n. 1
gennaio 2002

 

Altri articoli disponibili

Spiritualità e psicologia: una difficile relazione
di Anna Bissi

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

Il problema

Il rapporto tra fede e scienze umane, tra spiritualità e psicologia è sempre stato complesso e soggetto a una duplice tentazione: da una parte, soprattutto in una società malata di psicologismo come quella attuale, si è tentati di enfatizzare quest’ultima, illudendosi di trovare in essa tutti i mezzi e gli strumenti necessari per favorire la crescita spirituale. Il discernimento, l’accompagnamento sono così delegati allo psicologo, all’esperto, che rischia di diventare la figura più importante all’interno del cammino formativo, iniziale o permanente.

Ci troviamo di fronte a ciò che è stato definito come riduzionismo dal basso1, in quanto la complessità che caratterizza la persona umana, il suo essere mistero, realtà che non si può comprendere e costringere all’interno di un’unica chiave di lettura, viene interpretata in base a poche categorie riduttive, che sottolineano unicamente o prevalentemente la dimensione psicologica, biologica, sociale.

Il fine ultimo dell’esistenza non viene preso in considerazione, mentre l’attenzione è focalizzata sulle dinamiche intrapsichiche del soggetto e sulla realizzazione di valori prevalentemente umani. Ai suggerimenti di cui è ricchissima la tradizione per favorire il cammino spirituale si sostituisce l’utilizzo di tecniche, orientate al raggiungimento della pacificazione interiore, la realizzazione di se stessi, l’acquisizione di una forma di benessere, da molti considerati come premesse essenziali per un successivo cammino di crescita vocazionale.

Tale lettura univoca e riduttiva delle problematiche vocazionali, tende in genere a offrire soluzioni altrettanto riduttive ai problemi che si presentano all’interno del cammino formativo, sia all’inizio della vita religiosa sia negli anni successivi all’impegno definitivo.

Due esempi ci aiuteranno a illustrare e meglio comprendere come un’interpretazione prevalentemente o unicamente psicologica di una problematica vocazionale, non potrà che sfociare in proposte di soluzioni incomplete, parziali, che accantonano e non prendono in considerazioni vaste aree della persona e sottovalutano soprattutto la sua possibilità di aprirsi all’azione dello Spirito, trasformando il momento di smarrimento e disagio in un’occasione di crescita.

Il primo esempio riguarda la crisi che si verifica di frequente quando una religiosa si sente privata di un ruolo in quanto scade il mandato che le è stato affidato o perché, in base a motivi diversi, i superiori non ritengono opportuno conferirle tale compito. Ella però lo considera importante per sé, come mezzo di autorealizzazione, segno di stima da parte dei superiori, occasione per mettersi alla prova e dimostrare, a se stessa e agli altri, le proprie capacità. La mancata soddisfazione di un’aspirazione, legittima dal punto di vista umano, ma segno di una non completa interiorizzazione dei valori della vita religiosa, provoca una crisi, che dovrà essere affrontata per evitare frustrazioni paralizzanti, reazioni vittimistiche che possono protrarsi nel tempo e lasciare strascichi indelebili.

Pensare di risolvere il problema limitandosi a inviare la religiosa dallo psicologo non costituisce necessariamente un errore, ma comporta un grave rischio. Il pericolo sarà infatti quello di mettere in moto dinamismi unicamente o prevalentemente psicologici, quali, per esempio, la ricerca della stima personale, l’aggressività, motivata o eccessiva, nei confronti di coloro da cui la persona non si sente capita.

In questo tipo di lettura della crisi, non ci sarà spazio per la preghiera, per l’ascesi, per tutti quei mezzi che la vita spirituale propone al fine di rivitalizzare l’azione dello Spirito in noi. La persona inoltre sarà orientata verso una finalità puramente umana, quale quella della ricerca del proprio benessere, piuttosto che aiutata ad assimilare in modo più profondo i valori che contraddistinguono la sua scelta vocazionale. Ella forse uscirà da questo momento di malessere sentendo che alcune difficoltà si sono allentate, che interiormente si è pacificata. Avrà probabilmente appreso modi più appropriati per gestire i suoi conflitti: saprà controllare l’aggressività, riconoscere il proprio valore anche quando questo non trova riscontri nell’ambiente circostante; ma, se l’intervento si è limitato all’ambito psicologico, non solo la sua fede non avrà potuto usufruire di quest’occasione per crescere e approfondirsi, ma di fronte a un altro possibile momento di smarrimento interiore, la religiosa in questione si troverà ad affrontare gli stessi problemi, fornita solo di strumenti umani che rafforzeranno in lei non il desiderio di orientare la propria vita a Dio, ma quello di cercare per sé il benessere e la pacificazione che, nel passato, l’avevano spinta a chiedere l’aiuto dello psicologo.

 Il secondo esempio riguarda un fenomeno altrettanto frequente, soprattutto negli ultimi anni del periodo formativo iniziale, il cosiddetto juniorato o studentato: mi riferisco alla scoperta di ciò che potremmo definire come precarietà, ambivalenza, delle proprie motivazioni vocazionali. Si pensava di essere entrati nella vita religiosa per servire il Signore mentre, a poco a poco, si scoprono i numerosi motivi difensivi che hanno portato a tale scelta. C’è chi si accorge di aver avuto paura dell’altro sesso, chi si rende conto dei propri timori nell’affrontare i rischi del mondo o chi prende coscienza delle forti influenze esercitate dall’ambiente familiare.

Pensare di risolvere la crisi limitandosi a una lettura puramente psicologica, che porta a concentrarsi sulle dinamiche difensive e sul loro rapporto con la scelta iniziale, rischia però di prendere in considerazione un unico elemento, assolutizzandolo, e di accantonarne un altro, ben più importante: il germe della vocazione, ancora vitale, benché soffocato da altri fattori che ne impediscono la crescita. Si finisce così per estirpare il grano buono insieme alla zizzania che, come sempre, crescono l’uno accanto all’altra nel campo della nostra interiorità.

 Il rischio di utilizzare la psicologia in modo distorto, eccessivo, riduttivo si accompagna attualmente al pericolo opposto, quello di rifiutare l’utilità del contributo psicologico, assolutizzando invece la dimensione spirituale. Ci troviamo di fronte a quello che viene definito come riduzionismo dall’alto: esso induce a ignorare la complessità delle motivazioni e a privilegiare un’unica dimensione dell’essere umano, quella spirituale-razionale. In base a questo unico dato si attua il discernimento, rischiando così di fermarsi alle apparenze, di perpetuare difficoltà che, se la persona fosse aiutata ad approfondire e ampliare la conoscenza di se stessa, potrebbero essere risolte, lasciando così maggior spazio allo Spirito per agire e trasformare la sua interiorità.

Un metodo formativo che tende a prendere in considerazione unicamente la dimensione spirituale-razionale, affronterebbe le crisi descritte in precedenza in modo radicalmente diverso rispetto a un orientamento prevalentemente psicologico. Di fronte alla scoperta delle motivazioni difensive che hanno portato alla scelta vocazionale, l’atteggiamento del formatore tenderebbe infatti a sostenere e incoraggiare il cammino spirituale, l’ascesi, la perseveranza, senza sollecitare un lavoro di introspezione, che permetta di fare chiarezza nelle zone buie del proprio mondo interiore. La preoccupazione principale sarebbe giustamente quella di salvaguardare la vocazione, senza però favorire un cammino di crescita interiore, col rischio di mantenere in sospeso un problema, che prima o poi la persona vorrà e dovrà risolvere, magari ricorrendo a decisioni drastiche di abbandono della scelta fatta, perché ritenuta non libera.

Un cammino formativo che renda assoluto ora l’uno ora l’altro aspetto si rivela così dannoso per la persona e la sua crescita vocazionale. Come possiamo intuire da quanto affermato fino a questo punto, si tratterà allora di trovare un giusto equilibrio, una sintesi matura, capace di usufruire degli apporti delle scienze umane, nel rispetto della complessità della persona e soprattutto della sua apertura al trascendente come Divino. A chi obietterà che per secoli si è fatto a meno dell’apporto della psicologia si potrà di conseguenza ricordare che tutti i maestri di vita spirituale sottolineano l’importanza della conoscenza di se stessi per un solido cammino di crescita vocazionale.

Alcune chiarificazioni

Si tratta di cercare delle piste di riflessione, per individuare come sia possibile raggiungere la sintesi su cui stiamo riflettendo. Il primo passo essenziale per individuare in che modo raggiungere tale integrazione, è quello di definire con maggiore chiarezza che cosa intendiamo per psicologia e per spiritualità. Esse infatti sono innanzi tutto associate da un fattore comune: la poca chiarezza, se non addirittura la confusione, riguardo a ciò che si intende quando si utilizzano tali termini. Cercheremo quindi di pervenire a una chiarificazione a livello terminologico, per poi individuare, in un momento successivo, come sia possibile una collaborazione, finalizzata a una vera crescita, a una trasformazione globale dell’individuo chiamato dal Signore alla sua sequela.

 La prima grande confusione, per quanto riguarda la psicologia, si è andata sempre più chiarendo negli ultimi decenni. Nel passato, essa era spesso confusa con la psichiatria e, di conseguenza, il suo uso era limitato ai casi in cui si sospettava la possibile presenza di una forma di patologia. Inviare una novizia, una religiosa, dallo psicologo significava da una parte nutrire dei sospetti a proposito della sua salute mentale e dall’altra costituiva anche una sorta di marchio, di etichetta, corrispondeva a un’indiretta dichiarazione della presenza di problematiche di ordine insolito, su cui non si poteva intervenire con i normali mezzi cui una religiosa deve far ricorso in caso di difficoltà.

Questa prima, grande confusione, consiste dunque nella tendenza a equiparare la psicologia con la psichiatria oppure a ridurre l’utilizzo della psicologia all’ambito clinico, settore in cui essa opera, ma il cui contributo non appare significativo in campo formativo, dove si rileva la sua utilità solo per quei casi particolari, a proposito dei quali è necessario un discernimento capace di individuare qual è l’ambito specifico cui appartengono alcuni problemi e se sia possibile risolverli.

Possiamo citare come esempio quello del seminarista che, giunto al quinto anno di teologia, si rende conto di non essere ancora riuscito a risolvere un problema che lo tormenta ormai da molti anni, costituito da una fobia che gli fa vivere in modo drammatico la possibilità di dover leggere in pubblico. In questo caso, l’intervento dello psicologo si rivelerà utile per tentare di risolvere un problema non particolarmente grave dal punto di vista diagnostico, ma che risulterebbe senz’altro molto controproducente all’interno di una scelta di vita che, nella sua dimensione liturgica, comporta costantemente la lettura e la presa di parola in pubblico.

 Riscontriamo però un altro tipo di confusione per quanto riguarda il contributo della psicologia nel processo formativo, che potremmo definire di carattere antropologico. In questo caso ci si dimentica che, dietro a ogni metodo psicologico esiste una teoria, spesso non esplicitata, ma alla cui base è sempre presente una particolare concezione della persona umana. Essa costituisce sempre un quadro di riferimento, che orienta il modo di pensare e di intervenire da parte di chi propone il cammino formativo. Si parla allora di psicologia in senso generale, ma, di fatto, nella propria mente si fa riferimento alle teorie di un determinato pensatore, le quali possono essere in contraddizione con il modello antropologico cristiano e riflettere invece quello della cultura contemporanea.

Anche qui alcuni esempi concreti potranno essere utili.

Prendiamo allora in considerazione il problema dell’aggressività che, prima o poi, una persona in formazione dovrà saper affrontare, a causa delle prove che incontrerà sul suo cammino, nella vita comunitaria e in quella apostolica. I suggerimenti, le indicazioni presentati attraverso un intervento a carattere psicologico varieranno secondo la visione antropologica di riferimento. C’è chi, per esempio, tenderà a sottolineare in modo particolare la presa di coscienza delle motivazioni profonde di tale sentimento, cercando di individuare, all’interno dell’esperienza passata della persona, in particolar modo quella iniziale, quali possono essere state le cause che attualmente portano a vivere situazioni diverse nello stesso modo. L’elemento interpretativo sarà allora molto presente, fatto soprattutto di domande che tendono a collegare il passato con il momento attuale e a spiegare quest’ultimo attraverso la storia dell’individuo. La novizia potrà così scoprire che il suo rapporto conflittuale con la maestra di formazione trova le proprie origini nell’infanzia, in particolare nel rapporto problematico con la madre, che tendeva a dominarla.

 Un’impostazione di tipo diverso invece, più che sottolineare il momento interpretativo, cercherà di favorire il sentimento, la sua accoglienza, ma anche la sua espressione; se l’emozione viene considerata come qualcosa di cui ci si deve appropriare, l’attenzione sarà soprattutto finalizzata al sentire, alla scoperta dei propri stati d’animo, delle sensazioni che provocano piacere e a quelle che invece sono sgradevoli.

Il primo intervento sarà orientato soprattutto a individuare i perché, mentre il secondo sarà specialmente portato a chiedersi che cosa mi fa star bene? Queste domande, tuttavia, non orienteranno unicamente l’introspezione; da esse, infatti, dipenderà anche il tipo di risposta, il modo in cui la novizia deciderà di gestire il suo conflitto con la superiora.

Nel primo caso, per esempio, la comprensione del problema potrà portare a un tentativo di soluzione dove la presa di coscienza della propria tendenza a leggere nel comportamento di una persona atteggiamenti e modi di fare di un’altra, aiuterà a essere più obiettivi, maggiormente realisti, a contenere il proprio sentimento aggressivo, a gestire il problema in modo più razionale.

Nel secondo caso, invece, l’emozione, considerata come un proprio diritto, sarà manifestata, anche in modo esplicito se non incontrollato, poiché, anche se non necessariamente la persona ne è cosciente, il presupposto antropologico di fondo la indurrà a considerare l’essere umano come una persona che ha il dovere e il diritto di esprimere se stessa, mentre coloro che non le permettono di sfogare i propri sentimenti costituiranno una sorta di inciampo sul suo cammino, un ostacolo al benessere personale.

Il contributo psicologico, in entrambe le situazioni, rappresenta di fatto, uno stimolo a valorizzare quella componente parziale della persona, la sua capacità introspettiva e razionale nel primo caso, quella emotiva nel secondo, che le permettono di raggiungere un fine che, benché diverso, è sempre collegato con il suo benessere personale.

 La confusione si ingenera poiché il termine psicologico viene utilizzato in senso generale, dimenticando che, dietro a ogni intervento psicologico è presente una visione antropologica, che deve essere esplicitata e confrontata con il concetto di persona umana che sta alla base di un orientamento vocazionale. I due esempi citati ci aiutano a comprendere come gli interventi possibili possono essere non solo riduttivi, parziali, ma anche controproducenti. Benché le metodologie utilizzate appaiano diametralmente diverse, esse sono di fatto accomunate da due aspetti di fondamentale importanza, che non possono sfuggire all’attenzione di un formatore, perché influiscono sull’impostazione di tutto il cammino spirituale della persona che gli è stata affidata.

 Il primo elemento è dato dal fatto che entrambi i metodi tendono a prendere in considerazione una o più componenti della struttura psicologica dell’individuo, senza cercare un’integrazione di tutti gli aspetti della sua personalità. Così, nel primo caso, l’elemento psicogenetico, inconscio, unito a quello interpretativo, sembravano avere la meglio rispetto all’impegno della volontà, che orienta le scelte, fa assumere decisioni, indirizza i comportamenti nel presente, prescindendo dall’influsso che il passato può esercitare sulla percezione e lettura della realtà. Nel secondo caso invece sembra essere il sentimento a prevalere, con la sua componente di istintualità, immediatezza, mancanza di sfumature, che spesso impedisce di cogliere la realtà in modo obiettivo e di fare spazio alla presenza dell’altro nella propria vita.

 Il secondo aspetto che accomuna i due interventi psicologici apparentemente opposti è dato dal fatto che entrambi tendono a ridurre l’essere umano a un’entità puramente psicosomatica, ed eliminano così totalmente la componente spirituale. Il primo metodo, infatti, potrebbe essere felicemente adottato per risolvere un conflitto con il capufficio, il secondo lo si potrebbe suggerire a una moglie frustrata, che ha sempre cercato, senza successo, di ribellarsi a un marito schiavista e prepotente. Né l’uno né l’altro però aiutano ad affrontare la difficoltà di relazione collocandola nel suo vero contesto, quello di una persona che deve interiorizzare il valore dell’obbedienza e a tale scopo deve anche orientare i suoi dinamismi umani in modo adeguato, spiritualizzandoli.

Se le difficoltà nei confronti della maestra vengono lette sempre e unicamente come conflitti interpersonali e la novizia non è mai aiutata a dilatare il proprio orizzonte, a cercare nell’evangelo, nella vita dei santi, nella tradizione, le risposte a queste stesse difficoltà, il suo cammino vivrà una sorta di incongruenza, di divisione interiore. Chiamata a volare in alto, nello spazio di Dio, se nessuno le presenta uno squarcio di cielo dove librarsi, nonostante la paura che può vivere nel consegnarsi a Dio, nel fare propri i valori che Gesù ha vissuto e per cui ha dato la vita, ella si ritroverà a razzolare sempre nel cortile di casa, tra conflitti, limiti, debolezze, ambivalenze, piccinerie della vita quotidiana.

Esiste infine un terzo tipo di confusione, quello comunemente più ignorato, ma che, se preso in considerazione e superato, potrebbe ulteriormente favorire quel cammino di unificazione così importante per la crescita umana e spirituale.

Si tratta della confusione che nasce dalla tendenza a far coincidere psicologico e conflittuale.

In questo caso l’antropologia sottostante mette in risalto la centralità della dimensione spirituale all’interno del cammino formativo, ma tende a ridurre la dimensione psicologica dell’individuo a un insieme di tensioni, pulsioni, istinti, da eliminare perché rappresentano delle spinte che creano tensione, contraddizione all’interno della persona. Così, senza che nessuno se ne renda conto, l’inconscio viene assimilato alla soffitta buia di casa, dove regnano ragni, topi e pipistrelli, un luogo in cui è pericoloso entrare o dove bisogna intervenire per fare un’operazione di ripulitura totale; nello stesso modo i bisogni appaiono come delle realtà che fanno paura, che potrebbero impadronirsi di noi, condizionarci profondamente, orientare negativamente il nostro cammino.

Si teme la dipendenza perché può costituire un ostacolo a una vita di castità, ma si dimentica che, senza di essa, privo di un’interiorità orientata alla relazione, nessuno potrebbe vivere una sana amicizia. Si ha paura del mondo sconosciuto che abita ognuno di noi e se ne coglie un’unica dimensione, finendo così per ignorare il fatto che esso rappresenta un mezzo messo a nostra disposizione dall’infinita sapienza di Dio, perché potessimo comprendere qualcosa di più di noi stessi; si dimentica inoltre che nell’uomo spirituale anche il mondo inconscio può essere orientato a Dio, come dimostrano, per esempio, le descrizioni dei sogni che ci sono provenute dalla tradizione dei padri del deserto.

Ritroviamo così, alla base di quest’impostazione, una sorta di manicheismo che riflette lo stesso dualismo presente tra anima e corpo, quando quest’ultimo viene assimilato a carne, intesa come principio che orienta tutto l’uomo in un senso contrario a quello dello Spirito. Invece di distinguere i diversi livelli, operazione necessaria per cercare di cogliere in modo più profondo qualcosa del mistero presente nel cuore dell’uomo, si tende a separare e opporre e si diventa incapaci di cogliere quella profonda armonia presente dentro di noi, quell’essere fatti a immagine, inscritto nelle profondità di tutto il nostro essere: spirito, corpo, psiche.

 L’unità dell’essere umano

La materia è generata dallo spirito, il mondo procede da un soffio: tutto è pneumatico, afferma Bastaire2 e, parlando della natura profonda di figli dello Spirito che appartiene al sesso e alla funzione genitale, afferma che essi

non sono di una pasta diversa dal resto del mondo: sono fatti della stessa stoffa di cui sono intessuti i figli di Dio. Come tutto ciò che esce dalle mani del Padre, sono rivestiti di un'eminente dignità. Meritano quindi di essere accostati con fede umile e rappacificata. La loro cattiva reputazione non è solo un inganno: è un insulto che raggiunge l’opera creatrice alla sua radice, là dove l’eterno partorisce il tempo e l’ineffabile si rende visibile3.

Se questo è vero della sessualità, perché non ritenerlo altrettanto vero per tutte le altre dimensioni della psiche umana? Perché cogliere in essa solo i segni del limite, della debolezza, del ripiegamento narcisistico su se stessi e non la forza che può essere orientata al bene, l’apertura o i segni dell’immagine, che già possiamo cogliere e che attendono solo di essere indirizzati, trasfigurati? I padri del deserto, che conoscevano le profondità dell’animo umano con una competenza che può far invidia al più preparato fra gli psicologi contemporanei, hanno sempre messo in risalto come la parte irrazionale dell’anima non necessariamente agisce in modo disordinato, ma, al contrario può operare secondo natura, seguendo così la volontà del Creatore.

Nel suo Discorso Ascetico4, per esempio, Diadoco di Fotica afferma:

La collera più delle altre passioni suole turbare e confondere l’anima, ma talvolta le giova anche molto. Infatti, quando ne usiamo senza turbamento, contro gli empi o i peccatori di ogni tipo, affinché siano salvati o siano presi da vergogna, le procuriamo un’aggiunta di mitezza; giacché concorriamo, del tutto, allo scopo della giustizia e della bontà di Dio… Cosicché mi sembra che la collera saggia sia stata offerta alla nostra natura piuttosto come arma di giustizia, da parte di Dio nostro creatore. Se Eva se ne fosse servita contro il serpente, non avrebbe subito l’operazione di quel piacere passionale 5.

Nello stesso modo lo psicologo contemporaneo può sostenere, come già abbiamo sottolineato, la positività del bisogno d’affetto: se è vero che può rappresentare un ostacolo all’interno del cammino di una giovane che si orienta verso la scelta della castità, è altrettanto vero che esso costituisce la base per quell’apertura all’altro che non solo ci permette di instaurare relazioni solide e appaganti, ma ci apre anche all’amore di Dio. Come potremmo, infatti, accoglierlo, desiderarlo, aspirare alla Sua Presenza, se dentro di noi non esistesse questa necessità di rapporti, che dice anche di un’apertura e di un essere fatti per l’incontro, la relazione, l’amore?

In questo caso allora la psicologia non appare più come la scienza che si interessa dei conflitti, ma come uno strumento atto non solo ad analizzare, ma anche a contemplare il mistero dell’essere umano, sapendo che in ogni frammento di interiorità e, quindi, perfino in ciò che potrebbe indirizzare verso il male, l’egocentrismo, l’autoaffermazione orgogliosa, è sempre presente una possibilità di apertura, di crescita, un orientamento trascendente, che ci orienta verso l’altro e verso Dio.

Solo in questo modo, liberandoci da tutti i pregiudizi, diventa allora possibile ipotizzare un cammino di collaborazione tra scienze umane e spiritualità. Questo però comporta, come già abbiamo accennato, il superamento di un’altra confusione, quella che riguarda il significato da attribuire al termine spiritualità e l’individuazione di un giusto rapporto tra due dimensioni dell’essere umano che, benché chiamate a interagire, non possono mai essere poste sullo stesso livello ed equiparate, quasi assumessero l’identica importanza all’interno del cammino formativo della persona in vocazione.

Continua

Torna indietro