine, la sua crudeltà sadica aumentata da troppe scene
estreme, in primo piano, – per esempio, il sangue che schizza e la carne
piagata e anche da un pesante accompagnamento musicale, che spesso
echeggia il molto sintetizzato sonoro del film di Scorsese e le sette o
otto terribili cadute di Gesù durante la sua ascesa al Calvario – non
trovano giustificazione come necessaria sofferenza di Gesù in espiazione
dei peccati dell’umanità. Sembrano più elementi pseudo-biblici,
equivalenti alle sanguinose scene di battaglia che costellano il
precedente sforzo registico e recitatorio di Mel Gibson: Braveheart
(1995), tutto azione, ma scarso significato morale-spirituale.
Più di una volta, Gibson scivola nel
kitsch che caratterizza i film su Gesù hollywoodiani. Per esempio,
per far sí che Gesù, in catene, incontrasse ancora una volta Giuda,
Gibson lo fa percuotere dai soldati che lo arrestano, gli fa perdere
l’equilibrio e lo fa cadere da un precipizio e, in una strana imitazione
dello sport estremo di bungee-jumping, lo fa rimanere sospeso a
breve distanza dal suolo, sopra Giuda. Più tardi, per punire il ladrone
che aveva insultato Gesù, Gibson fa discendere un immenso corvo sulla
sua croce che, in quello che mi sembra un riferimento a Gli uccelli
di Hitchcock (1963), gli becca gli occhi; la raffinata scena è
fotografata in primissimo piano. Poi, verso la fine della crocifissione,
Gibson fa avvicinare Maria di Nazaret al figlio morente e le fa baciare
i suoi piedi; ne esce con bocca, viso e vestiti insanguinati. L’effetto
è davvero bizzarro, un po’ una via di mezzo fra immagini di vampiro e le
terribili immagini dell’insanguinata e disperata Jacqueline Kennedy, il
22 novembre 1963. Più tardi, a suggerire che il soldato romano con la
lancia è “lavato nel sangue dell’Agnello”, Gibson, in una mossa
veramente strana, fa cadere l’uomo in ginocchio e lo fa pregare sotto
una vera e propria doccia del sacro sangue di Gesù. Nessuno ha pensato
di dire ai tecnici degli effetti speciali che a quel punto, dopo dodici
ore di spargimento di sangue, sarebbe rimasto a Gesù ben poco del suo
sacro sangue e, certamente, non sarebbe sprizzato dal suo costato.
Il terremoto, che nel Vangelo strappa
il velo del tempio in due (Lc 23,45) ne La Passione continua
indefinitamente e spacca l’intero tempio in due. Uno dei più strani
effetti nel film è la “lacrima di Dio”, una goccia d’acqua che, grazie a
manipolazione digitale, cade con gran suono dall’occhio di Dio in cielo
fino alla terra e sul Calvario e dà inizio alla violenta
tempesta-terremoto che indica la morte di Gesù.
Sarebbe dir poco affermare che La
Passione di Gibson non ha niente del film musicale, ma il suo
ritratto di Erode come un nervoso, smorfioso, nevrotico con tanto di
parrucca sulle ventitré, buttata là in fretta, sembra presa di peso da
Jesus Christ Superstar. Mi stavo quasi aspettando che il Tetrarca
conducesse Gesù alla sua piscina e, cantando, gli domandasse: «change
the water into wine» (trasforma l’acqua in vino)…
Se Gesù di Nazaret e Il
Messia mancano, da una parte, d’incisività e dall’altra d’impatto
emozionale, il film di Gibson compensa per entrambi. A nessun punto
della storia cerca di rappresentare la bellezza fine a se stessa, la sua
tesi teologica è chiarissima e l’impatto emozionale sullo spettatore è
incontestabile.
Infine, mentre, da un canto, Gibson
cerca accuratamente di evitare la dominante e fatale analisi
psico-sessuale de L’Ultima Tentazione di Cristo, in sostanza,
proprio come Scorsese, soggioga lo spettatore alle stesse montagne russe
emozionali. I due film hanno in comune alti valori di produzione:
fotografia molto energica, con velocissime lenti, molte riprese
soggettive dal punto di vista del morente Gesù, effetti speciali, – in
Gibson limitati principalmente ai suoi vari personaggi ripugnanti
raffiguranti il male – montaggio aggressivo e pesante e, a volte,
un’opprimente messa a fuoco della violenza fisica ed emozionale. In
Scorsese ci sono alcuni momenti di sollievo visivo ed emozionale, ne
La Passione di Gibson, pochissimi.
Il Vangelo
di Pasolini e La Passione di Gibson
Il Vangelo secondo Matteo
di Pasolini è stato ed è tuttora il più grande dei film su Gesù. La
Passione di Gibson, sebbene radicalmente diversa da esso,
stranamente ha molti punti in comune con Il Vangelo. Pasolini ha
fatto il suo film in seguito a una profonda esperienza personale
religiosa, con la quale era stato graziato dopo aver letto il Vangelo di
Matteo durante un ritiro ad Assisi. L’impegno di fede di Gibson nella
tradizione cattolica, risultatomi ancor più evidente in un colloquio a
quattr’occhi con lui dopo la proiezione de La Passione, è
innegabile. Entrambi questi uomini hanno prodotto i loro film con
infaticabile coraggio ed energia spirituale.
I due film sono documenti forti e senza
compromessi in contenuto e stile. I messaggi cristiani che proclamano
sono chiari e privi di ambiguità; mettono a confronto gli spettatori,
forse in modo disagevole, con scelte radicali – come fece la
predicazione di Gesù. Forse per questa ragione, entrambi i film sono
stati sottoposti a una tempesta di controversie. Per mesi, nel
1963-1964, durante la produzione del Vangelo di Pasolini, accuse
e condanne vennero pubblicate nei media italiani da persone che,
naturalmente, non potevano aver idea di come il film, alla fine, sarebbe
riuscito. Il nocciolo dei commenti negativi, provenienti soprattutto da
circoli legati al Partito Cristiano Democratico, era che Pisolini –
ex-membro del Partito Comunista, ateo e apertamente omosessuale – non
poteva fare un film valido su Gesù; anzi, tale film non poteva che
essere una perversione del Vangelo. La premiere del film al
Festival di Venezia del 1964 era presieduta da centinaia di carabinieri
armati; si aspettavano dimostrazioni. Il film fu anche aspramente
criticato da L’Osservatore Romano, però trentatré anni dopo il
Vaticano riconobbe la sua grandezza.
Le accuse di
anti-semitismo
La Passione
di Gibson ha generato più commenti e controversie della maggior parte
dei film su Gesù4, sia prima, sia dopo la sua proiezione;
anzi, una vera e propria animata atmosfera di polemica si è sviluppata
nei suoi confronti. Accuse e contro-accuse sono state pubblicate nei
media quasi quotidianamente, per la maggioranza riguardo a quella che si
sospetta e si teme che sia la posizione anti-semita del film. Alcune
accuse sono basate su un montaggio primitivo del film, precedente a una
vigorosa revisione. La maggioranza di esse era basata su copie abusive
di una versione iniziale della sceneggiatura del film; improbabile
motivo su cui basare un giudizio finale del film, perché la maggioranza
dei montaggi finali – eccezione fatta, forse, dei film di Hitchcock –
differiscono grandemente dalle loro ideazioni originali.
Teologi, pastori e alte autorità della
Chiesa sono stati arruolati da entrambi i gruppi, nella speranza di
rafforzare le loro posizioni. Perfino il sofferente Giovanni Paolo II è
stato ingiustamente e sfortunatamente invischiato nella controversia,
con pretese, da una parte, che lui abbia visto il film e che gli sia
piaciuto e con insistenti smentite, dall’altra, che il Papa non fa
commenti sui film, preferendo lasciare quel compito agli esperti5.
Naturalmente, anche se il Papa ha visto il film, la sua valutazione
dello stesso, sia essa positiva o negativa (il suo presunto commento: «È
com’era», sembra positivo.) non ha certo la teologica e vincolante
autorità di un pronunciamento ex cathedra.
Inoltre, recensioni negative sono state
scritte da persone che non hanno visto il film, invocando l’oscura ombra
dell’Olocausto e pretendendo, allarmisticamente, che il film potrebbe
sguinzagliare nuove persecuzioni contro gli ebrei, e sono stati fatti
fondamentalmente trascurabili e spesso inaccurati commenti sulla vita
personale e la fede del regista, soprattutto allo scopo di screditare il
film.
La questione principale è, qui, il modo
in cui il film rappresenta la responsabilità per la condanna e
l’esecuzione di Gesù, e questa è stata una questione molto pressante per
tutti i film su Gesù, una questione che ciascun regista deve affrontare.
Sono i romani che devono essere incolpati della morte di Gesù o sono i
governanti religiosi ebrei ad essere responsabili? Sono tutti i
governanti ebrei o solo alcuni? O la colpa si allarga, ad implicare gli
ebrei come comunità o come razza?
La discussione su tali quesiti ha molta
importanza, perché l’accusa di deicidio – fatta contro gli ebrei sin
dall’inizio del Cristianesimo – è stata la sorgente e la struttura della
persecuzione degli ebrei da parte dei cristiani per molti secoli, e
perché i drammi europei sulla Passione – spesso anti-semitici – dal
Medio Evo fino ad oggi sono considerati da molti come uno dei cruciali
elementi religiosi, nello sfondo dell’Olocausto nazista nel ventesimo
secolo.
Questa terribile accusa è, per la
maggior parte, basata su un verso nel vangelo di Matteo: «Il suo sangue
ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,26), epiteto gridato
unanimemente dalla folla di adirati ebrei, nel cortile del palazzo di
Pilato; la frase, in effetti, invoca una maledizione divina su quegli
ebrei e su tutti gli ebrei di tutti i tempi ed è stata citata molte
volte come giustificazione per atti di violenza organizzata contro gli
ebrei, perpetrati, per la maggioranza, da cristiani.
Dal concilio Vaticano II, la posizione
della Chiesa è diventata molto più chiara verso l’antisemitismo,
condannandolo in qualunque forma si presenti. Giovanni Paolo II ha
visitato la Sinagoga di Roma, dove si è riferito agli ebrei come ai
«nostri prediletti fratelli, i nostri fratelli maggiori»6, ha
pregato al Muro del Pianto a Gerusalemme e ha pubblicamente implorato il
perdono divino dei molti atti di odio e violenza contro gli ebrei.
Nel 1988, la Conferenza dei Vescovi
Cattolici degli Stati Uniti, traendo ispirazione dal documento del
Vaticano II Nostra Aetate, pubblicò un documento che definisce
molto chiaramente le linee direttive per la rappresentazione della
Passione di Gesù da parte dei Cattolici «comprese, ma non limitate a
drammatiche presentazioni, messe in scena della morte di Gesù, più
comunemente conosciute come “drammi della Passione”7. Fino a
tempi recenti, i drammi della Passione sono stati ben noti per le loro
violentemente anti-semitiche rappresentazioni degli ebrei, sempre con la
citazione dell’offensivo verso da Matteo.
La Passione di Cristo
di Gibson assume una posizione piuttosto equilibrata riguardo alla
critica questione della rappresentazione della responsabilità per la
morte di Gesù. Da una parte, l’individuo Caifa e alcuni dei suoi
colleghi del Consiglio, che spinge i romani a condannare Gesù, sono
forse un po’ stereotipati e la loro autorità sul debole e, forse, troppo
buon Pilato un tantino esagerata; le “Direttive” dei Vescovi ammoniscono
di non «caricaturare gli Ebrei»8. Comunque, poi, adeguandosi
alle “Direttive”, Gibson controbilancia bene la posizione di Caifa e
colleghi, facendo vedere parecchi membri del Consiglio in violento
disaccordo – Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e altri ebrei sostenitori di
Gesù, – che condannano l’inchiesta contro Gesù come una «traversia, una
bestiale parodia» e si precipitano incolleriti fuori dell’assemblea.
Nelle scene di folla, durante i processi di Gesù, sfortunatamente il
film mostra troppa gente radunata nei cortili, un’esagerazione dalla
quale le “Direttive” ammoniscono di astenersi, asserendo che la
probabile verità storica de «la piccola folla al palazzo del
Governatore» non dovrebbe mai essere sostituita da una “marea”9.
Dopo, però, quasi a
controbilanciare questo lapsus, e molto significativamente, Gibson non
include le famose parole offensive della folla: «Il suo sangue ricada
sopra di noi e sopra i nostri figli». (Mt 27,26). Inoltre, non tutti
nella vasta folla sono contro Gesù. Si sentono voci dissenzienti e poi
queste scene sono in forte contrasto, qualche momento più tardi, con
scene che Gibson mostra di grandi folle in vigorosa protesta in favore
di Gesù, mentre ascende faticosamente il Calvario. Le loro proteste in
parole e gesti sono così forti che i soldati romani hanno difficoltà a
controllarli. Poi, quando Simone di Cirene, costretto al servizio dai
soldati, comincia ad aiutare Gesù a portare la sua croce, uno dei
soldati romani si rivolge a lui con un beffardo: «Tu, ebreo!».
L’anti-semitismo, qui, è di un romano e il film chiaramente lo condanna.
Il pro-semitismo di quell’episodio Simone-Gesù è molto eloquente:
Simone, dapprima riluttante, impaurito, pauroso di aiutare Gesù, una
volta entrato in contatto con lui, sorregge non solo la croce, ma anche,
letteralmente, Gesù, sussurrandogli ripetutamente amorose parole di
sostegno: «Siamo quasi arrivati … È quasi fatto …». La ripresa dei due
visti di spalla, con le braccia intrecciate, mentre salgono
faticosamente la collina, è molto commovente.
Infine, la più chiara prova che il film
non intende assumere una posizione anti-semitica è la penultima scena,
una fisicamente statica, ma moralmente dinamica rappresentazione della
Pietà, in cui un’addolorata Maria, affiancata da Maria Maddalena, da
Giovanni e dal convertito soldato romano, non fissa Gesù morto nelle sue
braccia (il gesto che sarebbe stato più logico) ma, invece, la cinepresa
e, quindi, lo spettatore; questa è l’unica volta in cui Gibson
interrompe il quadro drammatico, e quindi l’illusione drammatica della
narrazione, e si rivolge direttamente allo spettatore. Questa lunga
ripresa, che dura venti secondi, invita irresistibilmente noi spettatori
a entrare nella narrazione e ad assumere la nostra responsabilità come
peccatori per la morte di questo Gesù che – il film ripetutamente
chiarisce – è morto per i nostri peccati.
Che uno sia d’accordo con lui o no,
Gibson qui dice, più chiaramente di tutti gli altri registi di film su
Gesù, che non sono stati gli ebrei a uccidere Gesù: ognuno di noi umani
peccatori è responsabile della sua morte.
Il vangelo secondo Mel
Gibson
Se il Vangelo di Pasolini e
La Passione di Gibson hanno degli elementi in comune, in realtà le
differenze fra di loro hanno molta più importanza.
La differenza più ovvia è che quello di
Gibson è un dramma sulla Passione, mentre quello di Pasolini copre
(letteralmente) quasi tutto il vangelo di Matteo.
Pasolini limita il dialogo del suo film
esclusivamente alle parole di Matteo, mentre Gibson, giustificatamente,
dà loro ampio sviluppo. Entrambi i film hanno sottotitoli in inglese ma,
mentre Pasolini fa parlare italiano ai suoi personaggi, quelli di Gibson
comunicano in aramaico e latino. Unica nella tradizione dei film su Gesù,
quest’audace e coraggiosa iniziativa da parte del regista è
meravigliosamente efficace10.
In ultima analisi, il film di Gibson è
un’interpretazione prettamente personale della storia di Gesù, cosa che
il regista ammette esplicitamente, una sorta di “vangelo secondo Mel”.
Nel suo contenuto riflette elementi tratti dai vangeli, da altri libri
non canonici11 e dal personale interesse devozionale del
regista.
Quanto allo stile, il film riflette
molti elementi tratti dal cinema di azione hollywoodiano – è un
genere che Gibson conosce bene – e, ovviamente, dal suo film
precedente, Braveheart (1995), il cui messaggio – «Tutti muoiono.
Non tutti veramente vivono» – è stranamente simile al messaggio di
alcuni affissi per La Passione di Cristo: «La morte era la sua
ragione per vivere».
In contrasto al film di Pasolini, in
ascetico bianco e nero, col suo schietto montaggio lineare che rispetta
le ellissi nel vangelo di Matteo, La Passione è in vividi colori
e utilizza una serie di tecniche di torsione di tempo e spazio – dei
flashback e un montaggio parallelo – per modulare e anche analizzare
gli elementi della sua narrazione. Personalmente, trovo l’esagerato uso,
da parte di Gibson, di fotografia al rallentatore e i suoi digitalmente
creati-mostri/incarnazioni del male irritanti, una concessione al cinema
hollywoodiano e, dopo tutto, inefficace. D’altra parte, le sogggettive
scene retrospettive, durante la crocifissione di Gesù, che rappresentano
le parole e i gesti dell’istituzione eucaristica all’Ultima Cena sono
particolarmente efficaci e teologicamente avvedute; Gesù sta vivendo
nella sua carne la sublime realtà da lui creata sacramentalmente
nell’Ultima Cena, realtà che i cristiani commemorano efficacemente nella
celebrazione sacramentale dell’Eucaristia.
Mentre Pasolini inserisce alcuni brevi
brani di musica classica in contrappunto, Gibson conferisce intensità al
suo film con uno spartito musicale denso, a volte eccessivamente
pesante, composto per l’occasione. Nella fotografia, Pasolini utilizza,
di preferenza, molte basilari riprese, angolazioni e movimenti della
cinepresa; Gibson, come abbiamo già detto, elabora una gran varietà di
vertiginose tecniche fotografiche, compresi alcuni effetti speciali
digitalmente ottenuti, tutti pezzi forti del contemporaneo film
hollywoodiano.
Alcune delle innovazioni di Gibson nel
tradizionale contenuto dei film su Gesù, sebbene extra-bibliche, sono
molto belle ed efficaci. Quando Maria entra nel cortile sopra la stanza
nella quale Gesù è arrestato e torturato, Gibson la fa adagiare per
terra e mettere la guancia sulle pietre del selciato: vuole essere
vicina a suo figlio e Gesù, sotto, sente la sua presenza, il suo amore
che gli dà forza. Sulla via del Calvario, quando Maria corre ad aiutare
Gesù, caduto per l’ennesima volta – non bastano le tre cadute della
tradizionale via crucis – Gibson inserisce a quel punto una scena
flashback di lei che corre a prendere in braccio Gesù, da bambino e in
lacrime perché era caduto nella loro casa; poi Gesù, di nuovo nel tempo
presente, insanguinato e sofferente, consola la madre «Vedi, madre... io
faccio nuove tutte le cose». Le parole sono tratte dall’Apocalisse
(21,5), ma qui assumono significato di teologia della salvezza,
indicando Gesù come completamente consapevole di effettuare la salvezza
del mondo. Gibson ripropone molto bene la stessa idea in due altri gesti
di Gesù riguardanti la croce: al principio dell’ascesa al Calvario, Gesù
letteralmente abbraccia la sua croce azione che confonde i soldati
romani, e poi, sulla cima del Calvario, Gesù gettato per terra dai colpi
dei soldati, letteralmente si trascina sulla croce. È un imponente
simbolo della sua volontaria scelta di morire per i peccati
dell’umanità.
Le posizioni teologiche
dei due film
Ciascun regista annuncia il suo
programma tematico e, quindi, la posizione teologica del proprio film
nel suo titolo. Il Vangelo di Pasolini proclama la Buona Novella
della vita, la predicazione e le guarigioni, la Passione, Morte e
Risurrezione di Gesù il Cristo, l’evento definitivo della Salvezza, la
liberazione del popolo di Dio: sebbene intransigente nelle sue
aspettative, alla fine la teologia di Pasolini è una teologia della
gioia e della speranza nel Signore Risorto. In contrasto, la Passione
di Gibson dimostra innanzi tutto una teologia dell’espiazione, una
teologia della Croce. Mette a fuoco solo le sofferenze e la morte di
Gesù, distaccate e disassociate dalla sua predicazione e dal ministero
di guarigione; si concentra sulla libera decisione di Gesù di assumere
su se stesso, come capro espiatorio, come il Servo Sofferente di Isaia,
i peccati dell’umanità e di vivere questa raccapricciante prova per
redimere i peccatori.
Ovviamente, per stabilire questa messa
a fuoco, il film si apre con una citazione dai salmi di Isaia sul Servo
Sofferente, che i cristiani intendono come immagini della Passione di
Cristo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le
nostre iniquità» (Is 53,5); ognuna delle tante sferzate della frusta
durante le scene seguenti della flagellazione sembrerebbe rappresentare
una di queste trasgressioni.
I flashback di Gibson
dell’Ultima Cena, come abbiamo già visto, mentre attenuano brevemente lo
schiacciante effetto dell’agonia fisica di Gesù, allo stesso tempo
modulano quella sofferenza, agiscono come strumento ermeneutico per
quell’agonia. Mentre la croce di Gesù viene alzata, un flashback
lo fa vedere mentre dice, sul pane: «Questo è il mio corpo offerto in
sacrificio per voi» e mentre la croce è innalzata al suo posto, un
secondo flashback lo mostra mentre dice, sul vino: «Questo e’ il calice
del mio sangue... sparso per voi e per molti in remissione dei peccati».
Questo Gesù è l’Agnello sacrificale, la vittima sull’altare il cui corpo
e sangue, come nel Sacrificio Eucaristico, sono offerti in espiazione
per i peccati dell’umanità.
La scena più cruciale
della Risurrezione
La scena della Risurrezione è una delle
più importanti in tutti i film su Gesù.
Il contenuto e lo stile della sua
interpretazione rivelano molto sulla posizione teologica del regista e
possono confermare o negare l’impatto teologico dell’intero film.
Pasolini crea una ripresa di venti secondi di Gesù su una collina,
nell’atto di proclamare con energia e urgenza, le parole del vangelo di
Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono
con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20), mentre
un gruppo di discepoli e altre persone corrono gioiosamente verso di
lui. Sulla colonna sonora, un’esplosione di musica sacra e canto – il
molto energico “Gloria” della Messa Luba congolese, coi suoi tamburi e
le sue voci gioiose – sottolineano il significato della Risurrezione
come una vittoria cosmica non solo per Gesù, ma per l’intero popolo di
Dio, una vittoria dal chiaro impatto comunitario e missionario.
In netto contrasto con questa, le scene
della Risurrezione di Gibson non sembrano suscitare alcun coinvolgimento
da parte di coloro che hanno vissuto la Passione con Gesù, cioè della
nascente comunità cristiana. Gibson pone la sua cinepresa in un luogo
buio. Sentiamo la pietra che suggella la tomba rotolar via e realizziamo
che la cinepresa è dentro la tomba, che si riempie gradualmente di luce
dal di fuori. La ripresa si sofferma sul sudario di Gesù, che contiene
il suo corpo e poi misteriosamente, e in un ovvio riferimento alla
sindone di Torino, si sgonfia: la salma di Gesù non c’è più. Poi Gesù è
inquadrato nella scena: lo vediamo di profilo, in una ripresa di testa e
spalle, con tutti i segni della Passione svaniti dal suo viso. Ci si
domanda se ha ancora le ferite sulle mani, i piedi e il costato, ma non
c’è alcun dubbioso san Tommaso, o alcun altro, là presente, a verificare
questo fatto. Sul sonoro sentiamo il battere di tamburi che suonano un
ritmo militare – la Risurrezione di Gesù il Cristo non è certo una
vittoria militare; forse Gibson intende un omaggio a Braveheart,
narrazione spietata di guerra – e, mentre i tamburi battono sempre più
forte, Gesù esce lentamente dal riquadro. Lo schermo ritorna
all’oscurità.
Gibson rappresenta l’evento della
Risurrezione non come una vittoria cosmica per Gesù e per tutti gli
uomini e le donne di tutti i tempi, l’evento-perno della storia umana,
ma piuttosto come un’esperienza privata di Gesù. Non c’è gioia o
speranza nella scena. Maria la madre, Maria Maddalena, Giovanni e il
soldato romano convertito rimangono sofferenti e passivi nel tableau
della Pietà, separati dalla Risurrezione da un paravento che rimane
scuro per sei secondi e dall’egocentrico Signore, tornato in vita per se
stesso.
Fin dall’inizio del film, Gibson ci ha
rappresentato una Maria che ha un tale rapporto psicologico-spirituale,
madre-figlio con Gesù che, perfino a distanza, lei sente il dolore di
lui e lui sente la presenza e l’amore di lei. Certamente, questa
comunione madre-figlio, il cui rinnovarsi viene promesso quando Gibson
fa sussurrare Gesù a Maria con autorità: «Vedi, madre ... io faccio
nuove tutte le cose», una comunione così violentemente interrotta dalla
morte di Gesù, si sarebbe logicamente ristabilita, avrebbe potuto e
dovuto ristabilirsi nella Risurrezione. Ma Gibson, occupato nell’estremo
coinvolgimento coi peccati dell’umanità che caratterizza la sua teologia
dell’espiazione12 e la maggioranza dell’azione dei suoi film,
si lascia scappare l’occasione di dar speranza a tutti noi peccatori.
Peccato!
Il film di Gibson e gli
Esercizi
Spirituali di Ignazio di Loyola
La Passione di Cristo
di Gibson non è facile da guardare, non è facile da accettare. Ho
trovato l’interminabile ed estrema violenza fisica perpetrata su Gesù
molto pesante, resa ancor più opprimente dallo stile spesso violento del
film, a volte addirittura “al di là della ragione” (testuali parole di
Gibson), a volte esagerato oltre a quanto sarebbe necessario per
rappresentare il sacrificio di Gesù per la redenzione di noi peccatori.
Come gesuita, un peccatore che sa di essere salvato, la mia vita è
centrata su Gesù il Cristo, incontrato attraverso gli Esercizi
Spirituali di sant’Ignazio. Negli Esercizi, che noi gesuiti facciamo
annualmente, la “Terza Settimana” è l’esperienza della Passione di Gesù,
contemplata in preghiera per cinque ore ogni giorno, a volta vividamente
quanto qualunque scena nel film di Gibson. Tuttavia, nella mia
esperienza, c’è una cruciale differenza tra la versione di Gibson e
quella di Ignazio. Gli Esercizi Spirituali pongono l’esperienza di
preghiera della Passione fra un’esperienza del ministero di Gesù, cioè
la “Seconda Settimana”, in cui l’esercitante condivide con gioia
vocazione e comunità con Gesù e diventa il suo discepolo, e poi la
“Quarta Settimana,” la Risurrezione di Cristo durante la quale – di
nuovo per cinque ore di preghiera contemplativa al giorno –
l’esercitante vive la gioia e la vittoria del Signore Risorto. Questo dà
all’esercitante una grande speranza.
Nel film di Gibson, una meditazione devozionale nel modo francescano
delle Stazioni della Croce – la devozione di san Francesco alla croce è
ben nota, come pure il fatto che è stato lui il primo cristiano a
ricevere le stimmate, i segni della Passione di Gesù – sperimentiamo la
Passione dal di fuori, separata dalla Buona Novella della sua
predicazione e delle sue guarigioni e isolata dalla sua Risurrezione.
Rimaniamo ai piedi della croce, passivi e sconsolati, assieme agli
altri. Per Giovanni e il soldato, per le donne che, nel Vangelo, sono le
prime a testimoniare la Risurrezione e per noi – peccatori che hanno
trovato la loro speranza nella vittoria del Signore Risorto – La
Passione di Cristo di Gibson offre poca speranza.
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