n. 11
novembre 2001

 

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Miriam, una donna di speranza
di Nuria Calduch-Benages

 

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Il Prologo del libro dell’Esodo (capp. 1-2) è caratterizzato dalla presenza femminile: le levatrici, la madre di Mosè, la sorella di Mosè e la figlia del faraone di Egitto. Se in Es 1,8-22 sono le due levatrici a determinare il ritmo degli eventi, in Es 2,1-10 le vere e proprie protagoniste sono una madre, una sorella e una figlia. In altre parole, queste donne riempiono lo scenario. Ma, e qual è il ruolo del faraone di Egitto? Quale importanza ha in questa storia? A dire la verità, era stato lui a provocare l’intervento delle levatrici. Il faraone, per paura di perdere il potere, aveva dato ordine di sterminare tutti gli ebrei maschi del paese. Curiosamente, però, la massima autorità dell’impero non viene più menzionata nel racconto.

8Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. 9E disse al suo popolo: "Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. 10Prendiamo provvedimenti nei suoi riguardi per impedire che aumenti, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese". 11Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprirmerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito cioè Pitom e Ramses. 12Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli d’Israele. 13Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente. 14Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla e con ogni sorta di lavoro nei campi: e a tutti questi lavori li obbligarono con durezza.

15Poi il re d’Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: 16"Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere". 17Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini. 18Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: "Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?". Le levatrici risposero al faraone: "Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!". 20Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. 21E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una numerosa famiglia. 22Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: "Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia".

 

Il faraone e le levatrici

Le due prime donne che appaiono nel racconto sono le levatrici, le due uniche donne della storia di cui conosciamo il nome: Sifra (bellezza) e Pua (dall’ugaritico, giovane donna). Questo fatto contrasta con l’anonimato del faraone. Molti studiosi hanno tentato di individuare la sua identità: potrebbe trattarsi di Ramessese II (1290-1224 a.C.). Chiunque sia, il narratore non ha voluto rivelare il suo nome. I nomi delle due levatrici vengono menzionati, perché esse hanno lottato per la vita dei neonati. Il faraone, invece, non ha nome perché egli voleva sterminare gli innocenti per motivi egoistici. Così nella storia il faraone onnipotente perde tutto il suo potere di fronte a due semplici levatrici. Secondo il narratore il faraone non è degno di essere nominato nella storia del suo popolo, perciò egli è presentato come un personaggio senza identità.

Le levatrici temevano Dio, e temere Dio non è compatibile con uccidere gli innocenti. Ricordiamo i fatti narrati. Il faraone ordina loro di guardare con attenzione il sesso dei neonati (1,16: "Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere"), però le levatrici, invece di guardare il sesso, dice il testo, temettero Dio. In ebraico i verbi "guardare" e "temere" sono molto simili e permettono un gioco di parole (forse come in italiano tra "tradurre" e "tradire"). L’ordine del faraone contiene una discriminazione sessuale che le levatrici ignorano e la ignorano perché l’ordine ricevuto va contro la vita e riflette una struttura di morte che nessuna donna potrebbe mai accettare. Sifra e Pua danno la vita, da una parte, perché è il loro mestiere, ma dall’altra, perché hanno il coraggio di disubbidire e di sfidare il faraone con molta sagacità: "Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!" (v. 19).

Infine vorrei sottolineare due punti. Il primo, la solidarietà tra le due levatrici, una solidarietà che vedremo anche tra le altre donne della nostra storia (specialmente tra Miriam e la principessa egiziana). Il secondo punto fa riferimento al timore del Signore, un atteggiamento che nel nostro testo non è esclusivo degli israeliti. Infatti, le due levatrici egiziane temono il Dio di Israele, mentre disubbidiscono al dio dell’Egitto (il faraone). E qui l’ironia del narratore si fa palese.

Riprendiamo ora il versetto più importante di questo brano (1,22): "Ogni figlio maschio che nascerà agli Ebrei, lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia". Questo è il secondo e anche l’ultimo ordine del faraone. Possiamo notare che neppure uno dei due ordini viene eseguito; ossia la parola del faraone non è autorevole, non vale nulla. Infatti, la massima autorità dell’impero viene ironizzata dal narratore. Il versetto è importante perché ci offre lo scenario dove si situerà l’azione principale che sta per compiersi. Lo scenario è il fiume Nilo. Senza il Nilo non si possono capire le azioni della madre e della sorella di Mosè.

Concludiamo questa prima parte. Qualcuno ha detto molto acutamente: ‘Se il faraone avesse intuìto il successo dell’azione realizzata dalle levatrici, il suo decreto sarebbe stato diverso: egli avrebbe ordinato alle levatrici di uccidere tutte le figlie degli ebrei!!! " (Ph. Tribie).

Es 2,1-10

1Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. 2La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. 3Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. 4La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. 5Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. 6L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: "E’ un bambino degli Ebrei". 7La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: "Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?". 8"Va’", le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. 9La figlia del faraone le disse: "Porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario". La donna prese il bambino e lo allattò. l0Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosè, dicendo: "Io l’ho salvato dalle acque!".

 

La madre di Mosè, sua sorella e la figlia del faraone

Il capitolo secondo comincia anche con un tocco d’ironia. Il faraone ha appena comandato di non uccidere le figlie di Israele, e adesso la storia incomincia proprio con una di queste figlie, e più avanti essa continuerà con la figlia del faraone. Insomma, due figlie che disubbidiscono l’ordine ricevuto in modo tale da rovinare il piano progettato dal faraone. Fermiamoci ancora su queste due figlie.

La prima figlia menzionata nella storia è una figlia di Israele. Si tratta della figlia di un levita sposata con un uomo della famiglia di Levi (v.1: "Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi"). Stiamo parlando della madre di Mosè. Anch’essa appare nel racconto in maniera anonima: come figlia di Levi o come madre di Mosè. Noi però conosciamo il suo nome, perché esso viene menzionato in Es, 6,20 e Num 26,59. Si chiama Iochebed (in ebraico, Javé è gloria, forza). E’ da notare che sia la figlia di Levi che la figlia del faraone, diventeranno la madre di Mosè. Il narratore ci presenta due madri che si aiutano a vicenda. E queste due madri fanno ricordare i diversi paradigmi con cui gli autori biblici raccontano la nascita di un eroe. Basicamente ce ne sono due tipi:

Primo tipo

a) 2 madri, 2 eroi, uno falso e l’altro vero (Sara e Agar - Isacco e Ismaele)

b) 2 o 3 madri e un solo eroe (Rut e Noemi - Obed; Iochebed e la figlia del faraone - Mosè)

Secondo tipo

a) 1 madre e 2 o più figli (Eva - Caino e Abele; Rebecca - Esaù e Giacobbe)

b) 1 madre e 1 figlio (la madre dì Sansone e Sansone)

Qui ci fermiamo sul nostro caso e sulla prima madre. La madre di Mosè non parla, soltanto agisce. Invece, la sorella di Mosè e la principessa parlano e agiscono. Vediamo le azioni della madre (v.2) e quindi facciamo attenzione ai verbi utilizzati dal narratore (tutti attivi): concepire, partorire, vedere, nascondere. L’oggetto di queste azioni è sempre il figlio. Infatti si tratta di un racconto che tecnicamente è considerato come un "annuncio di nascita", ossia un racconto dove si annuncia la nascita di un eroe. Tuttavia manca di un particolare. In questo tipo di racconto sempre c’è un momento in cui il padre (o la madre) pone il nome al bambino/a. Qui invece il bambino riceverà il nome più tardi e lo riceverà dalla figlia del faraone, dalla madre adottiva. Il testo non parla del nome, ma aggiunge una informazione molto preziosa: la madre del bambino, dopo averlo concepito e partorito, "vide che era bello" (in ebraico, tob). Questa frase ci ricorda un testo importante della Genesi: "E Dio vide che era buono/bello". Ogni volta che Dio creava un elemento dell’universo, la bibbia ripete questa frase. Quindi, quello che Dio ha creato e è buono e non può esser destinato alla morte, ma alla vita.

La madre di Mosè si rende conto che nascondere il bambino può risultare pericoloso e così reagisce freneticamente, con grande energia e affrettatamente: prende un cestello di papiro, lo spalma di bitume e di pece, vi mette dentro il bambino e lo depone fra i giunchi sulla riva del Nilo (v.3). Tutte queste azioni sono narrate con grande cura, con tutti i dettagli, il che dimostra la grande preoccupazione della madre. La madre del bambino è molto decisa. Farà tutto il possibile per salvare il bambino e lo farà da sola, senza l’aiuto del marito di cui non sappiamo nulla. C’è, tuttavia, una novità: l’ironia del narratore. Il faraone aveva ordinato di gettare i bambini maschi nel Nilo e la madre di Mosè ubbidisce all’ordine gettando il suo bambino nel fiume. Lo fa però in modo tale che il fiume invece di essere luogo di morte diventa luogo di vita e di salvezza. Essa prepara un cestello (in ebraico, tebah). La parola tebah è la stessa che appare nel racconto della Genesi per designare l’arca di Noè. Noè e Mosè ambedue furono salvati dalle acque. Noè costruisce l’arca, la madre di Mosè prepara il cestello che infatti è una piccola arca.

Cosi arriviamo al v.4, un versetto che si trova in una posizione molto significativa nel racconto: "La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto". Il Libro dei Giubilei aggiunge un particolare molto poetico al testo biblico: "Tua madre veniva di notte per allattarti e durante il giorno Miriam, tua sorella, ti proteggeva contro gli uccelli" (47,5). Inaspettatamente, dal nulla, emerge la nostra protagonista: un’altra donna senza nome, chiamata "la sorella del bambino". Fino ad ora nessuno poteva intuire che il bambino appena nato aveva una sorella. Non si era neanche fatto accenno alla sua esistenza. La sua presenza è però tanto sorprendente quanto essenziale: è proprio essa a collegare i due temi principali di questa storia: quello della madre e suo figlio e quello della principessa e il bambino. Con grande abilità letteraria il narratore descrive l’opposizione tra la figlia di Levi (madre di Mosè) e la figlia del faraone (anch’essa madre di Mosè). Una ebrea, l’altra egiziana; una schiava, l’altra libera; una di origine comune, l’altra di sangue regale; una povera, l’altra ricca; una nasconde il figlio; l’altra lo trova; una rimane in silenzio, l’altra parla. La principessa è egiziana, libera, ricca, però non ha nome. La tradizione l’ha identificata con parecchi personaggi: Thermuthis (Flavio Giuseppe), Menis (Eusebio), Tharmuth (il Libro dei Giubilei), Batyah (Ex Rabba), Bithia (Talmud e 1Cro 4,18).

Due donne separate che si incontreranno grazie a una terza donna: anch’essa figlia, però presentata dal narratore come "sorella del bambino" (2x) e "la fanciulla" (1x). Se vogliamo trovare il nome di questa fanciulla, dobbiamo aspettare un po’. Esso appare per prima volta nel cap. 15 del nostro libro (vv.20-21), anche nel libro dei Numeri (12,1-16; 20,1; 26,59), nel Deuteronomio (24,9), nel primo libro delle Cronache (5,29) e nel profeta Michea (6,4).

Es 15,20-21:

Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze. Maria fece loro cantare il ritornello:

Num 12,1-16:

v.1: Maria e Aronne parlarono contro Mosè.

vv. 9-10: L’ira del Signore si accese contro di loro ed Egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra alla tenda ed ecco Maria era lebbrosa, bianca come neve; Aronne guardò Maria ed ecco era lebbrosa.

v.5: Maria dunque rimase isolata, fuori dell’accampamento sette giorni; il popolo non riprese il cammino, finché Maria non fu riammessa nell’accampamento.

Num 20,1:

Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin il primo mese e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e fu sepolta Maria.

Num 26.59:

La moglie di Amram si chiamava Iochebed, figlia di Levi, che nacque a Levi in Egitto; essa partorì ad Amram Aronne, Mosè, e Maria loro sorella.

Dt 24,9:

Ricòrdati di quello che il Signore tuo Dio fece a Maria durante il viaggio, quando uscivate dall’Egitto.

1Cro 5,29:

Figli di Amram: Aronne, Molsè e Maria.

Miq 6,4:

Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù e
ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria?

Il suo nome era Miriam (in greco Mariam o Marian), un nome di etimologia incerta. Gli studiosi hanno proposto una sessantina di ipotesi, tra cui le seguenti: ribelle, amata da Yavé, esaltata, elevata. Miriam è una figura molto ammirata nella letteratura rabbinica: ci sono molte leggende sulla sua profezia, la sua fontana e la sua morte.

Sulla sua profezia: "Essa aspettò con attenzione e con pazienza sulla riva del Nilo per vedere se si sarebbe compiuta la profezia che essa aveva profetizzato a suo padre: "Tu sei destinato a generare un figlio che salverà Israele"" (Mekhilta Ex 15,20; Dt Rabba 6,14). Così si spiega anche perché Filone di Alessandria da a Miriam il nome simbolico di elpis (speranza) nel suo De Somnis 11, 142.

Sulla sua fontana ("La fontana di Miriam", in Fiabe ebraiche, pp. 64-65).

Sulla sua morte: "Come il pozzo era stato regalato a causa dei meriti di Miriam, quando essa morì, il pozzo fu nascosto e non ci fu più acqua per la comunità" (Targum Num 20,2). Il pozzo era la sua profezia, l’acqua della parola di Dio.

Per i rabbini Miriam sarebbe stata un modello perfetto .... però non lo fu per due motivi: non si sposò (benché alcuni racconti la sposano con Caleb) e non ebbe figli e inoltre mormorò contro Mosè, suo fratello. Se non fosse stato per questo, Miriam sarebbe stata una delle poche donne sulle quali i rabbini non avrebbero avuto da dire niente di male (b Ber. 19a).

Torniamo però al nostro testo. Miriam, dopo aver preparato assieme a sua madre la strategia per salvare il bambino (questo il narratore non lo dice ma è molto probabile che così sia), "si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto" (v.4). Tutte le donne del racconto "vedono" (sua madre vide che il bambino era bello, essa aspetta per vedere cosa accade e la principessa dopo vedrà il cestello e il bambino che piange). L’apparizione di Miriam è quindi legata sin dall’inizio alle acque e a suo fratello. Miriam appare all’inizio del libro dell’Esodo e alla fine della prima parte (Es 15, dopo il passo del Mar Rosso). Ambedue i momenti sono segnati dalle acque del Nilo. Qui Miriam si ferma per vedere e poi ringrazierà Dio perché ha visto.

Nel v.5 incontriamo la figlia del faraone che scende nel Nilo per fare il bagno mentre le sue ancelle passeggiano sulla sponda del fiume. Soltanto la principessa però scopre il cestello. Porgiamo attenzione sulle azioni che essa compie: scende nel fiume, vede il cestello, manda una sua schiava a prenderlo, apre il cestello e vede il bambino che piange. Ora, dalle azioni passiamo ai sentimenti: "ne ebbe compassione" e poi alle parole: "è un bambino degli ebrei". L’accurata descrizione del v.6 (le azioni della principessa) rimanda a quella della preparazione del cestello che abbiamo visto nei vv.2-3 (le azioni della madre di Mosè). Della principessa conosciamo le azioni, i sentimenti e addirittura le parole pronunciate. Così sappiamo che essa conosceva il decreto di suo padre il faraone, decreto che essa è disposta a disubbidire senza alcun rimorso. L’atteggiamento della principessa verso il bambino ricorda quello di Dio verso il popolo. Essa vide il bambino nel cestello, ebbe compassione di lui, e decise di salvarlo. E’ da notare che la figlia del faraone ebbe compassione non soltanto di un bambino che piangeva, ma di un bambino ebreo. Così anche Dio, vedendo la sofferenza del popolo, ne ebbe compassione e decise di salvarlo dall’oppressore. La principessa e Dio: mostrano ambedue una grande attenzione per il bisognoso, una grande compassione verso il sofferente, due atteggiamenti del cuore che li spingono a compiere un’azione liberatrice.

Il v.7 narra l’incontro tra la sorella del bambino e la figlia del faraone, un incontro preparato già in anticipo. In un primo momento, pare che l’iniziativa di salvare il bambino provenga dalla principessa. Invece non è così. L’iniziativa non partì dalla figlia di Levi, la madre biologica del bambino né dalla figlia del faraone - sua madre adottiva -, ma da sua sorella. Miriam si avvicinò alla principessa e le fece una domanda che in realtà non era tale, ma un suggerimento per risolvere la situazione: "Devo andare a chiamare per te una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?". Con questa soluzione la sorella prepara velatamente l’incontro della madre con suo figlio. La ripetizione della espressione "per te" dopo i verbi andare a chiamare e allattare fa pensare a una persona che è posta al servizio di un’altra (la sorella al servizio della principessa). Ma i due "per te" sono "per noi" (per me e mia madre). In altre parole, la soluzione proposta dalla sorella è adeguata a tutti. Dunque, grazie a sua sorella, Mosè sarà salvato dalla morte.

La principessa accetta la proposta senza vacillare e risponde con un ordine tipico della sua categoria sociale: "Va’" (v.8). E’ chiaro che le due azioni compiute dalla sorella: porsi ad osservare (v.4) e cercare una balia (v.8) determinano il destino di Mosè. Dice il testo: "La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino". C’è una fine ironia nella espressione "la madre del bambino", perché la balia degli ebrei è in realtà la madre biologica del bambino.

Dopo questo intelligente intervento, Miriam sparisce completamente dalla scena e da questo momento in poi gli eventi si sviluppano velocemente e sempre con un tocco di ironia. Per primo, la principessa decide di pagare una certa quantità di danaro alla madre del bambino in compenso alla sua fatica di allattarlo. La madre non parla, però accetta l’ordine della principessa e allatta il bambino. Possiamo dire che in certo modo Mosè viene adottato (si discute sulla legalità di quest’azione) e infatti riceve il nome dalla madre adottiva (si discute anche sul nome, perché il nome è egiziano, ma la sua spiegazione è fatta a partire da una etimologia ebraica). Comunque sia, il liberatore di Israele, fu cresciuto nella medesima casa dell’oppressore, nel palazzo del faraone, sotto la custodia della principessa.

La storia ha un "happy end" grazie a una donna senza nome, una donna che appare sul palcoscenico biblico dal di dietro, senza una genealogia che la protegga, senza un annunzio della sua nascita o di un rituale per porle il nome; un nome che del resto non ha, al meno nella nostra storia. Appare in silenzio e riesce a unire due donne (due madri) molto diverse per uno stesso scopo: salvare la vita di un bambino. Dopo aver compiuto la sua missione, la nostra protagonista se ne va in silenzio. Umanamente parlando, la storia dell’Esodo deve il suo inizio non a Mosè ma a Miriam e alle altre donne che l’hanno aiutata. La pazienza di Miriam si è convertita in speranza, speranza di vita per il bambino, per sua famiglia, per il popolo dì Israele, e infine, per tutti noi che ancora oggi nel 2001 rimaniamo: colpiti da questa storia e da questo straordinario personaggio.

Se potessimo parlare anche di Sefora (in ebraico, uccello), una delle figlie di Raguele, la moglie di Mosè, allora avremmo un elenco completo delle donne nella vita di Mosè.

 

Miriam, sorella di Mosè e Aronne, e Maria di Nazareth

Facciamo un salto nel tempo. Secoli più tardi nascerà nello stesso paese un’altra figlia di Israele, anch’essa chiamata Miriam. Maria di Nazareth, una giovane giudea che concepirà e partorirà il salvatore del mondo.

I vangeli parlano poco di Maria. La troviamo nei vangeli dell’infanzia, soprattutto in quello di Luca - quello di Matteo è più centrato su Giuseppe - e nel vangelo di Giovanni, alle nozze di Cana di Galilea e ai piedi della croce. Maria appare nei momenti cruciali della vita di Gesù (la nascita, l’inizio del ministero pubblico, la morte in croce). Lo stesso accadde con Miriam e Mosè: essa è presente quando suo fratello è ancora un bambino (Es 2), nell’evento più importante della sua vita: il passaggio del Mar Rosso (Es 15), e anche nella dura esperienza del deserto (Num 12). I vangeli tacciono sulla morte di Maria. Di Miriam, invece, ne abbiamo soltanto la notizia (Num 20).

Miriam e Maria di Nazareth sono state due donne che si sono lasciate guidare dallo Spirito del Signore e hanno avuto il coraggio di compiere una missione unica nella storia del suo popolo, una missione rischiosa ma decisiva. Ambedue sono unite alla sorte di un bambino (Mosè e Gesù), destinato ad essere salvatore del popolo, nel caso di Mosè, e salvatore del mondo, nel caso di Gesù. Ambedue sono unite dalla sofferenza causata dal bambino (la sua infanzia, la sua educazione, il suo destino ...). Ambedue hanno dovuto scappare da una persecuzione contro gli innocenti (Mriam fugge dall’Egitto a causa del faraone e Maria fugge in Egitto a causa di un altro faraone, Erode). Ambedue hanno dovuto attendere in silenzio confidando nel Signore e senza capire del tutto la logica degli eventi. In più, esse hanno dovuto soffrire l’incomprensione da parte del fratello o del figlio (pensiamo alla vicenda delle mormorazioni e il castigo della lebbra per Miriam o all’episodio di Gesù ritrovato nel tempio per Maria).

Donne di azione, speranza e poche parole. Hanno parlato soltanto quando è stato necessario. In un mondo che ci offre tanti motivi per disperare, queste due donne ci offrono proprio il contrario. Sono donne di speranza e sanno comunicarla ai parenti, al popolo, alla storia, al mondo intero. Miriam cantò assieme alle altre donne il canto del Mare e Maria cantò il Magnificat.

E noi, quale cantico cantiamo?

 

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