n. 1
gennaio 2002

 

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Quando Dio è colpevole
La storia sfida la vita consacrata
di Silvia Recchi

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Gli eventi che hanno marcato l’attualità storica degli ultimi mesi (e che perdurano mentre scriviamo), hanno polarizzato intorno a quello che il Santo Padre ha definito «un giorno buio nella storia dell’umanità»1 l’attenzione di tutti.

Gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, gli atti di guerra che ne sono seguiti, le prese di posizione, le reazioni ai differenti livelli nonché le paure e i timori che ne sono scaturiti hanno invaso i mezzi di comunicazione, monopolizzato il dibattito internazionale, sono divenuti argomento di discussione pubblica.

Nelle esperienze di forti emozioni comuni vengono in emergenza reazioni che rivelano le convinzioni profonde, gli atteggiamenti latenti, le mentalità, le paure, i giudizi che albergano nelle menti e nei cuori e che costituiscono la coscienza morale collettiva che si esprime anche nell’opinione pubblica.

Nei momenti storici in cui lo smarrimento è grande, non sappiamo a volte afferrare subito il problema, siamo incapaci di collocarci con lucidità nei confronti di esso. A partire dall’11 settembre si è vissuto uno di questi momenti. Al di là della condanna senza attenuanti degli attacchi terroristici, si è discusso, non sempre con chiarezza, su molte cose.

Si è parlato di civiltà, della superiorità dell’una sull’altra, delle religioni, della guerra e del pacifismo, del dialogo e dello scontro, del pluralismo e della tolleranza. E ancora si è discusso sulla legittima difesa, sugli obiettivi militari da colpire e su quelli civili da risparmiare (collocando con difficoltà tra essi la categoria dei terroristi). Si è dibattuto sulle strategie di morte, sul terrorismo che esplode improvviso come nell’orrore e nel rumore del crollo delle torri di Manhattan e che suscita reazioni di totale rifiuto e di condanna; si è dibattuto anche sulle strategie che colpiscono invece nel silenzio, mietendo le vittime nella miseria, nel sottosviluppo, nell’esclusione strutturale della maggior parte dell’umanità al banchetto della vita e che non suscitano condanne e reazioni altrettanto decise.

E’ stato anche scritto che, dopo gli attentati dell’11 settembre, la storia non potrà più essere la stessa. Un’affermazione che, se assunta responsabilmente, potrebbe farci sperare in un futuro migliore. Basta non dimenticare, tuttavia, che ciò era stato già detto davanti ai forni crematori nazisti, davanti alla bomba di Hiroshima, davanti al genocidio del Ruanda, davanti alla “pulizia etnica” nei Balcani…

Leggere gli avvenimenti della storia

La Chiesa di oggi, come la Chiesa di sempre, in virtù della sua missione di evangelizzazione è chiamata a leggere gli avvenimenti della storia umana. Essa, infatti, deve guidare gli uomini a realizzare, alla luce del vangelo e della riflessione razionale, la loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena.

Se la Chiesa rinunciasse ad affrontare i grandi problemi dell’umanità, a interpretare gli eventi umani e a giudicarli sul fondamento del vangelo e della fede in Cristo, ciò si risolverebbe in una riduttiva attuazione della sua missione di evangelizzazione2.

Le verità evangeliche, infatti, vanno annunciate sempre in riferimento agli eventi concreti, individuando in essi i veri valori e denunciando le strutture, le mentalità, gli atteggiamenti che ostacolano il progetto di Dio e il suo disegno di salvezza per l’uomo.

La vita consacrata è chiamata, per sua natura, a partecipare in maniera speciale a questa stessa missione evangelizzatrice della Chiesa. Le persone consacrate, la cui vocazione è di essere segno profetico delle realtà escatologiche, sono le più qualificate a interpretare la storia nella sua corrente invisibile e nascosta; esse che vivono in modo eminente la “nostalgia” per la fine del tempo, sono chiamate a porsi ancor più responsabilmente davanti al tempo e ai suoi eventi.

Nei momenti di smarrimento, di angoscia e di confusione, la vita consacrata non può rinunciare quindi a una lettura più profonda dei fatti storici, non solo utilizzando gli strumenti dell’analisi razionale, ma soprattutto servendosi della luce del vangelo, smascherando i luoghi comuni, mettendo in guardia contro i falsi equilibri, rifiutando di ratificare l’assoluto di ogni verità storica che pretenda di rivendicare per sé la totalità che spetta solo a Dio e al suo regno.

Il ricorso al nome di Dio

Non è sfuggito a nessuno, nei fatti vissuti, riflettuti, commentati, che sono scaturiti dall’11 settembre, l’abbondanza del ricorso al nome di Dio. Questo ricorso, per motivi simili o contrapposti, per via di affermazione o di negazione, ha caratterizzato in vario modo i protagonisti degli eventi, nonché gli spettatori di essi.

Tale constatazione, del resto, non è nuova per coloro che ricordano gli avvenimenti della guerra nel Golfo. Anche allora, dall’una e dall’altra parte in conflitto, fu abbondantemente fatto ricorso al nome di Dio. Anche allora si parlò di guerra “santa”, di guerra “giusta”, di guerra “umanitaria”, espressioni che, in maniere diverse, intendevano legittimare, per gli uni e per gli altri, il fondamento del conflitto.

E’ vero che, a differenza della guerra nel Golfo, nella guerra in Afganistan si è rinunciato a parlare di “guerra intelligente”, cioè capace di colpire in maniera scientificamente selettiva le sue vittime. Nel più recente conflitto, infatti, sembra che le bombe americane abbiano sbagliato spesso i loro bersagli, colpendo ora un ospedale, ora un luogo di raccolta di alimentari, ora alcuni depositi della Croce rossa, ora vari obiettivi civili.

La legittimazione divina dell’azione di guerra è ben nota all’interno della concezione della jihad islamica, la guerra santa. Una realtà questa che è differentemente interpretata dalle molteplici fazioni del mondo islamico tra cui alcune la considerano come un combattimento “spirituale”, altre come una strategia puramente difensiva, altre ancora come un’offensiva violenta condotta in nome di Dio che implica violenza e intolleranza.

Non è nostro scopo analizzare qui la complessità del movimento islamico, delle sue spinte integraliste o fondamentaliste, cui certamente non è estraneo uno spirito di rivalsa nei confronti dell’occidente.

Questo mondo, negli ultimi decenni, si è posto all’attenzione planetaria con i suoi conflitti e i suoi problemi, con la crisi del petrolio negli anni ‘70, con l’aggravarsi della situazione nel Libano e medio Oriente, con l’affermazione dei vari fondamentalismi. La guerra nel Golfo fu un esempio di guerra santa, interpretata e vissuta come un’offensiva contro gli infedeli.

L’attacco in Afganistan, tuttavia, com’è stato ripetutamente ribadito, non ha avuto come obiettivo la civiltà islamica e le sue interpretazioni di guerra santa, bensì un gruppo di terroristi, condannati per lo più anche all’interno del loro universo culturale e religioso.

Quello che a noi interessa soprattutto notare è il fatto che il ricorso abusivo al nome di Dio non è esclusivo delle varie forme, legittime o meno, della jihad islamica.

Tale ricorso, abbigliato con vesti laiche, soggiace anche dietro a molte espressioni o a parole d’ordine utilizzate dal ben più moderno fronte occidentale. Qui il ricorso assume lo spirito biblico per la “lotta del bene contro il male”, per la “giustizia infinita”, la “libertà immutabile” (e chi non ricorda, ad esempio, l’azione Restore hope, “Ridare la speranza” in Somalia?) e la forma di una crociata in nome di una verità di cui ci si attribuisce la missione di definire l’essenza.

Questa inflazione del nome di Dio, nel cuore dei tragici eventi che hanno marcato la storia recente, esige una riflessione.

La vita consacrata e la coscienza del proprio ruolo

La missione di evangelizzazione nel mondo attuale che la vita consacrata è chiamata a svolgere richiede un giudizio sulle culture, sulle mentalità; richiede di smascherare le false speranze e le legittimazioni abusive fatte ricorrendo al nome di Dio. La fede vissuta nella storia approfondisce nelle persone consacrate la consapevolezza del proprio ruolo che è quello di illuminare le coscienze, di veicolare il vero volto di Dio, di dare voce alla sua Parola.

Questo Dio che, anche sotto la forma di valori storici assolutizzati, appare nei momenti difficili e di grande conflittualità dell’umanità (o anche più semplicemente della vita personale di ognuno) è facilmente un “sosia” di cui abbiamo bisogno per proteggere le nostre logiche, legittimare i nostri criteri, o anche per nascondere le nostre angosce, o ancora, per esorcizzare le nostre colpe, sfuggire alla coscienza della nostra responsabilità davanti alle scelte fatte.

Il ricorso a Dio, anche quando, laicizzando le sue manifestazioni, si invoca l’assolutezza di alcuni valori che lo esprimono, serve molto spesso a supplire a quel fondamento di cui si ha bisogno per rendere intoccabili, indiscutibili gli interessi che sono in gioco e che vogliamo difendere. Si recupera, come nel caso dei terroristi, il nome di Dio per giustificare l’inaccettabile. Dio, infatti, ha la prerogativa di rendere legittime le logiche perpetrate in suo nome, ha il ruolo magico di sottrarre all’immanenza i nostri interessi, di sottrarli cioè al giudizio della ragione, della critica, dell’analisi storica.

Dio diventa allora la comoda scorciatoia per affermare il nostro “io”, personale o collettivo, per renderlo protagonista di convinzioni e scelte che rispondono ai nostri criteri affermati come indiscutibili.

Curiosamente, anche il discorso che è stato fatto a partire dal rovescio di questa medaglia soggiace alla stessa logica. Se le nostre azioni, perpetrate in nome di Dio, sono malvagie, occorre imputarle all’idea di Dio. E’ quest’idea che è malvagia e che bisogna demolire, come si è adoperata a fare una certa stampa laica in occasione degli atti terroristici dell’11 settembre.

Dio è sempre, da qualsiasi punto lo si consideri (cristiano, ebraico o mussulmano), un personaggio pericoloso di cui diffidare. Il “fattore Dio”, è stato scritto, è il più corrosivo tra tutti i nemici dell’uomo perché intossica il suo pensiero, imprigionandolo nell’intolleranza e spingendo ai più grandi crimini. Dio è sempre colpevole e se non lo è veramente, è solo perché … non esiste3.

Dio rischia non solo di diventare, come accusava il filosofo Feuerbach, una proiezione alienante in cui si riflettono i desideri non esauditi e da cui si attende quello che l’impotenza umana non riesce a realizzare, un comodo idolo che i potenti utilizzano per frenare l’ira dei poveri e salvaguardare i privilegi della loro posizione. Dio diventa, ancor più, la legittimazione dei nostri criteri, la mistificazione dei nostri interessi, la copertura del nostro odio e dei nostri crimini.

Il discorso, come si vede, non concerne solo la jihad islamica e i suoi stravolgimenti. Esso ha riguardato e riguarda, alla stessa maniera, islam e cristianesimo, oriente e occidente, passato e presente, in cui il grido di “Allah è grande” o di “Dio lo vuole” o ancora “Gott mit uns” ha inteso mistificare i crimini degli uomini, commessi come pseudocelebrazione della gloria di Dio.

Quel “sosia” che chiamiamo Dio è allora l’idolo creato dalle nostre mani, ovviamente modellato a misura dei parametri della nostra cultura e della nostra appartenenza. Per esso armiamo gli eserciti, siamo disposti a ingenti sacrifici e perché no? a dare anche, come kamikaze suicidi, la nostra vita.

Il nome di Dio può essere un termine molto equivoco, come può essere equivoco, in certi momenti, il nostro ricorso a lui nella preghiera. I credenti di tutte le religioni hanno pregato dopo gli attentati dell’11 settembre.

La preghiera è certamente la più alta affermazione della fede in Dio. La preghiera del cristiano è la proclamazione della trascendenza di Dio, del rapporto personale che lo unisce a Lui. Essa è l’atto di chi crede che non basta immergersi nella realtà visibile, tuffarsi in essa con tutte le energie e le potenze possibili, studiarla, capirla, trasformarla nei fenomeni e negli eventi umani, perché la presenza di Dio non si esaurisce in tutto ciò.

La natura, l’uomo, la storia, infatti, non assorbono il tutto di Dio e non esprimono tutta la profondità della realtà che è sempre trascendente. Da qui nasce il senso della preghiera cristiana quando, esaurito lo sforzo e l’impegno umano, essa agisce più efficacemente nel cuore di quella profondità, se arriva, umile e confidente, al cuore di Dio.

Se la preghiera è per eminenza l’atto dell’uomo che crede, può tuttavia diventare facilmente il rifugio di persone che rifiutano di fare la propria parte e che chiedono a Dio di farla a posto loro.

Etty Hillesum, la giovane donna ebrea vittima della terribile avventura nazista, nei momenti in cui l’orrore dello sterminio del suo popolo era più grande, invitava i suoi contemporanei non a domandare aiuto a Dio, ma ad offrire a Dio il loro aiuto, a manifestare il loro sostegno a Dio lasciato solo, povero, impotente davanti alla libertà umana che sceglieva contro di Lui.

La preghiera ha un senso autenticamente cristiano quando non intende piegare Dio all’uomo e ai suoi criteri, chiamandoLo a soccorso perché non riesce più a difendere i propri interessi; bensì se eleva l’uomo ai criteri di Dio, alla sua volontà, trasformandolo e facendolo diventare collaboratore responsabile del suo disegno.

Oggi più che mai siamo chiamati a pregare, a lasciarci cioè trasformare dai criteri di Dio. Oggi più che mai siamo chiamati ad esercitare il discernimento, per smascherare dietro le parole i contenuti che vi si nascondono. La vita consacrata, se vuole essere la coscienza critica delle realtà terrene, deve individuare ogni forma di idolatria, ogni sostituzione dell’immagine alla realtà, dell’idolo al Dio vero.

Tale ruolo fa parte dell’impegno di evangelizzazione del mondo contemporaneo che tende a sottoporre la storia al giudizio di Dio, relativizzando le culture, le ideologie, le istituzioni che non possono mai rivendicare un valore di assoluto e mettersi al posto di Dio.

E’ un impegno a illuminare le coscienze, a chiamarle a conversione, a mostrare chi è Dio e chi siamo noi che utilizziamo il suo nome; è un impegno a innalzare la storia al disegno di Dio, affinché la trascendenza penetri e si radichi in essa.

Seguire Cristo per i consacrati non è mai fuggire la storia, le sue esigenze, i suoi eventi dolorosi. Non è neanche facilitarsi il rapporto con essa, evadendo in facili ottimismi. Chi segue Cristo più radicalmente non vive né a fianco, né sopra la storia, egli la trascende per mettersi più profondamente al suo ascolto e al suo servizio; non chiude i suoi occhi su essa, ma la guida nella prospettiva della salvezza, in un dialogo profondo, esigente, selettivo con i suoi avvenimenti.

Questo compito di evangelizzare richiede l’impegno a conoscere i fenomeni complessi che governano il mondo, la lucidità delle analisi, l’azione coerente e intelligente che nasce dalla luce del vangelo e dalla fede in Cristo, redentore dell’uomo.

Responsabili davanti alle sfide della storia

Noi non crediamo ai facili pacifismi, né a visioni idealistiche della storia. Crediamo che la comunità internazionale debba difendersi dagli attacchi terroristici. Crediamo al triplice appello alla giustizia, alla responsabilità e alla conversione.

Tale appello, secondo il forte richiamo della Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea (COMECE), è ad individuare e punire i responsabili degli atti criminali, anche se le categorie classiche del diritto risultano inadeguate per la valutazione dei recenti attentati terroristici.

L’appello è a guardarsi da sospetti collettivi e ad escludere un massiccio uso della violenza come risposta finalizzata al ristabilimento del diritto e della giustizia.

L’appello è a riflettere sul fatto che la potenza occidentale, la sua ricchezza e i suoi simboli hanno suscitato ostilità e odio e che essi costituiscono un contrasto troppo stridente con la miseria e l’impotenza di molti abitanti del pianeta.

L’appello è, infine, alla conversione solidale, come unica via alla pace perché «non c’è alcuna giustificazione per la violenza e la distruzione, non c’è alcuna teologia del terrore, né nella fede cristiana, né in quella ebraica o mussulmana»4.

A volte la storia, esattamente come avviene in alcuni momenti della nostra vita personale, s’incarica di dirci che le soluzioni di certi problemi non sono più rinviabili. Essa chiede delle scelte e di mettere fine a equivoche connivenze, a compromessi e a falsi equilibri. Essa ci chiede soprattutto di diventare responsabili non solo della nostra “salute”, ma di quella del villaggio globale.

E’ questa forse una lettura possibile da fare a riguardo di ciò che il mondo ha vissuto dall’11 settembre.

Questa lettura ci riporta alla dottrina sociale della Chiesa che, nell’analisi della complessa vicenda storica contemporanea, interpreta i segni dei tempi alla luce dell’interdipendenza, della reciprocità, facendo emergere la visione del mondo come unità globale. L’interdipendenza ci mostra un villaggio planetario in cui tutti siamo veramente responsabili di tutti (SrS 38). L’enciclica Sollicitudo rei socialis invita fortemente a prendere coscienza di quest’interdipendenza e dell’indispensabile dovere di solidarietà che essa esige.

La realtà sociologica dell’interdipendenza per il cristiano non si riduce solo a una visione umanistica a favore di una socialità umana più comprensiva, di un’equità necessaria, di un senso della propria appartenenza aperto alla partecipazione del diverso e che, nel nostro caso, deve rifiutare di far coincidere l’occidente con la totalità umana. Non basta capire che nell’interdipendenza è insita la possibilità di crescita umana nel confronto con la diversità.

L’interdipendenza deve assurgere ad autentica categoria morale positiva nel dinamismo della solidarietà. Quest’ultima, a sua volta, non è un vago sentimento di compassione davanti ai mali dell’umanità, davanti alle grandi tragedie dei 3.000 morti nelle Torri di Manhattan, dei 500.000 a Hiroshima, del milione e mezzo di morti in Cambogia, dei sei milioni di uomini sterminati nell’olocausto …

La solidarietà è l’impegno per il bene comune che nasce dall’interiorizzazione della convinzione che tutti siamo veramente responsabili di tutti. Una convinzione le cui radici non sono ideologiche, ma scaturiscono dalla vita di Cristo, dalla vita trinitaria.

La vita consacrata non ha certo soluzioni a portata di mano. Essa è consapevole che la violenza, i conflitti, le guerre sono parte della storia umana perché sono sempre una possibilità davanti alla libera volontà dell’uomo.

Essa è chiamata a testimoniare la verità, cercando umilmente con tutti gli uomini l’intelligenza delle scelte operative. Testimoniare la verità significa che la coerenza della vita di uomini e donne dell’Assoluto può aiutare a ridimensionare i particolarismi, a relativizzare i nazionalismi, a far superare le visioni etniche, ad abbattere le barriere che separano, ad illuminare le menti e formarle alla visione della comune paternità di Dio.

E’ nei momenti di tenebre, di smarrimento, di paura, che va annunciata la speranza che non è illusione. «Quella speranza che trova il suo fondamento nella croce del Signore e che dalla forza del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza e amore le forze dell’odio e della morte sempre in agguato fino alla fine dei tempi»5.

E’ la risposta più efficace che la vita consacrata dà alle sfide della storia.

E se, nonostante tutto, continuiamo a credere che Dio è colpevole, allora bisogna avere il coraggio di accusarlo del suo vero crimine. Quello, cioè, di aver creato l’uomo, ogni uomo, a sua immagine e somiglianza, libero e responsabile della sua vita e di quella di suo fratello.

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