n. 4
aprile 2004

 

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La Passione di Cristo di Mel Gibson:
Il suo posto nel canone dei film su Gesù e la sua problematica

di Lloyd Baugh *

 

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Sin dalle sue origini, il cinema ha prodotto le sue proprie interpretazioni della storia di Gesù. Già nel 1897, l’anno dopo l’invenzione del cinema, i primi lavori teatrali per film sulla Passione, essenzialmente collezioni di quadri statici sulla Via Crucis della durata di solo pochi minuti, cominciavano a esser prodotti e vastamente proiettati e frequentati dagli entusiasti patroni della nuova arte del cinema.

La Passione di Cristo di Mel Gibson porta questa tradizione di centosei anni al completamento del suo ciclo: come quei primi film e come le tradizionali Stazioni della Via Crucis e i Misteri dolorosi del Rosario, il film di Gibson è limitato alle ultime dodici ore della vita di Gesù, a cominciare dalla scena nell’Orto di Getsemani e concludendosi con la morte di Gesù sulla croce. Il film include anche parecchie scene retrospettive di eventi della vita pubblica di Gesù e un breve riferimento alla Risurrezione.

Fin dalle sue origini, il cinema ha prodotto le sue proprie interpretazioni della storia di Gesù. Già nel 1897, l’anno dopo l’invenzione del cinema, i primi lavori teatrali per film sulla Passione, essenzialmente collezioni di quadri statici sulla Via Crucis della durata di solo pochi minuti, cominciavano a esser prodotti e vastamente proiettati e frequentati dagli entusiasti patroni della nuova arte del cinema.

La Passione di Cristo di Mel Gibson porta questa tradizione di centosei anni al completamento del suo ciclo: come quei primi film e come le tradizionali Stazioni della Via Crucis e i Misteri dolorosi del Rosario, il film di Gibson è limitato alle ultime dodici ore della vita di Gesù, a cominciare dalla scena nell’Orto di Getsemani e concludendosi con la morte di Gesù sulla croce. Il film include anche parecchie scene retrospettive di eventi della vita pubblica di Gesù e un breve riferimento alla Risurrezione.

 

Lo sviluppo della tradizione dei film su Gesù

Fin dal 1897 e le prime “Passioni”, la tradizione dei film su Gesù ha subito molte variazioni e alcuni dei suoi più acclamati e importanti film hanno rivelato un’interessante diversità di modi di affrontare l’argomento, sia in stile sia in contenuto.

Hollywood ha poi apportato la sua impronta con una serie di film epici su Gesù: Il Re dei re, di De Mille, nel 1927, Re dei re, di Nicholas Ray, nel 1961 e La più grande storia mai raccontata, di George Stevens, nel 1965. Più tardi, Broadway e i suoi drammi musicali hanno ispirato due film su Gesù, entrambi usciti nel 1973: il rock-musical Jesus Christ Superstar, di Norman Jewison, ispirato da un’unica canzone bestseller da un milione di dollari dallo stesso nome e Godspell, il molto più serio folk-musical, basato su una tesi di Master’s in Teologia. Il susseguente mutamento della tradizione è in forma di giallo psicologico, L’Ultima Tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, la cui messa in circolazione incontrò veementi proteste nel 1988.

Negli anni ‘70 furono prodotti due film italiani su Gesù che ebbero un impatto duraturo sulla tradizione: Il Messia, di Rossellini nel 1975, che, con i suoi moderati costi di produzione e prolungati dialoghi, ha proposto quella che è stata definita l’impostazione didattica e, nel 1977, Gesù di Nazaret, di Zeffirelli, che, con la sua bellezza e il suo buon gusto, annunciò l’impostazione estetica ed è rimasto, sin d’allora, una pietra miliare di cui ognuno che aspiri a fare un film su Gesù deve tener conto.

Negli anni recenti, andando incontro al gusto popolare e alla sensibilità ormai conformata alla televisione, sono stati prodotti tre film su Gesù: Jesus, fatto in Italia – da cattolici – come parte di una serie di film biblici, The Book of Matthew, nel 2002 e The Gospel of John, nel 2003, prodotti negli Stati Uniti da gruppi evangelici protestanti. Questi film affrontano la narrazione del Vangelo in un modo molto letterale. Tutti e tre trovano il loro mercato specialmente nell’ambito del “video-market”.

Non c’è dubbio che l’apogeo della tradizione dei film su Gesù sia stato segnato da Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini, prodotto nel 1964 e accolto con grande acclamazione della critica lungo gli anni. Fatto piuttosto significativo: è l’unica vita Christi inclusa nella lista del Vaticano dei più grandi film religiosi, pubblicata nel 1997.

Data l’imponente capacità del cinema a raggiungere e toccare la vita di milioni di persone, non è facile per un/a cristiano/a con un minimo di spirito missionario obiettare ad una rappresentazione di Gesù in quel medium. Ogni onesto tentativo di rappresentare artisticamente la vita di Gesù è, in teoria, lodevole; tuttavia dobbiamo riconoscere che tutti i film su Gesù, dati lo sfondo e le scelte stilistiche dei loro registi, pongono agli spettatori e ai critici problemi spinosi: molti di essi, infatti, diventano lezioni su che cosa evitare nel fare un film su Gesù.

Per esempio, le “Passioni” dei primi tempi, proprio perché sono mute e brevi, favoriscono un’esagerata gesticolazione da parte degli attori e un aspetto crudamente caricaturale dei personaggi, separandoli nettamente in “buoni” e “cattivi”. Naturalmente i “cattivi” sono ebrei, per la maggioranza rappresentati come brutti, avari, assetati di sangue, totalmente riprovevoli. Questa tecnica semplicistica, molto problematica, salta all’occhio guardando, per esempio, i brevi episodi su Gesù in Intolleranza, di Griffith (1916). I discepoli di Gesù sono sfacciatamente “buoni”, mentre le autorità religiose ebree preoccupate, sempre in complotto, esteticamente sgradevoli, sono, dalla prima all’ultima, sfacciatamente “cattive”.

La tradizione dell’epica hollywoodiana solleva parecchie questioni, fra le quali quello di inventare l’abbellimento nel romanzare il testo del Vangelo, con personaggi non storici e non biblici, spesso molto elaborati e disgiunti dalla storia centrale di Gesù e che spesso la sminuiscono. Per esempio, le scene softporn dell’assolutamente improbabile relazione tra Maria Maddalena e Giuda, all’inizio de Il Re dei re di De Mille – inclusa un’orgia al sontuoso palazzo di Maddalena, e Maria che cavalca verso l’orizzonte (alla Ben-Hur) in una biga trasportata da quattro zebre – inquadrano in un tono disastrosamente sbagliato la storia di Gesù che le segue. Più tardi, nel film Il Re dei re, Ray crea un personaggio inventato, il gentile centurione Lucio che, dalla nascita alla morte di Gesù, mantiene contatti con tutti i protagonisti: in realtà, e stranamente, è Lucio e non Gesù che dà coesione alla narrazione.

Dando per scontato il diritto di scelta – gli artisti hanno il diritto di basare un film sulla propria ottica, anche profondamente personale, su Gesù e sull’evento Cristo, – tutti i film su Gesù che romanzano il testo e lo spirito della Bibbia presentano un particolare problema.

È un fatto ben documentato che il pubblico tipico, gli spettatori o i telespettatori, percepisce quello che vede sullo schermo – un’immagine il cui impatto è aumentato e molto ingrandito dal vasto schermo in Technicolor, vari effetti fotografici super-realistici e un possente sistema sonoro THX – come realtà.

Se, poi, si tratta di un film anche vagamente biblico, quello che appare sullo schermo è percepito come realtà biblica. Quindi, allorché un film – forse ricolmo di materiale non-storico, non-biblico e che, forse, propone anche una cristologia e una teologia della salvezza così lontane da quelle comunemente proposte dalla Chiesa odierna dall’essere addirittura eretiche – si presenta, o è lodato da altri, come “veramente cattolico nella sua visione”, come “l’autentica storia della Bibbia”, la critica cattolica ha il diritto e il dovere di indicare gli errori, i punti deboli e le limitazioni di questo film.

Un’altra dimensione problematica dei film su Gesù riguarda gli attori che vengono scelti per interpretare i personaggi biblici. Ne La più grande storia mai raccontata, per esempio, il contrasto fra il solenne, lugubre Max von Sydow (nella parte di Gesù) – un attore i cui ruoli precedenti erano stati principalmente quelli di tormentati antieroi nei film di Ingmar Bergman – e le varie star hollywoodiane in brevi ruoli, tipo Charlton Heston, Shelley Winters, Sidney Poitier, Angela Lansbury e Telly Savalas fa sorgere la questione dell’identità di attori popolari che, inesorabilmente, interferisce coi personaggi rappresentati – il regista francese Robert Bresson li chiama oscuri “filtri” – e lo stesso si dica della comunicazione del messaggio evangelico.

Un’altra fatale limitazione de La più grande storia è la decisione, da parte di Ray, di oscurare a tal punto l’identità ebrea di Gesù – per esempio l’Ultima Cena non è rappresentata come un pasto rituale ebreo – che, alla fine, non solo Gesù non risulta ebreo, ma anche la sua concreta umanità e storicità finiscono con lo sparire e, in effetti, con la negazione della fede cristiana nell’Incarnazione, Gesù diventa una specie di strano Cristo universale, astratto e irreale.

I due film-musical su Gesù introducono il problema della credibilità ed efficacia di un personaggio Gesù che, assieme ai suoi discepoli, si mette ogni tanto a cantare – in Godspell, magari, la cosa funziona, ma in Superstar, no – e poi Superstar, con la sua peculiare interpretazione della storia di Gesù, in uno stile frammentario postmoderno, è una classica prova delle limitazioni di quel genere e della conseguente dispersione della proclamazione evangelica. Un’ancor più grave limitazione di entrambi i film è che, Superstar in modo particolare, rappresentano la Risurrezione vagamente e in modo non corretto.

Gesù di Nazaret, con tutta la sua tecnica impeccabile e la sua bellezza mozzafiato, manca dell’incisività che contraddistingue i vangeli e che dovrebbe caratterizzare una rappresentazione della storia di Gesù. Scrupolosamente autentico per quanto riguarda i costumi, l’ambiente culturale e la messa in scena, il film diventa una serie di attraenti tableaux da cartolina, ivi inclusa una crocifissione sterilizzata, una specie di Passione-senza-la passione. L’im-patto radicale del Vangelo, quindi, svanisce. Anche Zeffirelli cade nella trappola di Nicholas Ray, creando un personaggio non-biblico, Zerah, che manipola a tal punto sia le autorità romane sia quelle ebree che, alla fin fine, è lui – un personaggio storicamente inesistente – ad essere il maggior responsabile della morte di Gesù. Zerah assolve due funzioni: fa opportunamente deviare qualsiasi accusa di anti-semitismo e, allo stesso tempo, crea una subtrama che serve a mantener vivo l’interesse degli spettatori durante questo lunghissimo film.

Il tono freddamente didattico de Il Messia di Rossellini – nel quale Gesù insegna e predica più che in qualunque altro film – lascia lo spettatore indifferente e la sua molto abbreviata, distaccata rappresentazione della Passione fa sembrare la morte di Gesù più quella di un eroe, tipo Socrate, forse, che l’atto appassionato di spoliazione sacrificale del Dio Incarnato, che effettua la salvezza dell’umanità.

Anche il popolare modo di affrontare il Vangelo mostra severe limitazioni. Per esempio, il cattolico film Jesus illustra bene il pericolo della diluizione del testo evangelico e del messaggio cristiano, come nel caso della scena della samaritana, al pozzo. Gesù e i discepoli si mettono a tirarsi acqua addosso e Gesù finisce col non costruire mai il suo cruciale dialogo con la donna. Stratagemma, questo, inteso ad attirare qualunque pubblico; la dichiarazione del produttore: «Abbiamo voluto accertarci di non offendere né cattolici, né protestanti, né ebrei, né mussulmani», dice tutto; il film non offende nessuno, ma il sale del Vangelo è stato rimpiazzato dallo zucchero.

Sia The Book of Matthew sia The Gospel of John, film mai distribuiti commercialmente, mettono bene in evidenza i problemi di una trasposizione troppo letterale e, tutto sommato, blanda del testo biblico, nella sua interezza e verbatim, al medium cinematografico, coi suoi propri canoni stilistici ed esigenze. Il guru delle comunicazioni Marshall McLuhan dice che «il medium è il messaggio» e il medium cinematografico comunica il suo messaggio in modo diverso da quello della stampa e della proclamazione verbale.

Fino a La passione di Cristo di Gibson, L’Ultima Tentazione di Cristo di Martin Scorsese è stato, senza dubbio, il più controverso dei film su Gesù. Quando uscì, molti furono scandalizzati, a causa di un malinteso di base, dalla sequenza dell’«ultima tentazione», che fu interpretata come un’obiettiva rappresentazione di un’azione sessuale di Gesù. In realtà, la questione ben più grave del film era la sua incongruenza e le spesso bizzarre decisioni tecniche adottate: per esempio, una canzone musulmana che invoca Allah durante la scena dell’Ultima Cena e un’anacronistica e incredibilmente cruenta scena del “sacro Cuore”, al di là di ogni estremo.

Il film, inoltre, erra grandemente nella sua analisi psicologica e nel distorto ritratto antropologico che fa di Gesù, come di un uomo che soffre di severi conflitti psicologici, quasi a rasentare la psicosi, e che, in effetti, non risolve mai i suoi conflitti. Alla fine è grazie al suo intimo amico Giuda che questo Gesù finisce col morire sul Calvario1. In ultima analisi, nonostante le ripetute affermazioni fatte da Scorsese alla stampa sulla sua fede cattolica e nonostante l’affrettata smentita che precede i titoli, l’Ultima Tentazione non riesce a risolvere adeguatamente il mistero dinamico della dimensione umano-divina dell’esistenza di Gesù e a rappresentare una valida teologia cristiana della salvezza.

 

La Passione di Gibson

L’ultimo dei film su Gesù, La Passione di Cristo, offre una potente esperienza emozionale; a volte è doloroso osservarla e doloroso rifletterci. Solo nominalmente simile ai primi film sulla Passione, il lavoro di Gibson, ovviamente, li sorpassa di gran lunga: la sua durata, la complessità della sua narrativa e il suo stile contemporaneo sono tutti elementi che lo distanziano dalle prime “Passioni”, così come il fatto che non solo rappresenta visualmente gli elementi tradizionali della Passione di Gesù, ma li interpreta, dando loro una certa spinta teologica. Mentre i primi film erano muti, con occasionali titoli a indicare il dialogo, Gibson fa parlare ai suoi personaggi le lingue antiche: Gesù e gli altri ebrei parlano l’aramaico e i romani, la lingua latina.

La Passione di Gibson, pur evitando la maggior parte degli eccessi delle epiche hollywoodiane, a volte sviluppa, in modo irritante, alcune dimensioni della narrativa biblica, facendole andare, generalmente, verso il sentimentale. Dà un ruolo molto ingrandito alla moglie di Pilato e alla sua intercessione perché il marito non condanni Gesù; include addirittura un accorato incontro fra lei e la madre di Gesù. Anzi Gibson crea un rapporto dinamico fra Maria, Maria Maddalena2 e la moglie di Pilato e, in un certo senso, la sua rappresentazione della Passione di Gesù è vista e adattata attraverso i loro occhi. Ci sono dei momenti molto belli nell’interazione delle donne, per esempio, quando Maria, aiutata da Maria Maddalena e Claudia e seguendo un rito ebreo – osservato ancor oggi quando gli ebrei sono dilaniati dalle bombe suicide – asciuga il sangue di Gesù dal suolo, nel luogo della flagellazione3. Comunque, alla fine, quest’ingegnoso accorgimento, che funge – a volte – da sollievo dall’orrore della tortura di Gesù, tende troppo verso il sentimentale.

La scena stessa della flagellazione, che sembra senza fine, la sua crudeltà sadica aumentata da troppe scene estreme, in primo piano, – per esempio, il sangue che schizza e la carne piagata e anche da un pesante accompagnamento musicale, che spesso echeggia il molto sintetizzato sonoro del film di Scorsese e le sette o otto terribili cadute di Gesù durante la sua ascesa al Calvario – non trovano giustificazione come necessaria sofferenza di Gesù in espiazione dei peccati dell’umanità. Sembrano più elementi pseudo-biblici, equivalenti alle sanguinose scene di battaglia che costellano il precedente sforzo registico e recitatorio di Mel Gibson: Braveheart (1995), tutto azione, ma scarso significato morale-spirituale.

Più di una volta, Gibson scivola nel kitsch che caratterizza i film su Gesù hollywoodiani. Per esempio, per far sí che Gesù, in catene, incontrasse ancora una volta Giuda, Gibson lo fa percuotere dai soldati che lo arrestano, gli fa perdere l’equilibrio e lo fa cadere da un precipizio e, in una strana imitazione dello sport estremo di bungee-jumping, lo fa rimanere sospeso a breve distanza dal suolo, sopra Giuda. Più tardi, per punire il ladrone che aveva insultato Gesù, Gibson fa discendere un immenso corvo sulla sua croce che, in quello che mi sembra un riferimento a Gli uccelli di Hitchcock (1963), gli becca gli occhi; la raffinata scena è fotografata in primissimo piano. Poi, verso la fine della crocifissione, Gibson fa avvicinare Maria di Nazaret al figlio morente e le fa baciare i suoi piedi; ne esce con bocca, viso e vestiti insanguinati. L’effetto è davvero bizzarro, un po’ una via di mezzo fra immagini di vampiro e le terribili immagini dell’insanguinata e disperata Jacqueline Kennedy, il 22 novembre 1963. Più tardi, a suggerire che il soldato romano con la lancia è “lavato nel sangue dell’Agnello”, Gibson, in una mossa veramente strana, fa cadere l’uomo in ginocchio e lo fa pregare sotto una vera e propria doccia del sacro sangue di Gesù. Nessuno ha pensato di dire ai tecnici degli effetti speciali che a quel punto, dopo dodici ore di spargimento di sangue, sarebbe rimasto a Gesù ben poco del suo sacro sangue e, certamente, non sarebbe sprizzato dal suo costato.

Il terremoto, che nel Vangelo strappa il velo del tempio in due (Lc 23,45) ne La Passione continua indefinitamente e spacca l’intero tempio in due. Uno dei più strani effetti nel film è la “lacrima di Dio”, una goccia d’acqua che, grazie a manipolazione digitale, cade con gran suono dall’occhio di Dio in cielo fino alla terra e sul Calvario e dà inizio alla violenta tempesta-terremoto che indica la morte di Gesù.

Sarebbe dir poco affermare che La Passione di Gibson non ha niente del film musicale, ma il suo ritratto di Erode come un nervoso, smorfioso, nevrotico con tanto di parrucca sulle ventitré, buttata là in fretta, sembra presa di peso da Jesus Christ Superstar. Mi stavo quasi aspettando che il Tetrarca conducesse Gesù alla sua piscina e, cantando, gli domandasse: «change the water into wine» (trasforma l’acqua in vino)…

Se Gesù di Nazaret e Il Messia mancano, da una parte, d’incisività e dall’altra d’impatto emozionale, il film di Gibson compensa per entrambi. A nessun punto della storia cerca di rappresentare la bellezza fine a se stessa, la sua tesi teologica è chiarissima e l’impatto emozionale sullo spettatore è incontestabile.

Infine, mentre, da un canto, Gibson cerca accuratamente di evitare la dominante e fatale analisi psico-sessuale de L’Ultima Tentazione di Cristo, in sostanza, proprio come Scorsese, soggioga lo spettatore alle stesse montagne russe emozionali. I due film hanno in comune alti valori di produzione: fotografia molto energica, con velocissime lenti, molte riprese soggettive dal punto di vista del morente Gesù, effetti speciali, – in Gibson limitati principalmente ai suoi vari personaggi ripugnanti raffiguranti il male – montaggio aggressivo e pesante e, a volte, un’opprimente messa a fuoco della violenza fisica ed emozionale. In Scorsese ci sono alcuni momenti di sollievo visivo ed emozionale, ne La Passione di Gibson, pochissimi.

 

Il Vangelo di Pasolini e La Passione di Gibson

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini è stato ed è tuttora il più grande dei film su Gesù. La Passione di Gibson, sebbene radicalmente diversa da esso, stranamente ha molti punti in comune con Il Vangelo. Pasolini ha fatto il suo film in seguito a una profonda esperienza personale religiosa, con la quale era stato graziato dopo aver letto il Vangelo di Matteo durante un ritiro ad Assisi. L’impegno di fede di Gibson nella tradizione cattolica, risultatomi ancor più evidente in un colloquio a quattr’occhi con lui dopo la proiezione de La Passione, è innegabile. Entrambi questi uomini hanno prodotto i loro film con infaticabile coraggio ed energia spirituale.

I due film sono documenti forti e senza compromessi in contenuto e stile. I messaggi cristiani che proclamano sono chiari e privi di ambiguità; mettono a confronto gli spettatori, forse in modo disagevole, con scelte radicali – come fece la predicazione di Gesù. Forse per questa ragione, entrambi i film sono stati sottoposti a una tempesta di controversie. Per mesi, nel 1963-1964, durante la produzione del Vangelo di Pasolini, accuse e condanne vennero pubblicate nei media italiani da persone che, naturalmente, non potevano aver idea di come il film, alla fine, sarebbe riuscito. Il nocciolo dei commenti negativi, provenienti soprattutto da circoli legati al Partito Cristiano Democratico, era che Pisolini – ex-membro del Partito Comunista, ateo e apertamente omosessuale – non poteva fare un film valido su Gesù; anzi, tale film non poteva che essere una perversione del Vangelo. La premiere del film al Festival di Venezia del 1964 era presieduta da centinaia di carabinieri armati; si aspettavano dimostrazioni. Il film fu anche aspramente criticato da L’Osservatore Romano, però trentatré anni dopo il Vaticano riconobbe la sua grandezza.

 

Le accuse di anti-semitismo

La Passione di Gibson ha generato più commenti e controversie della maggior parte dei film su Gesù4, sia prima, sia dopo la sua proiezione; anzi, una vera e propria animata atmosfera di polemica si è sviluppata nei suoi confronti. Accuse e contro-accuse sono state pubblicate nei media quasi quotidianamente, per la maggioranza riguardo a quella che si sospetta e si teme che sia la posizione anti-semita del film. Alcune accuse sono basate su un montaggio primitivo del film, precedente a una vigorosa revisione. La maggioranza di esse era basata su copie abusive di una versione iniziale della sceneggiatura del film; improbabile motivo su cui basare un giudizio finale del film, perché la maggioranza dei montaggi finali – eccezione fatta, forse, dei film di Hitchcock – differiscono grandemente dalle loro ideazioni originali.

Teologi, pastori e alte autorità della Chiesa sono stati arruolati da entrambi i gruppi, nella speranza di rafforzare le loro posizioni. Perfino il sofferente Giovanni Paolo II è stato ingiustamente e sfortunatamente invischiato nella controversia, con pretese, da una parte, che lui abbia visto il film e che gli sia piaciuto e con insistenti smentite, dall’altra, che il Papa non fa commenti sui film, preferendo lasciare quel compito agli esperti5. Naturalmente, anche se il Papa ha visto il film, la sua valutazione dello stesso, sia essa positiva o negativa (il suo presunto commento: «È com’era», sembra positivo.) non ha certo la teologica e vincolante autorità di un pronunciamento ex cathedra.

Inoltre, recensioni negative sono state scritte da persone che non hanno visto il film, invocando l’oscura ombra dell’Olocausto e pretendendo, allarmisticamente, che il film potrebbe sguinzagliare nuove persecuzioni contro gli ebrei, e sono stati fatti fondamentalmente trascurabili e spesso inaccurati commenti sulla vita personale e la fede del regista, soprattutto allo scopo di screditare il film.

La questione principale è, qui, il modo in cui il film rappresenta la responsabilità per la condanna e l’esecuzione di Gesù, e questa è stata una questione molto pressante per tutti i film su Gesù, una questione che ciascun regista deve affrontare. Sono i romani che devono essere incolpati della morte di Gesù o sono i governanti religiosi ebrei ad essere responsabili? Sono tutti i governanti ebrei o solo alcuni? O la colpa si allarga, ad implicare gli ebrei come comunità o come razza?

La discussione su tali quesiti ha molta importanza, perché l’accusa di deicidio – fatta contro gli ebrei sin dall’inizio del Cristianesimo – è stata la sorgente e la struttura della persecuzione degli ebrei da parte dei cristiani per molti secoli, e perché i drammi europei sulla Passione – spesso anti-semitici – dal Medio Evo fino ad oggi sono considerati da molti come uno dei cruciali elementi religiosi, nello sfondo dell’Olocausto nazista nel ventesimo secolo.

Questa terribile accusa è, per la maggior parte, basata su un verso nel vangelo di Matteo: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,26), epiteto gridato unanimemente dalla folla di adirati ebrei, nel cortile del palazzo di Pilato; la frase, in effetti, invoca una maledizione divina su quegli ebrei e su tutti gli ebrei di tutti i tempi ed è stata citata molte volte come giustificazione per atti di violenza organizzata contro gli ebrei, perpetrati, per la maggioranza, da cristiani.

Dal concilio Vaticano II, la posizione della Chiesa è diventata molto più chiara verso l’antisemitismo, condannandolo in qualunque forma si presenti. Giovanni Paolo II ha visitato la Sinagoga di Roma, dove si è riferito agli ebrei come ai «nostri prediletti fratelli, i nostri fratelli maggiori»6, ha pregato al Muro del Pianto a Gerusalemme e ha pubblicamente implorato il perdono divino dei molti atti di odio e violenza contro gli ebrei.

Nel 1988, la Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti, traendo ispirazione dal documento del Vaticano II Nostra Aetate, pubblicò un documento che definisce molto chiaramente le linee direttive per la rappresentazione della Passione di Gesù da parte dei Cattolici «comprese, ma non limitate a drammatiche presentazioni, messe in scena della morte di Gesù, più comunemente conosciute come “drammi della Passione”7. Fino a tempi recenti, i drammi della Passione sono stati ben noti per le loro violentemente anti-semitiche rappresentazioni degli ebrei, sempre con la citazione dell’offensivo verso da Matteo.

La Passione di Cristo di Gibson assume una posizione piuttosto equilibrata riguardo alla critica questione della rappresentazione della responsabilità per la morte di Gesù. Da una parte, l’individuo Caifa e alcuni dei suoi colleghi del Consiglio, che spinge i romani a condannare Gesù, sono forse un po’ stereotipati e la loro autorità sul debole e, forse, troppo buon Pilato un tantino esagerata; le “Direttive” dei Vescovi ammoniscono di non «caricaturare gli Ebrei»8. Comunque, poi, adeguandosi alle “Direttive”, Gibson controbilancia bene la posizione di Caifa e colleghi, facendo vedere parecchi membri del Consiglio in violento disaccordo – Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e altri ebrei sostenitori di Gesù, – che condannano l’inchiesta contro Gesù come una «traversia, una bestiale parodia» e si precipitano incolleriti fuori dell’assemblea. Nelle scene di folla, durante i processi di Gesù, sfortunatamente il film mostra troppa gente radunata nei cortili, un’esagerazione dalla quale le “Direttive” ammoniscono di astenersi, asserendo che la probabile verità storica de «la piccola folla al palazzo del Governatore» non dovrebbe mai essere sostituita da una “marea”9.

Dopo, però, quasi a controbilanciare questo lapsus, e molto significativamente, Gibson non include le famose parole offensive della folla: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli». (Mt 27,26). Inoltre, non tutti nella vasta folla sono contro Gesù. Si sentono voci dissenzienti e poi queste scene sono in forte contrasto, qualche momento più tardi, con scene che Gibson mostra di grandi folle in vigorosa protesta in favore di Gesù, mentre ascende faticosamente il Calvario. Le loro proteste in parole e gesti sono così forti che i soldati romani hanno difficoltà a controllarli. Poi, quando Simone di Cirene, costretto al servizio dai soldati, comincia ad aiutare Gesù a portare la sua croce, uno dei soldati romani si rivolge a lui con un beffardo: «Tu, ebreo!». L’anti-semitismo, qui, è di un romano e il film chiaramente lo condanna. Il pro-semitismo di quell’episodio Simone-Gesù è molto eloquente: Simone, dapprima riluttante, impaurito, pauroso di aiutare Gesù, una volta entrato in contatto con lui, sorregge non solo la croce, ma anche, letteralmente, Gesù, sussurrandogli ripetutamente amorose parole di sostegno: «Siamo quasi arrivati … È quasi fatto …». La ripresa dei due visti di spalla, con le braccia intrecciate, mentre salgono faticosamente la collina, è molto commovente.

Infine, la più chiara prova che il film non intende assumere una posizione anti-semitica è la penultima scena, una fisicamente statica, ma moralmente dinamica rappresentazione della Pietà, in cui un’addolorata Maria, affiancata da Maria Maddalena, da Giovanni e dal convertito soldato romano, non fissa Gesù morto nelle sue braccia (il gesto che sarebbe stato più logico) ma, invece, la cinepresa e, quindi, lo spettatore; questa è l’unica volta in cui Gibson interrompe il quadro drammatico, e quindi l’illusione drammatica della narrazione, e si rivolge direttamente allo spettatore. Questa lunga ripresa, che dura venti secondi, invita irresistibilmente noi spettatori a entrare nella narrazione e ad assumere la nostra responsabilità come peccatori per la morte di questo Gesù che – il film ripetutamente chiarisce – è morto per i nostri peccati.

Che uno sia d’accordo con lui o no, Gibson qui dice, più chiaramente di tutti gli altri registi di film su Gesù, che non sono stati gli ebrei a uccidere Gesù: ognuno di noi umani peccatori è responsabile della sua morte.

 

Il vangelo secondo Mel Gibson

Se il Vangelo di Pasolini e La Passione di Gibson hanno degli elementi in comune, in realtà le differenze fra di loro hanno molta più importanza.

La differenza più ovvia è che quello di Gibson è un dramma sulla Passione, mentre quello di Pasolini copre (letteralmente) quasi tutto il vangelo di Matteo.

Pasolini limita il dialogo del suo film esclusivamente alle parole di Matteo, mentre Gibson, giustificatamente, dà loro ampio sviluppo. Entrambi i film hanno sottotitoli in inglese ma, mentre Pasolini fa parlare italiano ai suoi personaggi, quelli di Gibson comunicano in aramaico e latino. Unica nella tradizione dei film su Gesù, quest’audace e coraggiosa iniziativa da parte del regista è meravigliosamente efficace10.

In ultima analisi, il film di Gibson è un’interpretazione prettamente personale della storia di Gesù, cosa che il regista ammette esplicitamente, una sorta di “vangelo secondo Mel”. Nel suo contenuto riflette elementi tratti dai vangeli, da altri libri non canonici11 e dal personale interesse devozionale del regista.

Quanto allo stile, il film riflette molti elementi tratti dal cinema di azione hollywoodiano – è un genere che Gibson conosce bene – e, ovviamente, dal suo film precedente, Braveheart (1995), il cui messaggio – «Tutti muoiono. Non tutti veramente vivono» – è stranamente simile al messaggio di alcuni affissi per La Passione di Cristo: «La morte era la sua ragione per vivere».

In contrasto al film di Pasolini, in ascetico bianco e nero, col suo schietto montaggio lineare che rispetta le ellissi nel vangelo di Matteo, La Passione è in vividi colori e utilizza una serie di tecniche di torsione di tempo e spazio – dei flashback e un montaggio parallelo – per modulare e anche analizzare gli elementi della sua narrazione. Personalmente, trovo l’esagerato uso, da parte di Gibson, di fotografia al rallentatore e i suoi digitalmente creati-mostri/incarnazioni del male irritanti, una concessione al cinema hollywoodiano e, dopo tutto, inefficace. D’altra parte, le sogggettive scene retrospettive, durante la crocifissione di Gesù, che rappresentano le parole e i gesti dell’istituzione eucaristica all’Ultima Cena sono particolarmente efficaci e teologicamente avvedute; Gesù sta vivendo nella sua carne la sublime realtà da lui creata sacramentalmente nell’Ultima Cena, realtà che i cristiani commemorano efficacemente nella celebrazione sacramentale dell’Eucaristia.

Mentre Pasolini inserisce alcuni brevi brani di musica classica in contrappunto, Gibson conferisce intensità al suo film con uno spartito musicale denso, a volte eccessivamente pesante, composto per l’occasione. Nella fotografia, Pasolini utilizza, di preferenza, molte basilari riprese, angolazioni e movimenti della cinepresa; Gibson, come abbiamo già detto, elabora una gran varietà di vertiginose tecniche fotografiche, compresi alcuni effetti speciali digitalmente ottenuti, tutti pezzi forti del contemporaneo film hollywoodiano.

Alcune delle innovazioni di Gibson nel tradizionale contenuto dei film su Gesù, sebbene extra-bibliche, sono molto belle ed efficaci. Quando Maria entra nel cortile sopra la stanza nella quale Gesù è arrestato e torturato, Gibson la fa adagiare per terra e mettere la guancia sulle pietre del selciato: vuole essere vicina a suo figlio e Gesù, sotto, sente la sua presenza, il suo amore che gli dà forza. Sulla via del Calvario, quando Maria corre ad aiutare Gesù, caduto per l’ennesima volta – non bastano le tre cadute della tradizionale via crucis – Gibson inserisce a quel punto una scena flashback di lei che corre a prendere in braccio Gesù, da bambino e in lacrime perché era caduto nella loro casa; poi Gesù, di nuovo nel tempo presente, insanguinato e sofferente, consola la madre «Vedi, madre... io faccio nuove tutte le cose». Le parole sono tratte dall’Apocalisse (21,5), ma qui assumono significato di teologia della salvezza, indicando Gesù come completamente consapevole di effettuare la salvezza del mondo. Gibson ripropone molto bene la stessa idea in due altri gesti di Gesù riguardanti la croce: al principio dell’ascesa al Calvario, Gesù letteralmente abbraccia la sua croce azione che confonde i soldati romani, e poi, sulla cima del Calvario, Gesù gettato per terra dai colpi dei soldati, letteralmente si trascina sulla croce. È un imponente simbolo della sua volontaria scelta di morire per i peccati dell’umanità.

 

Le posizioni teologiche dei due film

Ciascun regista annuncia il suo programma tematico e, quindi, la posizione teologica del proprio film nel suo titolo. Il Vangelo di Pasolini proclama la Buona Novella della vita, la predicazione e le guarigioni, la Passione, Morte e Risurrezione di Gesù il Cristo, l’evento definitivo della Salvezza, la liberazione del popolo di Dio: sebbene intransigente nelle sue aspettative, alla fine la teologia di Pasolini è una teologia della gioia e della speranza nel Signore Risorto. In contrasto, la Passione di Gibson dimostra innanzi tutto una teologia dell’espiazione, una teologia della Croce. Mette a fuoco solo le sofferenze e la morte di Gesù, distaccate e disassociate dalla sua predicazione e dal ministero di guarigione; si concentra sulla libera decisione di Gesù di assumere su se stesso, come capro espiatorio, come il Servo Sofferente di Isaia, i peccati dell’umanità e di vivere questa raccapricciante prova per redimere i peccatori.

Ovviamente, per stabilire questa messa a fuoco, il film si apre con una citazione dai salmi di Isaia sul Servo Sofferente, che i cristiani intendono come immagini della Passione di Cristo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,5); ognuna delle tante sferzate della frusta durante le scene seguenti della flagellazione sembrerebbe rappresentare una di queste trasgressioni.

I flashback di Gibson dell’Ultima Cena, come abbiamo già visto, mentre attenuano brevemente lo schiacciante effetto dell’agonia fisica di Gesù, allo stesso tempo modulano quella sofferenza, agiscono come strumento ermeneutico per quell’agonia. Mentre la croce di Gesù viene alzata, un flashback lo fa vedere mentre dice, sul pane: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi» e mentre la croce è innalzata al suo posto, un secondo flashback lo mostra mentre dice, sul vino: «Questo e’ il calice del mio sangue... sparso per voi e per molti in remissione dei peccati». Questo Gesù è l’Agnello sacrificale, la vittima sull’altare il cui corpo e sangue, come nel Sacrificio Eucaristico, sono offerti in espiazione per i peccati dell’umanità.

 

La scena più cruciale della Risurrezione

La scena della Risurrezione è una delle più importanti in tutti i film su Gesù.

Il contenuto e lo stile della sua interpretazione rivelano molto sulla posizione teologica del regista e possono confermare o negare l’impatto teologico dell’intero film. Pasolini crea una ripresa di venti secondi di Gesù su una collina, nell’atto di proclamare con energia e urgenza, le parole del vangelo di Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20), mentre un gruppo di discepoli e altre persone corrono gioiosamente verso di lui. Sulla colonna sonora, un’esplosione di musica sacra e canto – il molto energico “Gloria” della Messa Luba congolese, coi suoi tamburi e le sue voci gioiose – sottolineano il significato della Risurrezione come una vittoria cosmica non solo per Gesù, ma per l’intero popolo di Dio, una vittoria dal chiaro impatto comunitario e missionario.

In netto contrasto con questa, le scene della Risurrezione di Gibson non sembrano suscitare alcun coinvolgimento da parte di coloro che hanno vissuto la Passione con Gesù, cioè della nascente comunità cristiana. Gibson pone la sua cinepresa in un luogo buio. Sentiamo la pietra che suggella la tomba rotolar via e realizziamo che la cinepresa è dentro la tomba, che si riempie gradualmente di luce dal di fuori. La ripresa si sofferma sul sudario di Gesù, che contiene il suo corpo e poi misteriosamente, e in un ovvio riferimento alla sindone di Torino, si sgonfia: la salma di Gesù non c’è più. Poi Gesù è inquadrato nella scena: lo vediamo di profilo, in una ripresa di testa e spalle, con tutti i segni della Passione svaniti dal suo viso. Ci si domanda se ha ancora le ferite sulle mani, i piedi e il costato, ma non c’è alcun dubbioso san Tommaso, o alcun altro, là presente, a verificare questo fatto. Sul sonoro sentiamo il battere di tamburi che suonano un ritmo militare – la Risurrezione di Gesù il Cristo non è certo una vittoria militare; forse Gibson intende un omaggio a Braveheart, narrazione spietata di guerra – e, mentre i tamburi battono sempre più forte, Gesù esce lentamente dal riquadro. Lo schermo ritorna all’oscurità.

Gibson rappresenta l’evento della Risurrezione non come una vittoria cosmica per Gesù e per tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi, l’evento-perno della storia umana, ma piuttosto come un’esperienza privata di Gesù. Non c’è gioia o speranza nella scena. Maria la madre, Maria Maddalena, Giovanni e il soldato romano convertito rimangono sofferenti e passivi nel tableau della Pietà, separati dalla Risurrezione da un paravento che rimane scuro per sei secondi e dall’egocentrico Signore, tornato in vita per se stesso.

Fin dall’inizio del film, Gibson ci ha rappresentato una Maria che ha un tale rapporto psicologico-spirituale, madre-figlio con Gesù che, perfino a distanza, lei sente il dolore di lui e lui sente la presenza e l’amore di lei. Certamente, questa comunione madre-figlio, il cui rinnovarsi viene promesso quando Gibson fa sussurrare Gesù a Maria con autorità: «Vedi, madre ... io faccio nuove tutte le cose», una comunione così violentemente interrotta dalla morte di Gesù, si sarebbe logicamente ristabilita, avrebbe potuto e dovuto ristabilirsi nella Risurrezione. Ma Gibson, occupato nell’estremo coinvolgimento coi peccati dell’umanità che caratterizza la sua teologia dell’espiazione12 e la maggioranza dell’azione dei suoi film, si lascia scappare l’occasione di dar speranza a tutti noi peccatori. Peccato!

 

Il film di Gibson e gli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola

La Passione di Cristo di Gibson non è facile da guardare, non è facile da accettare. Ho trovato l’interminabile ed estrema violenza fisica perpetrata su Gesù molto pesante, resa ancor più opprimente dallo stile spesso violento del film, a volte addirittura “al di là della ragione” (testuali parole di Gibson), a volte esagerato oltre a quanto sarebbe necessario per rappresentare il sacrificio di Gesù per la redenzione di noi peccatori. Come gesuita, un peccatore che sa di essere salvato, la mia vita è centrata su Gesù il Cristo, incontrato attraverso gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio. Negli Esercizi, che noi gesuiti facciamo annualmente, la “Terza Settimana” è l’esperienza della Passione di Gesù, contemplata in preghiera per cinque ore ogni giorno, a volta vividamente quanto qualunque scena nel film di Gibson. Tuttavia, nella mia esperienza, c’è una cruciale differenza tra la versione di Gibson e quella di Ignazio. Gli Esercizi Spirituali pongono l’esperienza di preghiera della Passione fra un’esperienza del ministero di Gesù, cioè la “Seconda Settimana”, in cui l’esercitante condivide con gioia vocazione e comunità con Gesù e diventa il suo discepolo, e poi la “Quarta Settimana,” la Risurrezione di Cristo durante la quale – di nuovo per cinque ore di preghiera contemplativa al giorno – l’esercitante vive la gioia e la vittoria del Signore Risorto. Questo dà all’esercitante una grande speranza.

Nel film di Gibson, una meditazione devozionale nel modo francescano delle Stazioni della Croce – la devozione di san Francesco alla croce è ben nota, come pure il fatto che è stato lui il primo cristiano a ricevere le stimmate, i segni della Passione di Gesù – sperimentiamo la Passione dal di fuori, separata dalla Buona Novella della sua predicazione e delle sue guarigioni e isolata dalla sua Risurrezione. Rimaniamo ai piedi della croce, passivi e sconsolati, assieme agli altri. Per Giovanni e il soldato, per le donne che, nel Vangelo, sono le prime a testimoniare la Risurrezione e per noi – peccatori che hanno trovato la loro speranza nella vittoria del Signore Risorto – La Passione di Cristo di Gibson offre poca speranza.

Fin dal 1897 e le prime “Passioni”, la tradizione dei film su Gesù ha subito molte variazioni e alcuni dei suoi più acclamati e importanti film hanno rivelato un’interessante diversità di modi di affrontare l’argomento, sia in stile sia in contenuto.

Hollywood ha poi apportato la sua impronta con una serie di film epici su Gesù: Il Re dei re, di De Mille, nel 1927, Re dei re, di Nicholas Ray, nel 1961 e La più grande storia mai raccontata, di George Stevens, nel 1965. Più tardi, Broadway e i suoi drammi musicali hanno ispirato due film su Gesù, entrambi usciti nel 1973: il rock-musical Jesus Christ Superstar, di Norman Jewison, ispirato da un’unica canzone bestseller da un milione di dollari dallo stesso nome e Godspell, il molto più serio folk-musical, basato su una tesi di Master’s in Teologia. Il susseguente mutamento della tradizione è in forma di giallo psicologico, L’Ultima Tentazione di Cristo, di Martin Scorsese, la cui messa in circolazione incontrò veementi proteste nel 1988.

Negli anni ‘70 furono prodotti due film italiani su Gesù che ebbero un impatto duraturo sulla tradizione: Il Messia, di Rossellini nel 1975, che, con i suoi moderati costi di produzione e prolungati dialoghi, ha proposto quella che è stata definita l’impostazione didattica e, nel 1977, Gesù di Nazaret, di Zeffirelli, che, con la sua bellezza e il suo buon gusto, annunciò l’impostazione estetica ed è rimasto, sin d’allora, una pietra miliare di cui ognuno che aspiri a fare un film su Gesù deve tener conto.

Negli anni recenti, andando incontro al gusto popolare e alla sensibilità ormai conformata alla televisione, sono stati prodotti tre film su Gesù: Jesus, fatto in Italia – da cattolici – come parte di una serie di film biblici, The Book of Matthew, nel 2002 e The Gospel of John, nel 2003, prodotti negli Stati Uniti da gruppi evangelici protestanti. Questi film affrontano la narrazione del Vangelo in un modo molto letterale. Tutti e tre trovano il loro mercato specialmente nell’ambito del “video-market”.

Non c’è dubbio che l’apogeo della tradizione dei film su Gesù sia stato segnato da Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini, prodotto nel 1964 e accolto con grande acclamazione della critica lungo gli anni. Fatto piuttosto significativo: è l’unica vita Christi inclusa nella lista del Vaticano dei più grandi film religiosi, pubblicata nel 1997.

Data l’imponente capacità del cinema a raggiungere e toccare la vita di milioni di persone, non è facile per un/a cristiano/a con un minimo di spirito missionario obiettare ad una rappresentazione di Gesù in quel medium. Ogni onesto tentativo di rappresentare artisticamente la vita di Gesù è, in teoria, lodevole; tuttavia dobbiamo riconoscere che tutti i film su Gesù, dati lo sfondo e le scelte stilistiche dei loro registi, pongono agli spettatori e ai critici problemi spinosi: molti di essi, infatti, diventano lezioni su che cosa evitare nel fare un film su Gesù.

Per esempio, le “Passioni” dei primi tempi, proprio perché sono mute e brevi, favoriscono un’esagerata gesticolazione da parte degli attori e un aspetto crudamente caricaturale dei personaggi, separandoli nettamente in “buoni” e “cattivi”. Naturalmente i “cattivi” sono ebrei, per la maggioranza rappresentati come brutti, avari, assetati di sangue, totalmente riprovevoli. Questa tecnica semplicistica, molto problematica, salta all’occhio guardando, per esempio, i brevi episodi su Gesù in Intolleranza, di Griffith (1916). I discepoli di Gesù sono sfacciatamente “buoni”, mentre le autorità religiose ebree preoccupate, sempre in complotto, esteticamente sgradevoli, sono, dalla prima all’ultima, sfacciatamente “cattive”.

La tradizione dell’epica hollywoodiana solleva parecchie questioni, fra le quali quello di inventare l’abbellimento nel romanzare il testo del Vangelo, con personaggi non storici e non biblici, spesso molto elaborati e disgiunti dalla storia centrale di Gesù e che spesso la sminuiscono. Per esempio, le scene softporn dell’assolutamente improbabile relazione tra Maria Maddalena e Giuda, all’inizio de Il Re dei re di De Mille – inclusa un’orgia al sontuoso palazzo di Maddalena, e Maria che cavalca verso l’orizzonte (alla Ben-Hur) in una biga trasportata da quattro zebre – inquadrano in un tono disastrosamente sbagliato la storia di Gesù che le segue. Più tardi, nel film Il Re dei re, Ray crea un personaggio inventato, il gentile centurione Lucio che, dalla nascita alla morte di Gesù, mantiene contatti con tutti i protagonisti: in realtà, e stranamente, è Lucio e non Gesù che dà coesione alla narrazione.

Dando per scontato il diritto di scelta – gli artisti hanno il diritto di basare un film sulla propria ottica, anche profondamente personale, su Gesù e sull’evento Cristo, – tutti i film su Gesù che romanzano il testo e lo spirito della Bibbia presentano un particolare problema.

È un fatto ben documentato che il pubblico tipico, gli spettatori o i telespettatori, percepisce quello che vede sullo schermo – un’immagine il cui impatto è aumentato e molto ingrandito dal vasto schermo in Technicolor, vari effetti fotografici super-realistici e un possente sistema sonoro THX – come realtà.

Se, poi, si tratta di un film anche vagamente biblico, quello che appare sullo schermo è percepito come realtà biblica. Quindi, allorché un film – forse ricolmo di materiale non-storico, non-biblico e che, forse, propone anche una cristologia e una teologia della salvezza così lontane da quelle comunemente proposte dalla Chiesa odierna dall’essere addirittura eretiche – si presenta, o è lodato da altri, come “veramente cattolico nella sua visione”, come “l’autentica storia della Bibbia”, la critica cattolica ha il diritto e il dovere di indicare gli errori, i punti deboli e le limitazioni di questo film.

Un’altra dimensione problematica dei film su Gesù riguarda gli attori che vengono scelti per interpretare i personaggi biblici. Ne La più grande storia mai raccontata, per esempio, il contrasto fra il solenne, lugubre Max von Sydow (nella parte di Gesù) – un attore i cui ruoli precedenti erano stati principalmente quelli di tormentati antieroi nei film di Ingmar Bergman – e le varie star hollywoodiane in brevi ruoli, tipo Charlton Heston, Shelley Winters, Sidney Poitier, Angela Lansbury e Telly Savalas fa sorgere la questione dell’identità di attori popolari che, inesorabilmente, interferisce coi personaggi rappresentati – il regista francese Robert Bresson li chiama oscuri “filtri” – e lo stesso si dica della comunicazione del messaggio evangelico.

Un’altra fatale limitazione de La più grande storia è la decisione, da parte di Ray, di oscurare a tal punto l’identità ebrea di Gesù – per esempio l’Ultima Cena non è rappresentata come un pasto rituale ebreo – che, alla fine, non solo Gesù non risulta ebreo, ma anche la sua concreta umanità e storicità finiscono con lo sparire e, in effetti, con la negazione della fede cristiana nell’Incarnazione, Gesù diventa una specie di strano Cristo universale, astratto e irreale.

I due film-musical su Gesù introducono il problema della credibilità ed efficacia di un personaggio Gesù che, assieme ai suoi discepoli, si mette ogni tanto a cantare – in Godspell, magari, la cosa funziona, ma in Superstar, no – e poi Superstar, con la sua peculiare interpretazione della storia di Gesù, in uno stile frammentario postmoderno, è una classica prova delle limitazioni di quel genere e della conseguente dispersione della proclamazione evangelica. Un’ancor più grave limitazione di entrambi i film è che, Superstar in modo particolare, rappresentano la Risurrezione vagamente e in modo non corretto.

Gesù di Nazaret, con tutta la sua tecnica impeccabile e la sua bellezza mozzafiato, manca dell’incisività che contraddistingue i vangeli e che dovrebbe caratterizzare una rappresentazione della storia di Gesù. Scrupolosamente autentico per quanto riguarda i costumi, l’ambiente culturale e la messa in scena, il film diventa una serie di attraenti tableaux da cartolina, ivi inclusa una crocifissione sterilizzata, una specie di Passione-senza-la passione. L’im-patto radicale del Vangelo, quindi, svanisce. Anche Zeffirelli cade nella trappola di Nicholas Ray, creando un personaggio non-biblico, Zerah, che manipola a tal punto sia le autorità romane sia quelle ebree che, alla fin fine, è lui – un personaggio storicamente inesistente – ad essere il maggior responsabile della morte di Gesù. Zerah assolve due funzioni: fa opportunamente deviare qualsiasi accusa di anti-semitismo e, allo stesso tempo, crea una subtrama che serve a mantener vivo l’interesse degli spettatori durante questo lunghissimo film.

Il tono freddamente didattico de Il Messia di Rossellini – nel quale Gesù insegna e predica più che in qualunque altro film – lascia lo spettatore indifferente e la sua molto abbreviata, distaccata rappresentazione della Passione fa sembrare la morte di Gesù più quella di un eroe, tipo Socrate, forse, che l’atto appassionato di spoliazione sacrificale del Dio Incarnato, che effettua la salvezza dell’umanità.

Anche il popolare modo di affrontare il Vangelo mostra severe limitazioni. Per esempio, il cattolico film Jesus illustra bene il pericolo della diluizione del testo evangelico e del messaggio cristiano, come nel caso della scena della samaritana, al pozzo. Gesù e i discepoli si mettono a tirarsi acqua addosso e Gesù finisce col non costruire mai il suo cruciale dialogo con la donna. Stratagemma, questo, inteso ad attirare qualunque pubblico; la dichiarazione del produttore: «Abbiamo voluto accertarci di non offendere né cattolici, né protestanti, né ebrei, né mussulmani», dice tutto; il film non offende nessuno, ma il sale del Vangelo è stato rimpiazzato dallo zucchero.

Sia The Book of Matthew sia The Gospel of John, film mai distribuiti commercialmente, mettono bene in evidenza i problemi di una trasposizione troppo letterale e, tutto sommato, blanda del testo biblico, nella sua interezza e verbatim, al medium cinematografico, coi suoi propri canoni stilistici ed esigenze. Il guru delle comunicazioni Marshall McLuhan dice che «il medium è il messaggio» e il medium cinematografico comunica il suo messaggio in modo diverso da quello della stampa e della proclamazione verbale.

Fino a La passione di Cristo di Gibson, L’Ultima Tentazione di Cristo di Martin Scorsese è stato, senza dubbio, il più controverso dei film su Gesù. Quando uscì, molti furono scandalizzati, a causa di un malinteso di base, dalla sequenza dell’«ultima tentazione», che fu interpretata come un’obiettiva rappresentazione di un’azione sessuale di Gesù. In realtà, la questione ben più grave del film era la sua incongruenza e le spesso bizzarre decisioni tecniche adottate: per esempio, una canzone musulmana che invoca Allah durante la scena dell’Ultima Cena e un’anacronistica e incredibilmente cruenta scena del “sacro Cuore”, al di là di ogni estremo.

Il film, inoltre, erra grandemente nella sua analisi psicologica e nel distorto ritratto antropologico che fa di Gesù, come di un uomo che soffre di severi conflitti psicologici, quasi a rasentare la psicosi, e che, in effetti, non risolve mai i suoi conflitti. Alla fine è grazie al suo intimo amico Giuda che questo Gesù finisce col morire sul Calvario1. In ultima analisi, nonostante le ripetute affermazioni fatte da Scorsese alla stampa sulla sua fede cattolica e nonostante l’affrettata smentita che precede i titoli, l’Ultima Tentazione non riesce a risolvere adeguatamente il mistero dinamico della dimensione umano-divina dell’esistenza di Gesù e a rappresentare una valida teologia cristiana della salvezza.

 

La Passione di Gibson

L’ultimo dei film su Gesù, La Passione di Cristo, offre una potente esperienza emozionale; a volte è doloroso osservarla e doloroso rifletterci. Solo nominalmente simile ai primi film sulla Passione, il lavoro di Gibson, ovviamente, li sorpassa di gran lunga: la sua durata, la complessità della sua narrativa e il suo stile contemporaneo sono tutti elementi che lo distanziano dalle prime “Passioni”, così come il fatto che non solo rappresenta visualmente gli elementi tradizionali della Passione di Gesù, ma li interpreta, dando loro una certa spinta teologica. Mentre i primi film erano muti, con occasionali titoli a indicare il dialogo, Gibson fa parlare ai suoi personaggi le lingue antiche: Gesù e gli altri ebrei parlano l’aramaico e i romani, la lingua latina.

La Passione di Gibson, pur evitando la maggior parte degli eccessi delle epiche hollywoodiane, a volte sviluppa, in modo irritante, alcune dimensioni della narrativa biblica, facendole andare, generalmente, verso il sentimentale. Dà un ruolo molto ingrandito alla moglie di Pilato e alla sua intercessione perché il marito non condanni Gesù; include addirittura un accorato incontro fra lei e la madre di Gesù. Anzi Gibson crea un rapporto dinamico fra Maria, Maria Maddalena2 e la moglie di Pilato e, in un certo senso, la sua rappresentazione della Passione di Gesù è vista e adattata attraverso i loro occhi. Ci sono dei momenti molto belli nell’interazione delle donne, per esempio, quando Maria, aiutata da Maria Maddalena e Claudia e seguendo un rito ebreo – osservato ancor oggi quando gli ebrei sono dilaniati dalle bombe suicide – asciuga il sangue di Gesù dal suolo, nel luogo della flagellazione3. Comunque, alla fine, quest’ingegnoso accorgimento, che funge – a volte – da sollievo dall’orrore della tortura di Gesù, tende troppo verso il sentimentale.

La scena stessa della flagellazione, che sembra senza fine, la sua crudeltà sadica aumentata da troppe scene estreme, in primo piano, – per esempio, il sangue che schizza e la carne piagata e anche da un pesante accompagnamento musicale, che spesso echeggia il molto sintetizzato sonoro del film di Scorsese e le sette o otto terribili cadute di Gesù durante la sua ascesa al Calvario – non trovano giustificazione come necessaria sofferenza di Gesù in espiazione dei peccati dell’umanità. Sembrano più elementi pseudo-biblici, equivalenti alle sanguinose scene di battaglia che costellano il precedente sforzo registico e recitatorio di Mel Gibson: Braveheart (1995), tutto azione, ma scarso significato morale-spirituale.

Più di una volta, Gibson scivola nel kitsch che caratterizza i film su Gesù hollywoodiani. Per esempio, per far sí che Gesù, in catene, incontrasse ancora una volta Giuda, Gibson lo fa percuotere dai soldati che lo arrestano, gli fa perdere l’equilibrio e lo fa cadere da un precipizio e, in una strana imitazione dello sport estremo di bungee-jumping, lo fa rimanere sospeso a breve distanza dal suolo, sopra Giuda. Più tardi, per punire il ladrone che aveva insultato Gesù, Gibson fa discendere un immenso corvo sulla sua croce che, in quello che mi sembra un riferimento a Gli uccelli di Hitchcock (1963), gli becca gli occhi; la raffinata scena è fotografata in primissimo piano. Poi, verso la fine della crocifissione, Gibson fa avvicinare Maria di Nazaret al figlio morente e le fa baciare i suoi piedi; ne esce con bocca, viso e vestiti insanguinati. L’effetto è davvero bizzarro, un po’ una via di mezzo fra immagini di vampiro e le terribili immagini dell’insanguinata e disperata Jacqueline Kennedy, il 22 novembre 1963. Più tardi, a suggerire che il soldato romano con la lancia è “lavato nel sangue dell’Agnello”, Gibson, in una mossa veramente strana, fa cadere l’uomo in ginocchio e lo fa pregare sotto una vera e propria doccia del sacro sangue di Gesù. Nessuno ha pensato di dire ai tecnici degli effetti speciali che a quel punto, dopo dodici ore di spargimento di sangue, sarebbe rimasto a Gesù ben poco del suo sacro sangue e, certamente, non sarebbe sprizzato dal suo costato.

Il terremoto, che nel Vangelo strappa il velo del tempio in due (Lc 23,45) ne La Passione continua indefinitamente e spacca l’intero tempio in due. Uno dei più strani effetti nel film è la “lacrima di Dio”, una goccia d’acqua che, grazie a manipolazione digitale, cade con gran suono dall’occhio di Dio in cielo fino alla terra e sul Calvario e dà inizio alla violenta tempesta-terremoto che indica la morte di Gesù.

Sarebbe dir poco affermare che La Passione di Gibson non ha niente del film musicale, ma il suo ritratto di Erode come un nervoso, smorfioso, nevrotico con tanto di parrucca sulle ventitré, buttata là in fretta, sembra presa di peso da Jesus Christ Superstar. Mi stavo quasi aspettando che il Tetrarca conducesse Gesù alla sua piscina e, cantando, gli domandasse: «change the water into wine» (trasforma l’acqua in vino)…

Se Gesù di Nazaret e Il Messia mancano, da una parte, d’incisività e dall’altra d’impatto emozionale, il film di Gibson compensa per entrambi. A nessun punto della storia cerca di rappresentare la bellezza fine a se stessa, la sua tesi teologica è chiarissima e l’impatto emozionale sullo spettatore è incontestabile.

Infine, mentre, da un canto, Gibson cerca accuratamente di evitare la dominante e fatale analisi psico-sessuale de L’Ultima Tentazione di Cristo, in sostanza, proprio come Scorsese, soggioga lo spettatore alle stesse montagne russe emozionali. I due film hanno in comune alti valori di produzione: fotografia molto energica, con velocissime lenti, molte riprese soggettive dal punto di vista del morente Gesù, effetti speciali, – in Gibson limitati principalmente ai suoi vari personaggi ripugnanti raffiguranti il male – montaggio aggressivo e pesante e, a volte, un’opprimente messa a fuoco della violenza fisica ed emozionale. In Scorsese ci sono alcuni momenti di sollievo visivo ed emozionale, ne La Passione di Gibson, pochissimi.

 

Il Vangelo di Pasolini e La Passione di Gibson

Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini è stato ed è tuttora il più grande dei film su Gesù. La Passione di Gibson, sebbene radicalmente diversa da esso, stranamente ha molti punti in comune con Il Vangelo. Pasolini ha fatto il suo film in seguito a una profonda esperienza personale religiosa, con la quale era stato graziato dopo aver letto il Vangelo di Matteo durante un ritiro ad Assisi. L’impegno di fede di Gibson nella tradizione cattolica, risultatomi ancor più evidente in un colloquio a quattr’occhi con lui dopo la proiezione de La Passione, è innegabile. Entrambi questi uomini hanno prodotto i loro film con infaticabile coraggio ed energia spirituale.

I due film sono documenti forti e senza compromessi in contenuto e stile. I messaggi cristiani che proclamano sono chiari e privi di ambiguità; mettono a confronto gli spettatori, forse in modo disagevole, con scelte radicali – come fece la predicazione di Gesù. Forse per questa ragione, entrambi i film sono stati sottoposti a una tempesta di controversie. Per mesi, nel 1963-1964, durante la produzione del Vangelo di Pasolini, accuse e condanne vennero pubblicate nei media italiani da persone che, naturalmente, non potevano aver idea di come il film, alla fine, sarebbe riuscito. Il nocciolo dei commenti negativi, provenienti soprattutto da circoli legati al Partito Cristiano Democratico, era che Pisolini – ex-membro del Partito Comunista, ateo e apertamente omosessuale – non poteva fare un film valido su Gesù; anzi, tale film non poteva che essere una perversione del Vangelo. La premiere del film al Festival di Venezia del 1964 era presieduta da centinaia di carabinieri armati; si aspettavano dimostrazioni. Il film fu anche aspramente criticato da L’Osservatore Romano, però trentatré anni dopo il Vaticano riconobbe la sua grandezza.

 

Le accuse di anti-semitismo

La Passione di Gibson ha generato più commenti e controversie della maggior parte dei film su Gesù4, sia prima, sia dopo la sua proiezione; anzi, una vera e propria animata atmosfera di polemica si è sviluppata nei suoi confronti. Accuse e contro-accuse sono state pubblicate nei media quasi quotidianamente, per la maggioranza riguardo a quella che si sospetta e si teme che sia la posizione anti-semita del film. Alcune accuse sono basate su un montaggio primitivo del film, precedente a una vigorosa revisione. La maggioranza di esse era basata su copie abusive di una versione iniziale della sceneggiatura del film; improbabile motivo su cui basare un giudizio finale del film, perché la maggioranza dei montaggi finali – eccezione fatta, forse, dei film di Hitchcock – differiscono grandemente dalle loro ideazioni originali.

Teologi, pastori e alte autorità della Chiesa sono stati arruolati da entrambi i gruppi, nella speranza di rafforzare le loro posizioni. Perfino il sofferente Giovanni Paolo II è stato ingiustamente e sfortunatamente invischiato nella controversia, con pretese, da una parte, che lui abbia visto il film e che gli sia piaciuto e con insistenti smentite, dall’altra, che il Papa non fa commenti sui film, preferendo lasciare quel compito agli esperti5. Naturalmente, anche se il Papa ha visto il film, la sua valutazione dello stesso, sia essa positiva o negativa (il suo presunto commento: «È com’era», sembra positivo.) non ha certo la teologica e vincolante autorità di un pronunciamento ex cathedra.

Inoltre, recensioni negative sono state scritte da persone che non hanno visto il film, invocando l’oscura ombra dell’Olocausto e pretendendo, allarmisticamente, che il film potrebbe sguinzagliare nuove persecuzioni contro gli ebrei, e sono stati fatti fondamentalmente trascurabili e spesso inaccurati commenti sulla vita personale e la fede del regista, soprattutto allo scopo di screditare il film.

La questione principale è, qui, il modo in cui il film rappresenta la responsabilità per la condanna e l’esecuzione di Gesù, e questa è stata una questione molto pressante per tutti i film su Gesù, una questione che ciascun regista deve affrontare. Sono i romani che devono essere incolpati della morte di Gesù o sono i governanti religiosi ebrei ad essere responsabili? Sono tutti i governanti ebrei o solo alcuni? O la colpa si allarga, ad implicare gli ebrei come comunità o come razza?

La discussione su tali quesiti ha molta importanza, perché l’accusa di deicidio – fatta contro gli ebrei sin dall’inizio del Cristianesimo – è stata la sorgente e la struttura della persecuzione degli ebrei da parte dei cristiani per molti secoli, e perché i drammi europei sulla Passione – spesso anti-semitici – dal Medio Evo fino ad oggi sono considerati da molti come uno dei cruciali elementi religiosi, nello sfondo dell’Olocausto nazista nel ventesimo secolo.

Questa terribile accusa è, per la maggior parte, basata su un verso nel vangelo di Matteo: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,26), epiteto gridato unanimemente dalla folla di adirati ebrei, nel cortile del palazzo di Pilato; la frase, in effetti, invoca una maledizione divina su quegli ebrei e su tutti gli ebrei di tutti i tempi ed è stata citata molte volte come giustificazione per atti di violenza organizzata contro gli ebrei, perpetrati, per la maggioranza, da cristiani.

Dal concilio Vaticano II, la posizione della Chiesa è diventata molto più chiara verso l’antisemitismo, condannandolo in qualunque forma si presenti. Giovanni Paolo II ha visitato la Sinagoga di Roma, dove si è riferito agli ebrei come ai «nostri prediletti fratelli, i nostri fratelli maggiori»6, ha pregato al Muro del Pianto a Gerusalemme e ha pubblicamente implorato il perdono divino dei molti atti di odio e violenza contro gli ebrei.

Nel 1988, la Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti, traendo ispirazione dal documento del Vaticano II Nostra Aetate, pubblicò un documento che definisce molto chiaramente le linee direttive per la rappresentazione della Passione di Gesù da parte dei Cattolici «comprese, ma non limitate a drammatiche presentazioni, messe in scena della morte di Gesù, più comunemente conosciute come “drammi della Passione”7. Fino a tempi recenti, i drammi della Passione sono stati ben noti per le loro violentemente anti-semitiche rappresentazioni degli ebrei, sempre con la citazione dell’offensivo verso da Matteo.

La Passione di Cristo di Gibson assume una posizione piuttosto equilibrata riguardo alla critica questione della rappresentazione della responsabilità per la morte di Gesù. Da una parte, l’individuo Caifa e alcuni dei suoi colleghi del Consiglio, che spinge i romani a condannare Gesù, sono forse un po’ stereotipati e la loro autorità sul debole e, forse, troppo buon Pilato un tantino esagerata; le “Direttive” dei Vescovi ammoniscono di non «caricaturare gli Ebrei»8. Comunque, poi, adeguandosi alle “Direttive”, Gibson controbilancia bene la posizione di Caifa e colleghi, facendo vedere parecchi membri del Consiglio in violento disaccordo – Giuseppe di Arimatea, Nicodemo e altri ebrei sostenitori di Gesù, – che condannano l’inchiesta contro Gesù come una «traversia, una bestiale parodia» e si precipitano incolleriti fuori dell’assemblea. Nelle scene di folla, durante i processi di Gesù, sfortunatamente il film mostra troppa gente radunata nei cortili, un’esagerazione dalla quale le “Direttive” ammoniscono di astenersi, asserendo che la probabile verità storica de «la piccola folla al palazzo del Governatore» non dovrebbe mai essere sostituita da una “marea”9.

Dopo, però, quasi a controbilanciare questo lapsus, e molto significativamente, Gibson non include le famose parole offensive della folla: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli». (Mt 27,26). Inoltre, non tutti nella vasta folla sono contro Gesù. Si sentono voci dissenzienti e poi queste scene sono in forte contrasto, qualche momento più tardi, con scene che Gibson mostra di grandi folle in vigorosa protesta in favore di Gesù, mentre ascende faticosamente il Calvario. Le loro proteste in parole e gesti sono così forti che i soldati romani hanno difficoltà a controllarli. Poi, quando Simone di Cirene, costretto al servizio dai soldati, comincia ad aiutare Gesù a portare la sua croce, uno dei soldati romani si rivolge a lui con un beffardo: «Tu, ebreo!». L’anti-semitismo, qui, è di un romano e il film chiaramente lo condanna. Il pro-semitismo di quell’episodio Simone-Gesù è molto eloquente: Simone, dapprima riluttante, impaurito, pauroso di aiutare Gesù, una volta entrato in contatto con lui, sorregge non solo la croce, ma anche, letteralmente, Gesù, sussurrandogli ripetutamente amorose parole di sostegno: «Siamo quasi arrivati … È quasi fatto …». La ripresa dei due visti di spalla, con le braccia intrecciate, mentre salgono faticosamente la collina, è molto commovente.

Infine, la più chiara prova che il film non intende assumere una posizione anti-semitica è la penultima scena, una fisicamente statica, ma moralmente dinamica rappresentazione della Pietà, in cui un’addolorata Maria, affiancata da Maria Maddalena, da Giovanni e dal convertito soldato romano, non fissa Gesù morto nelle sue braccia (il gesto che sarebbe stato più logico) ma, invece, la cinepresa e, quindi, lo spettatore; questa è l’unica volta in cui Gibson interrompe il quadro drammatico, e quindi l’illusione drammatica della narrazione, e si rivolge direttamente allo spettatore. Questa lunga ripresa, che dura venti secondi, invita irresistibilmente noi spettatori a entrare nella narrazione e ad assumere la nostra responsabilità come peccatori per la morte di questo Gesù che – il film ripetutamente chiarisce – è morto per i nostri peccati.

Che uno sia d’accordo con lui o no, Gibson qui dice, più chiaramente di tutti gli altri registi di film su Gesù, che non sono stati gli ebrei a uccidere Gesù: ognuno di noi umani peccatori è responsabile della sua morte.

 

Il vangelo secondo Mel Gibson 

Se il Vangelo di Pasolini e La Passione di Gibson hanno degli elementi in comune, in realtà le differenze fra di loro hanno molta più importanza.

La differenza più ovvia è che quello di Gibson è un dramma sulla Passione, mentre quello di Pasolini copre (letteralmente) quasi tutto il vangelo di Matteo.

Pasolini limita il dialogo del suo film esclusivamente alle parole di Matteo, mentre Gibson, giustificatamente, dà loro ampio sviluppo. Entrambi i film hanno sottotitoli in inglese ma, mentre Pasolini fa parlare italiano ai suoi personaggi, quelli di Gibson comunicano in aramaico e latino. Unica nella tradizione dei film su Gesù, quest’audace e coraggiosa iniziativa da parte del regista è meravigliosamente efficace10.

In ultima analisi, il film di Gibson è un’interpretazione prettamente personale della storia di Gesù, cosa che il regista ammette esplicitamente, una sorta di “vangelo secondo Mel”. Nel suo contenuto riflette elementi tratti dai vangeli, da altri libri non canonici11 e dal personale interesse devozionale del regista.

Quanto allo stile, il film riflette molti elementi tratti dal cinema di azione hollywoodiano – è un genere che Gibson conosce bene – e, ovviamente, dal suo film precedente, Braveheart (1995), il cui messaggio – «Tutti muoiono. Non tutti veramente vivono» – è stranamente simile al messaggio di alcuni affissi per La Passione di Cristo: «La morte era la sua ragione per vivere».

In contrasto al film di Pasolini, in ascetico bianco e nero, col suo schietto montaggio lineare che rispetta le ellissi nel vangelo di Matteo, La Passione è in vividi colori e utilizza una serie di tecniche di torsione di tempo e spazio – dei flashback e un montaggio parallelo – per modulare e anche analizzare gli elementi della sua narrazione. Personalmente, trovo l’esagerato uso, da parte di Gibson, di fotografia al rallentatore e i suoi digitalmente creati-mostri/incarnazioni del male irritanti, una concessione al cinema hollywoodiano e, dopo tutto, inefficace. D’altra parte, le sogggettive scene retrospettive, durante la crocifissione di Gesù, che rappresentano le parole e i gesti dell’istituzione eucaristica all’Ultima Cena sono particolarmente efficaci e teologicamente avvedute; Gesù sta vivendo nella sua carne la sublime realtà da lui creata sacramentalmente nell’Ultima Cena, realtà che i cristiani commemorano efficacemente nella celebrazione sacramentale dell’Eucaristia.

Mentre Pasolini inserisce alcuni brevi brani di musica classica in contrappunto, Gibson conferisce intensità al suo film con uno spartito musicale denso, a volte eccessivamente pesante, composto per l’occasione. Nella fotografia, Pasolini utilizza, di preferenza, molte basilari riprese, angolazioni e movimenti della cinepresa; Gibson, come abbiamo già detto, elabora una gran varietà di vertiginose tecniche fotografiche, compresi alcuni effetti speciali digitalmente ottenuti, tutti pezzi forti del contemporaneo film hollywoodiano.

Alcune delle innovazioni di Gibson nel tradizionale contenuto dei film su Gesù, sebbene extra-bibliche, sono molto belle ed efficaci. Quando Maria entra nel cortile sopra la stanza nella quale Gesù è arrestato e torturato, Gibson la fa adagiare per terra e mettere la guancia sulle pietre del selciato: vuole essere vicina a suo figlio e Gesù, sotto, sente la sua presenza, il suo amore che gli dà forza. Sulla via del Calvario, quando Maria corre ad aiutare Gesù, caduto per l’ennesima volta – non bastano le tre cadute della tradizionale via crucis – Gibson inserisce a quel punto una scena flashback di lei che corre a prendere in braccio Gesù, da bambino e in lacrime perché era caduto nella loro casa; poi Gesù, di nuovo nel tempo presente, insanguinato e sofferente, consola la madre «Vedi, madre... io faccio nuove tutte le cose». Le parole sono tratte dall’Apocalisse (21,5), ma qui assumono significato di teologia della salvezza, indicando Gesù come completamente consapevole di effettuare la salvezza del mondo. Gibson ripropone molto bene la stessa idea in due altri gesti di Gesù riguardanti la croce: al principio dell’ascesa al Calvario, Gesù letteralmente abbraccia la sua croce azione che confonde i soldati romani, e poi, sulla cima del Calvario, Gesù gettato per terra dai colpi dei soldati, letteralmente si trascina sulla croce. È un imponente simbolo della sua volontaria scelta di morire per i peccati dell’umanità.

 

Le posizioni teologiche dei due film

Ciascun regista annuncia il suo programma tematico e, quindi, la posizione teologica del proprio film nel suo titolo. Il Vangelo di Pasolini proclama la Buona Novella della vita, la predicazione e le guarigioni, la Passione, Morte e Risurrezione di Gesù il Cristo, l’evento definitivo della Salvezza, la liberazione del popolo di Dio: sebbene intransigente nelle sue aspettative, alla fine la teologia di Pasolini è una teologia della gioia e della speranza nel Signore Risorto. In contrasto, la Passione di Gibson dimostra innanzi tutto una teologia dell’espiazione, una teologia della Croce. Mette a fuoco solo le sofferenze e la morte di Gesù, distaccate e disassociate dalla sua predicazione e dal ministero di guarigione; si concentra sulla libera decisione di Gesù di assumere su se stesso, come capro espiatorio, come il Servo Sofferente di Isaia, i peccati dell’umanità e di vivere questa raccapricciante prova per redimere i peccatori.

Ovviamente, per stabilire questa messa a fuoco, il film si apre con una citazione dai salmi di Isaia sul Servo Sofferente, che i cristiani intendono come immagini della Passione di Cristo: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,5); ognuna delle tante sferzate della frusta durante le scene seguenti della flagellazione sembrerebbe rappresentare una di queste trasgressioni.

I flashback di Gibson dell’Ultima Cena, come abbiamo già visto, mentre attenuano brevemente lo schiacciante effetto dell’agonia fisica di Gesù, allo stesso tempo modulano quella sofferenza, agiscono come strumento ermeneutico per quell’agonia. Mentre la croce di Gesù viene alzata, un flashback lo fa vedere mentre dice, sul pane: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi» e mentre la croce è innalzata al suo posto, un secondo flashback lo mostra mentre dice, sul vino: «Questo e’ il calice del mio sangue... sparso per voi e per molti in remissione dei peccati». Questo Gesù è l’Agnello sacrificale, la vittima sull’altare il cui corpo e sangue, come nel Sacrificio Eucaristico, sono offerti in espiazione per i peccati dell’umanità.

 

La scena più cruciale della Risurrezione

La scena della Risurrezione è una delle più importanti in tutti i film su Gesù.

Il contenuto e lo stile della sua interpretazione rivelano molto sulla posizione teologica del regista e possono confermare o negare l’impatto teologico dell’intero film. Pasolini crea una ripresa di venti secondi di Gesù su una collina, nell’atto di proclamare con energia e urgenza, le parole del vangelo di Matteo: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni... Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20), mentre un gruppo di discepoli e altre persone corrono gioiosamente verso di lui. Sulla colonna sonora, un’esplosione di musica sacra e canto – il molto energico “Gloria” della Messa Luba congolese, coi suoi tamburi e le sue voci gioiose – sottolineano il significato della Risurrezione come una vittoria cosmica non solo per Gesù, ma per l’intero popolo di Dio, una vittoria dal chiaro impatto comunitario e missionario.

In netto contrasto con questa, le scene della Risurrezione di Gibson non sembrano suscitare alcun coinvolgimento da parte di coloro che hanno vissuto la Passione con Gesù, cioè della nascente comunità cristiana. Gibson pone la sua cinepresa in un luogo buio. Sentiamo la pietra che suggella la tomba rotolar via e realizziamo che la cinepresa è dentro la tomba, che si riempie gradualmente di luce dal di fuori. La ripresa si sofferma sul sudario di Gesù, che contiene il suo corpo e poi misteriosamente, e in un ovvio riferimento alla sindone di Torino, si sgonfia: la salma di Gesù non c’è più. Poi Gesù è inquadrato nella scena: lo vediamo di profilo, in una ripresa di testa e spalle, con tutti i segni della Passione svaniti dal suo viso. Ci si domanda se ha ancora le ferite sulle mani, i piedi e il costato, ma non c’è alcun dubbioso san Tommaso, o alcun altro, là presente, a verificare questo fatto. Sul sonoro sentiamo il battere di tamburi che suonano un ritmo militare – la Risurrezione di Gesù il Cristo non è certo una vittoria militare; forse Gibson intende un omaggio a Braveheart, narrazione spietata di guerra – e, mentre i tamburi battono sempre più forte, Gesù esce lentamente dal riquadro. Lo schermo ritorna all’oscurità.

Gibson rappresenta l’evento della Risurrezione non come una vittoria cosmica per Gesù e per tutti gli uomini e le donne di tutti i tempi, l’evento-perno della storia umana, ma piuttosto come un’esperienza privata di Gesù. Non c’è gioia o speranza nella scena. Maria la madre, Maria Maddalena, Giovanni e il soldato romano convertito rimangono sofferenti e passivi nel tableau della Pietà, separati dalla Risurrezione da un paravento che rimane scuro per sei secondi e dall’egocentrico Signore, tornato in vita per se stesso.

Fin dall’inizio del film, Gibson ci ha rappresentato una Maria che ha un tale rapporto psicologico-spirituale, madre-figlio con Gesù che, perfino a distanza, lei sente il dolore di lui e lui sente la presenza e l’amore di lei. Certamente, questa comunione madre-figlio, il cui rinnovarsi viene promesso quando Gibson fa sussurrare Gesù a Maria con autorità: «Vedi, madre ... io faccio nuove tutte le cose», una comunione così violentemente interrotta dalla morte di Gesù, si sarebbe logicamente ristabilita, avrebbe potuto e dovuto ristabilirsi nella Risurrezione. Ma Gibson, occupato nell’estremo coinvolgimento coi peccati dell’umanità che caratterizza la sua teologia dell’espiazione12 e la maggioranza dell’azione dei suoi film, si lascia scappare l’occasione di dar speranza a tutti noi peccatori. Peccato!

 

Il film di Gibson e gli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola

La Passione di Cristo di Gibson non è facile da guardare, non è facile da accettare. Ho trovato l’interminabile ed estrema violenza fisica perpetrata su Gesù molto pesante, resa ancor più opprimente dallo stile spesso violento del film, a volte addirittura “al di là della ragione” (testuali parole di Gibson), a volte esagerato oltre a quanto sarebbe necessario per rappresentare il sacrificio di Gesù per la redenzione di noi peccatori. Come gesuita, un peccatore che sa di essere salvato, la mia vita è centrata su Gesù il Cristo, incontrato attraverso gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio. Negli Esercizi, che noi gesuiti facciamo annualmente, la “Terza Settimana” è l’esperienza della Passione di Gesù, contemplata in preghiera per cinque ore ogni giorno, a volta vividamente quanto qualunque scena nel film di Gibson. Tuttavia, nella mia esperienza, c’è una cruciale differenza tra la versione di Gibson e quella di Ignazio. Gli Esercizi Spirituali pongono l’esperienza di preghiera della Passione fra un’esperienza del ministero di Gesù, cioè la “Seconda Settimana”, in cui l’esercitante condivide con gioia vocazione e comunità con Gesù e diventa il suo discepolo, e poi la “Quarta Settimana,” la Risurrezione di Cristo durante la quale – di nuovo per cinque ore di preghiera contemplativa al giorno – l’esercitante vive la gioia e la vittoria del Signore Risorto. Questo dà all’esercitante una grande speranza.

Nel film di Gibson, una meditazione devozionale nel modo francescano delle Stazioni della Croce – la devozione di san Francesco alla croce è ben nota, come pure il fatto che è stato lui il primo cristiano a ricevere le stimmate, i segni della Passione di Gesù – sperimentiamo la Passione dal di fuori, separata dalla Buona Novella della sua predicazione e delle sue guarigioni e isolata dalla sua Risurrezione. Rimaniamo ai piedi della croce, passivi e sconsolati, assieme agli altri. Per Giovanni e il soldato, per le donne che, nel Vangelo, sono le prime a testimoniare la Risurrezione e per noi – peccatori che hanno trovato la loro speranza nella vittoria del Signore Risorto – La Passione di Cristo di Gibson offre poca speranza.

   

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