n. 1
gennaio 2002

 

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Tra solitudine e comunione - I
L'arduo cammino di testimonianza del consacrato
di Erminio Antonello

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In ogni esistenza fa breccia, di tanto in tanto, una percezione di impotenza di fronte a se stessi, agli altri e alla realtà, che si traduce nel sentirsi estraniati e soli. Ma vi è anche una solitudine necessaria per ritrovare se stessi e chi ci sta intorno. La solitudine allora cessa di essere un disagio per diventare feconda. Quindi, non ogni solitudine è dannosa, né ogni rapporto è benefico.

La riflessione sulla solitudine umana si presenta fin dall’inizio in questa oscillazione fra il bisogno di relazione nella socialità e la necessità del distacco dagli altri e dalle cose.Vi è un equilibrio tra solitudine e comunione che deve diventare conquista di ogni percorso personale di maturità.

Questo equilibrio è compromesso nel nostro tempo. Nella vita associata rumore e attivismo sono diventati prevalenti. Pare che tutto sia costruito per eliminare ogni forma di silenzio. E quando cala la necessaria inattività o l’impossibilità a partecipare al carosello delle comparse sul palcoscenico della vita sociale, la sensazione di solitudine affiora nell’animo, portando con sé una forma più o meno grande di ansietà, che spinge a reimmergersi in qualcosa da fare per sfuggirla.

Il baricentro dell’esistenza da tempo è stato spostato verso l’esterno, come distrazione dallo sguardo su di sé. Si direbbe che per molti contemporanei, soprattutto giovani, sia diventato quasi impossibile fermarsi a riflettere mettendo se stessi al centro del proprio sguardo interiore.

Anche nella vita consacrata il silenzio della solitudine si è sempre più assottigliato, quasi sequestrato dal ritmo incessante di incontri, relazioni e lavoro. La solitudine è diventata un bene raro. Il raccoglimento che una volta caratterizzava l’atteggiamento interiore della persona consacrata e della casa religiosa si è dissolto nel lieve rumore del chiacchiericcio o nell’assillo dell’impegno. Le attività assorbono gran parte del tempo. E il prendersi degli spazi per rientrare nella propria cella interiore pare talvolta tempo sottratto al lavoro e, per taluno, persino tempo perduto.

A partire da queste osservazioni generali, tentiamo di tracciare un percorso riflessivo che ci metta a contatto con l’interiorità della nostra condizione umana. Ascolteremo dapprima l’insegnamento della Rivelazione che ci svela la tensione comunionale della solitudine umana. Poi ci interrogheremo sulla possibile utilità di quel tipo particolare di solitudine che è la sensazione di inutilità nella vita e di incomprensione nel rapporto con l’altro. E infine tenteremo un approccio formativo circa il modo di vivere la solitudine nella vita di consacrazione.1

Il progetto di Dio sull’uomo: una solitudine comunionale

Dio creando il mondo, riversa in esso la sua bontà: e vide che era cosa buona (Gn 1,4ss.). Il mondo è completo in se stesso. E’ buono per sé. Ma ecco che la Scrittura racconta il dramma della solitudine umana.

 Non è bene che l’uomo sia solo

Confrontandosi con il mondo animale e vegetale, l’uomo prova una sensazione di estraneità rispetto a ogni essere fin’allora creato. Su tutte le creature che gli vengono messe davanti può esercitare il dominio, è vero, ma la soddisfazione che nasce dal poterne disporre, stranamente non gli corrisponde. Lo deve ammettere il Creatore stesso: non è bene che l’uomo sia solo (Gn 2,18a). L’essere solo dell’uomo è dunque male. All’uomo non basta il possesso della realtà, l’uomo ha bisogno di uno spazio di comunione e di relazione.

L’osservazione è in netto contrasto con il resto del racconto in cui tutto appariva buono. L’uomo è unico, dunque solo. Ma non è bene che stia rinchiuso in questa unicità. Ecco allora la genialità di Dio: dargli un aiuto che gli corrisponda (Gn 2,18 b), che gli possa stare “davanti” nell’amore, un essere con cui possa stare a faccia a faccia: non sopra,2 ma di fronte, cioè nella gratuità di un rapporto e nella gioia di una libertà condivisa. La figura umana si esplicita così come individuo aperto a un’alterità che gli corrisponde nella libertà di un rapporto.

Tale apertura però porta con sé il rischio di ricadere in quel possesso che l’uomo ha esperimentato non corrispondergli quando si era confrontato con il mondo. La relazione verso l’alterità deve restare aperta; e perciò porta con sé un distacco e una dolorosa separazione: «L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre» (Gn 2,24). La maturazione della propria identità passa sempre attraverso il distacco da una illusoria relazione fusionale e deve stabilizzarsi in una relazione che accetti la differenziazione.

La coscienza di sé si costruisce accettando di non ritornare indietro in quel seno materno, che resta nell’immaginario personale come un pericolo di regressione per la propria persona. Essere se stesso vuol dire essere separato. Assumere questa separazione e tradurla nel concreto dell’esperienza del silenzio, del vuoto e dell’assenza senza smarrirsi è condizione per entrare in una relazione gratificante con l’altro.

La verità dell’uomo è nell’alleanza con Dio

Se la donna è la prima corrispondenza che sottrae l’uomo alla tristezza dell’isolamento, costituendo il primo abbozzo comunionale della figura umana, tuttavia questa condizione non esprime ancor compiutamente l’essere umano. Questi porta l’attesa di un infinito, che nessun essere a lui identico può esaurire.

Il racconto biblico lo spiega affermando che l’uomo realizza la propria figura scoprendosi in relazione creaturale con Dio, essendo fatto a sua immagine e somiglianza (Gn 1,26). L’immagine piena dell’uomo deve integrare nella propria identificazione la relazione con il terzo, in una polarità multipla e non semplicemente duale:3 l’uomo porta inciso nella sua natura il rapporto con la paternità di Dio e la maturazione della sua personalità è legata allo sviluppo sereno di questo rapporto.

Creato “a sua immagine”, non ne è però ripetizione speculare: è solo somiglianza, dice con finezza linguistica il testo. Riproduce il suo volto, ma non esaurisce quello che Lui è. L’uomo è come Dio senza essere Dio: e questo fatto segnala una differenza ontologica che non può essere mai dissolta. Tale differenza però genera nel sentimento dell’uomo una certa instabilità, sulla quale trova facile appiglio il suggerimento demoniaco di costituirsi in autonomia e di esistere come solo.

Essendo un essere libero, realmente può farlo. Purtroppo, però, a suo danno. Il peccato è entrato nel cuore umano così, come tentativo di assolutizzare la propria autonomia, e quindi di sancire presuntuosamente la sufficienza della propria solitudine “facendo a meno” del rapporto con Dio o, in altre parole, tentando lui stesso di farsi “dio”. E quindi di rifiutare il vincolo creaturale, presumendo di poter essere “padre di se stesso”.

L’uomo inizia la sua vita nel mondo isolandosi da Dio e, in tal modo, dà origine a un insieme di rotture a catena, che ne dissolvono l’identità comunionale. Incomincia a deteriorarsi il rapporto uomo-donna (Gn 3,16), la relazione fraterna (Gn 4) e il rapporto all’interno della convivenza sociale (Gn 6, 11).

La condizione umana vissuta come “autonomia” introduce il principio di corruzione della sua immagine, poiché il voler essere soli ed autonomi non corrisponde alla struttura creaturale dell’uomo.

La necessaria solitudine dell’essere, dovuta al principio di identificazione per cui ogni essere è chiamato a essere autenticamente se stesso, si deforma e diventa decadimento. Da questo momento, l’uomo deve sperimentare l’amarezza della separazione come emarginazione («Il Signore lo scacciò»: Gn 3,23). Nello stesso tempo, Dio «prese delle pelli e cucì loro dei vestiti» (Gn 3,21), mostrando nonostante tutto la permanenza della sua paternità, che dovrà essere recuperata dall’uomo in un faticoso cammino di rieducazione.

La pedagogia divina del deserto e dell’esilio

La storia della salvezza raccontata nella Sacra Scrittura non è altro che la pedagogia con cui Dio rieduca l’uomo a ritrovare la verità del sua identità di figlio, proprio attraverso l’esperienza della solitudine.

«Ricordati del cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere per quarant’anni nel deserto, al fine di renderti povero e di provarti perché tu conosca il fondo del tuo cuore … Ti ha reso povero, ti ha fatto sentire la fame e ti ha dato la manna da mangiare, che né tu né i tuoi padri conoscevate, per mostrarti che l’uomo non vive solo di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,2-3).

Vivere della Parola che esce dalla bocca di Dio, viverla nel deserto: significa che la vita autentica dell’uomo sgorga dal rapporto con Dio che parla e chiede di essere accolto dalla sua libertà; e che la solitudine è lo spazio adatto per liberarsi dall’idea ossessiva di voler fare da solo.

Dio allora permette che il suo popolo divenga schiavo in Egitto, passi attraverso la purificazione del deserto, e più tardi dell’esilio, perché impari a sentire la propria indigenza.

E’ proprio l’esperienza di questa povertà, guidata dalla Parola dei profeti, che favorisce il distacco da sé e predispone alla comunione con Dio. Questa dialettica accompagna il popolo di Israele che deve separarsi dalla calda sicurezza che gli dèi dell’Egitto gli assicuravano (Es 20,2-3) e deve assimilare la coscienza di essere un “popolo separato” (Lev 19,2), per poter realizzare l’esperienza di alleanza con Dio e i fratelli.

La pedagogia di Dio riassunta in Maria di Nazareth

Il tornante decisivo di questa storia pedagogica, giunta ormai al culmine, è rappresentato da Maria, che genera Gesù, il “figlio”. Quel figlio non nasce in lei da un progetto umano, ma dall’accoglienza del disegno di Dio. E, man mano che quel figlio cresce, le ricorda di dover dipendere dal Padre prima che da lei (Lc 2,48-50) e, in alcune occasioni, mostrarle persino una certa distanza per non occultare quella preminenza (Mt 12,48 = Mc 3,33; Gv 2,4).

Maria esperimenta così la solitudine del distacco come via all’incontro. Viene educata non solo da tutta la storia di Israele, ma dalla sua stessa storia di rapporto con Gesù, a capire che il suo “volto interiore” deve prendere la forma di un “Altro” che la conduce.

Maria è la prima donna della nuova alleanza, in cui la sua solitudine è colmata dalla vicinanza con il Mistero. Dal momento della chiamata, non esiste più in forza di una presunta autosufficienza, ma vive aderendo al figlio che le cresce in seno e che lei deve seguire negli imprevisti percorsi della sua vita. La sua santità consiste nell’agire con la caratteristica movenza di chi è generato dal Mistero di una Paternità che la forma, figlia del suo stesso Figlio.4  Ossia generata dalla logica di figliolanza che caratterizza il Figlio in lei generato per il mondo.

Essa anticipa così la verità totale dell’essere umano, che Gesù porta a massima evidenza, mostrando cioè che l’io umano non può esistere senza la relazione al Tu di Dio e, nel Tu di Dio, in rapporto con ogni uomo. Per questo, il compimento del disegno divino si ha con la consegna reciproca del “discepolo” alla “madre” nella nuova relazione di figliolanza nata dalla fede, nel momento supremo della redenzione (Gv 19,25-27).

“Vivere da figli”: la solitudine umana aperta alla comunione

Nell’Incarnazione Gesù non si sottrae a questa dialettica, anzi la porta a pienezza. Anch’egli entra nella contingenza umana, attraverso un autentico descensus, poiché “accetta in sé il vuoto dell’uomo”, ponendosi in un volontario isolamento dal Padre (Fil 2,6-8). Si inabissa realmente in quella condizione umana perduta di voler esistere da soli. Gesù prova umanamente l’esilio dal Padre. Lo porta in sé, perché solo in tale condivisione può redimere ogni tentativo di esistere senza il Padre.

Appare perciò pienamente coerente il fatto che Gesù da uomo, all’inizio e alla fine della sua attività pubblica, abbia dovuto subire la tentazione circa la sua figliolanza:5 «Se sei Figlio di Dio…» (Mt 4,3.6; Lc 4,3.9), così inizia la tentazione. “Tu pensi di essere il Figlio di Dio? - gli dice in altre parole il tentatore -, ma potresti non esserlo! Verifica allora se lo sei veramente! Se lo sei, esprimi la tua onnipotenza divina, vivi il potere divino da solo, dissociati dal Padre: così si vedrà se la tua sicurezza di essere figlio di Dio è reale o solo immaginaria”. Gesù rifiuta, poiché non vuole abusare del suo potere divino e decide di vivere anche umanamente da figlio. E tutta la sua vita pubblica è intessuta di questa relazione, ben testimoniata dai testi evangelici, particolarmente da Giovanni.

E in ultimo la sua natura di essere il figlio si manifesta nel momento più delicato dell’esistenza, là sulla croce: «Se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40-43), gli viene sarcasticamente detto. Ma Gesù non scende, e vive la sua dipendenza amorosa dal Padre, realizzando la pienezza dell’umano in questo voler esistere come abbandono filiale.

Per questa via, Gesù rivela definitivamente quale sia il modo umano di vivere dentro a questo mondo. Mostra che la possibilità di autorealizzarsi come persona non si attua nell’esaltazione dell’autonomia, ma nel mettere la propria libertà a servizio del disegno di Dio.

I testi evangelici ci raccontano che Gesù ha compiuto il suo esodo immerso nella compagnia del Padre. «Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo, perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8,16.29). Gesù, il Figlio incarnato, afferma di non potere nulla da se stesso: «In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa» (Gv 5,19.30;8,28). Non c’è dunque solitudine in Gesù, poiché egli vive nell’unità con il Padre.

I discepoli hanno scrutato questa profondità misteriosa che vedevano in Gesù senza capirla. Finché un giorno Gesù rivelerà che anch’essi hanno bisogno di restare affettivamente legati a Lui, come Lui lo è al Padre, perché - dice loro - «senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Un identico “nulla” caratterizza l’umanità di Gesù e l’umanità dei discepoli. L’uomo da sé è nulla: solo nella relazione con Gesù e, attraverso di lui, con il Padre, può saldare l’inconsistenza della sua solitudine.

Se l’uomo, seguendo Gesù, sfata l’illusione di poter esistere come autonomia e percorre la strada di un’esistenza vissuta come obbedienza filiale, realizza se stesso, sentendosi nella storia non come granello abbandonato al vento degli eventi e, quindi, in preda alla paura della solitudine, ma come figlio accompagnato alla realizzazione della sua natura.

La coscienza di “essere fratelli”

La coscienza di essere figli trascina con sé consequenzialmente anche la consapevolezza di essere fratelli. La dimenticanza di avere un padre è la causa del non riconoscersi fratelli, spiega Gesù nella parabola dei due figli (Lc 15, 11-32). E inversamente la scoperta di un padre comune genera una familiarità persino tra persone ritenutesi estranee: una vera figliolanza genera un’autentica fraternità (Mt 5,43-45). La radice della comunione sta in questa profondità, non semplicemente nello sforzo della reciproca accettazione.

La Rivelazione, dal punto di vista antropologico, raggiunge qui il suo vertice. Mostra che l’immagine di “figlio” è il vero volto dell’uomo e, pertanto, vivendo da figli del Padre, è possibile vivere fecondamente l’ineludibile condizione di essere soli nel mondo.

La relazione di figliolanza con l’Eterno è garanzia del poter assumere la propria individualità, che necessariamente è sempre solitudine, vincendo ogni forma di paura e di possibile estraneazione, perché accompagnata dalla presenza di una paternità che non abbandona (Mt 6,25-34).

E, nello stesso tempo, immette nella storia una energia di unità con la semplice formula di una fraternità che abbatte tutte quelle barriere, che la dimenticanza della propria natura di figli ha innalzato e continua a innalzare fra uomo e uomo. L’isolamento dal mondo o dagli altri, che produce il caratteristico senso di smarrimento della solitudine umana, trova sorprendentemente un punto certo di tenuta e una guida sicura per attraversare la fatica della costruzione della propria persona e l’amarezza dell’essere soli quando ci si sente abbandonati dagli uomini e dalla storia.

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