La madre di Mosè, sua sorella e la figlia del faraone
Il capitolo secondo comincia anche con un tocco d’ironia.
Il faraone ha appena comandato di non uccidere le figlie di Israele, e
adesso la storia incomincia proprio con una di queste figlie, e più
avanti essa continuerà con la figlia del faraone. Insomma, due figlie
che disubbidiscono l’ordine ricevuto in modo tale da rovinare il piano
progettato dal faraone. Fermiamoci ancora su queste due figlie.
La prima figlia menzionata nella storia è una figlia
di Israele. Si tratta della figlia di un levita sposata con un uomo
della famiglia di Levi (v.1: "Un uomo della famiglia di Levi andò
a prendere in moglie una figlia di Levi"). Stiamo parlando della
madre di Mosè. Anch’essa appare nel racconto in maniera anonima: come
figlia di Levi o come madre di Mosè. Noi però conosciamo il suo nome,
perché esso viene menzionato in Es, 6,20 e Num 26,59. Si chiama
Iochebed (in ebraico, Javé è gloria, forza). E’ da notare che sia la
figlia di Levi che la figlia del faraone, diventeranno la madre di Mosè.
Il narratore ci presenta due madri che si aiutano a vicenda. E queste
due madri fanno ricordare i diversi paradigmi con cui gli autori biblici
raccontano la nascita di un eroe. Basicamente ce ne sono due tipi:
Primo tipo
a) 2 madri, 2 eroi, uno falso e l’altro vero (Sara e
Agar - Isacco e Ismaele)
b) 2 o 3 madri e un solo eroe (Rut e Noemi - Obed;
Iochebed e la figlia del faraone - Mosè)
Secondo tipo
a) 1 madre e 2 o più figli (Eva - Caino e Abele;
Rebecca - Esaù e Giacobbe)
b) 1 madre e 1 figlio (la madre dì Sansone e Sansone)
Qui ci fermiamo sul nostro caso e sulla prima madre.
La madre di Mosè non parla, soltanto agisce. Invece, la sorella di
Mosè e la principessa parlano e agiscono. Vediamo le azioni della madre
(v.2) e quindi facciamo attenzione ai verbi utilizzati dal narratore
(tutti attivi): concepire, partorire, vedere, nascondere. L’oggetto di
queste azioni è sempre il figlio. Infatti si tratta di un racconto che
tecnicamente è considerato come un "annuncio di nascita",
ossia un racconto dove si annuncia la nascita di un eroe. Tuttavia manca
di un particolare. In questo tipo di racconto sempre c’è un momento
in cui il padre (o la madre) pone il nome al bambino/a. Qui invece il
bambino riceverà il nome più tardi e lo riceverà dalla figlia del
faraone, dalla madre adottiva. Il testo non parla del nome, ma aggiunge
una informazione molto preziosa: la madre del bambino, dopo averlo
concepito e partorito, "vide che era bello" (in ebraico, tob).
Questa frase ci ricorda un testo importante della Genesi: "E Dio
vide che era buono/bello". Ogni volta che Dio creava un elemento
dell’universo, la bibbia ripete questa frase. Quindi, quello che Dio
ha creato e è buono e non può esser destinato alla morte, ma alla
vita.
La madre di Mosè si rende conto che nascondere il
bambino può risultare pericoloso e così reagisce freneticamente, con
grande energia e affrettatamente: prende un cestello di papiro, lo
spalma di bitume e di pece, vi mette dentro il bambino e lo depone fra i
giunchi sulla riva del Nilo (v.3). Tutte queste azioni sono narrate con
grande cura, con tutti i dettagli, il che dimostra la grande
preoccupazione della madre. La madre del bambino è molto decisa. Farà
tutto il possibile per salvare il bambino e lo farà da sola, senza l’aiuto
del marito di cui non sappiamo nulla. C’è, tuttavia, una novità: l’ironia
del narratore. Il faraone aveva ordinato di gettare i bambini maschi nel
Nilo e la madre di Mosè ubbidisce all’ordine gettando il suo bambino
nel fiume. Lo fa però in modo tale che il fiume invece di essere luogo
di morte diventa luogo di vita e di salvezza. Essa prepara un cestello
(in ebraico, tebah). La parola tebah è la stessa che appare nel
racconto della Genesi per designare l’arca di Noè. Noè e Mosè
ambedue furono salvati dalle acque. Noè costruisce l’arca, la madre
di Mosè prepara il cestello che infatti è una piccola arca.
Cosi arriviamo al v.4, un versetto che si trova in una
posizione molto significativa nel racconto: "La sorella del bambino
si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto". Il
Libro dei Giubilei aggiunge un particolare molto poetico al testo
biblico: "Tua madre veniva di notte per allattarti e durante il
giorno Miriam, tua sorella, ti proteggeva contro gli uccelli"
(47,5). Inaspettatamente, dal nulla, emerge la nostra protagonista: un’altra
donna senza nome, chiamata "la sorella del bambino". Fino ad
ora nessuno poteva intuire che il bambino appena nato aveva una sorella.
Non si era neanche fatto accenno alla sua esistenza. La sua presenza è
però tanto sorprendente quanto essenziale: è proprio essa a collegare
i due temi principali di questa storia: quello della madre e suo figlio
e quello della principessa e il bambino. Con grande abilità letteraria
il narratore descrive l’opposizione tra la figlia di Levi (madre di
Mosè) e la figlia del faraone (anch’essa madre di Mosè). Una ebrea,
l’altra egiziana; una schiava, l’altra libera; una di origine
comune, l’altra di sangue regale; una povera, l’altra ricca; una
nasconde il figlio; l’altra lo trova; una rimane in silenzio, l’altra
parla. La principessa è egiziana, libera, ricca, però non ha nome. La
tradizione l’ha identificata con parecchi personaggi: Thermuthis
(Flavio Giuseppe), Menis (Eusebio), Tharmuth (il Libro dei Giubilei),
Batyah (Ex Rabba), Bithia (Talmud e 1Cro 4,18).
Due donne separate che si incontreranno grazie a una
terza donna: anch’essa figlia, però presentata dal narratore come
"sorella del bambino" (2x) e "la fanciulla" (1x). Se
vogliamo trovare il nome di questa fanciulla, dobbiamo aspettare un po’.
Esso appare per prima volta nel cap. 15 del nostro libro (vv.20-21),
anche nel libro dei Numeri (12,1-16; 20,1; 26,59), nel Deuteronomio
(24,9), nel primo libro delle Cronache (5,29) e nel profeta Michea
(6,4).
Es 15,20-21:
Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese
in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani,
formando cori di danze. Maria fece loro cantare il ritornello:
Num 12,1-16:
v.1: Maria e Aronne parlarono contro Mosè.
vv. 9-10: L’ira del Signore si accese contro di loro
ed Egli se ne andò; la nuvola si ritirò di sopra alla tenda ed ecco
Maria era lebbrosa, bianca come neve; Aronne guardò Maria ed ecco era
lebbrosa.
v.5: Maria dunque rimase isolata, fuori dell’accampamento
sette giorni; il popolo non riprese il cammino, finché Maria non fu
riammessa nell’accampamento.
Num 20,1:
Ora tutta la comunità degli Israeliti arrivò al
deserto di Sin il primo mese e il popolo si fermò a Kades. Qui morì e
fu sepolta Maria.
Num 26.59:
La moglie di Amram si chiamava Iochebed, figlia di
Levi, che nacque a Levi in Egitto; essa partorì ad Amram Aronne, Mosè,
e Maria loro sorella.
Dt 24,9:
Ricòrdati di quello che il Signore tuo Dio fece a
Maria durante il viaggio, quando uscivate dall’Egitto.
1Cro 5,29:
Figli di Amram: Aronne, Molsè e Maria.
Miq 6,4:
Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù e
ho mandato davanti a te Mosè, Aronne e Maria?
Il suo nome era Miriam (in greco Mariam o Marian), un
nome di etimologia incerta. Gli studiosi hanno proposto una sessantina
di ipotesi, tra cui le seguenti: ribelle, amata da Yavé, esaltata,
elevata. Miriam è una figura molto ammirata nella letteratura
rabbinica: ci sono molte leggende sulla sua profezia, la sua fontana e
la sua morte.
Sulla sua profezia: "Essa aspettò con attenzione
e con pazienza sulla riva del Nilo per vedere se si sarebbe compiuta la
profezia che essa aveva profetizzato a suo padre: "Tu sei destinato
a generare un figlio che salverà Israele"" (Mekhilta Ex
15,20; Dt Rabba 6,14). Così si spiega anche perché Filone di
Alessandria da a Miriam il nome simbolico di elpis (speranza) nel suo De
Somnis 11, 142.
Sulla sua fontana ("La fontana di Miriam",
in Fiabe ebraiche, pp. 64-65).
Sulla sua morte: "Come il pozzo era stato
regalato a causa dei meriti di Miriam, quando essa morì, il pozzo fu
nascosto e non ci fu più acqua per la comunità" (Targum Num
20,2). Il pozzo era la sua profezia, l’acqua della parola di Dio.
Per i rabbini Miriam sarebbe stata un modello perfetto
.... però non lo fu per due motivi: non si sposò (benché alcuni
racconti la sposano con Caleb) e non ebbe figli e inoltre mormorò
contro Mosè, suo fratello. Se non fosse stato per questo, Miriam
sarebbe stata una delle poche donne sulle quali i rabbini non avrebbero
avuto da dire niente di male (b Ber. 19a).
Torniamo però al nostro testo. Miriam, dopo aver
preparato assieme a sua madre la strategia per salvare il bambino
(questo il narratore non lo dice ma è molto probabile che così sia),
"si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe
accaduto" (v.4). Tutte le donne del racconto "vedono"
(sua madre vide che il bambino era bello, essa aspetta per vedere cosa
accade e la principessa dopo vedrà il cestello e il bambino che
piange). L’apparizione di Miriam è quindi legata sin dall’inizio
alle acque e a suo fratello. Miriam appare all’inizio del libro dell’Esodo
e alla fine della prima parte (Es 15, dopo il passo del Mar Rosso).
Ambedue i momenti sono segnati dalle acque del Nilo. Qui Miriam si ferma
per vedere e poi ringrazierà Dio perché ha visto.
Nel v.5 incontriamo la figlia del faraone che scende
nel Nilo per fare il bagno mentre le sue ancelle passeggiano sulla
sponda del fiume. Soltanto la principessa però scopre il cestello.
Porgiamo attenzione sulle azioni che essa compie: scende nel fiume, vede
il cestello, manda una sua schiava a prenderlo, apre il cestello e vede
il bambino che piange. Ora, dalle azioni passiamo ai sentimenti:
"ne ebbe compassione" e poi alle parole: "è un bambino
degli ebrei". L’accurata descrizione del v.6 (le azioni della
principessa) rimanda a quella della preparazione del cestello che
abbiamo visto nei vv.2-3 (le azioni della madre di Mosè). Della
principessa conosciamo le azioni, i sentimenti e addirittura le parole
pronunciate. Così sappiamo che essa conosceva il decreto di suo padre
il faraone, decreto che essa è disposta a disubbidire senza alcun
rimorso. L’atteggiamento della principessa verso il bambino ricorda
quello di Dio verso il popolo. Essa vide il bambino nel cestello, ebbe
compassione di lui, e decise di salvarlo. E’ da notare che la figlia
del faraone ebbe compassione non soltanto di un bambino che piangeva, ma
di un bambino ebreo. Così anche Dio, vedendo la sofferenza del popolo,
ne ebbe compassione e decise di salvarlo dall’oppressore. La
principessa e Dio: mostrano ambedue una grande attenzione per il
bisognoso, una grande compassione verso il sofferente, due atteggiamenti
del cuore che li spingono a compiere un’azione liberatrice.
Il v.7 narra l’incontro tra la sorella del bambino e
la figlia del faraone, un incontro preparato già in anticipo. In un
primo momento, pare che l’iniziativa di salvare il bambino provenga
dalla principessa. Invece non è così. L’iniziativa non partì dalla
figlia di Levi, la madre biologica del bambino né dalla figlia del
faraone - sua madre adottiva -, ma da sua sorella. Miriam si avvicinò
alla principessa e le fece una domanda che in realtà non era tale, ma
un suggerimento per risolvere la situazione: "Devo andare a
chiamare per te una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te
il bambino?". Con questa soluzione la sorella prepara velatamente l’incontro
della madre con suo figlio. La ripetizione della espressione "per
te" dopo i verbi andare a chiamare e allattare fa pensare a una
persona che è posta al servizio di un’altra (la sorella al servizio
della principessa). Ma i due "per te" sono "per noi"
(per me e mia madre). In altre parole, la soluzione proposta dalla
sorella è adeguata a tutti. Dunque, grazie a sua sorella, Mosè sarà
salvato dalla morte.
La principessa accetta la proposta senza vacillare e
risponde con un ordine tipico della sua categoria sociale: "Va’"
(v.8). E’ chiaro che le due azioni compiute dalla sorella: porsi ad
osservare (v.4) e cercare una balia (v.8) determinano il destino di
Mosè. Dice il testo: "La fanciulla andò a chiamare la madre del
bambino". C’è una fine ironia nella espressione "la madre
del bambino", perché la balia degli ebrei è in realtà la madre
biologica del bambino.
Dopo questo intelligente intervento, Miriam sparisce
completamente dalla scena e da questo momento in poi gli eventi si
sviluppano velocemente e sempre con un tocco di ironia. Per primo, la
principessa decide di pagare una certa quantità di danaro alla madre
del bambino in compenso alla sua fatica di allattarlo. La madre non
parla, però accetta l’ordine della principessa e allatta il bambino.
Possiamo dire che in certo modo Mosè viene adottato (si discute sulla
legalità di quest’azione) e infatti riceve il nome dalla madre
adottiva (si discute anche sul nome, perché il nome è egiziano, ma la
sua spiegazione è fatta a partire da una etimologia ebraica). Comunque
sia, il liberatore di Israele, fu cresciuto nella medesima casa dell’oppressore,
nel palazzo del faraone, sotto la custodia della principessa.
La storia ha un "happy end" grazie a una
donna senza nome, una donna che appare sul palcoscenico biblico dal di
dietro, senza una genealogia che la protegga, senza un annunzio della
sua nascita o di un rituale per porle il nome; un nome che del resto non
ha, al meno nella nostra storia. Appare in silenzio e riesce a unire due
donne (due madri) molto diverse per uno stesso scopo: salvare la vita di
un bambino. Dopo aver compiuto la sua missione, la nostra protagonista
se ne va in silenzio. Umanamente parlando, la storia dell’Esodo deve
il suo inizio non a Mosè ma a Miriam e alle altre donne che l’hanno
aiutata. La pazienza di Miriam si è convertita in speranza, speranza di
vita per il bambino, per sua famiglia, per il popolo dì Israele, e
infine, per tutti noi che ancora oggi nel 2001 rimaniamo: colpiti da
questa storia e da questo straordinario personaggio.
Se potessimo parlare anche di Sefora (in ebraico,
uccello), una delle figlie di Raguele, la moglie di Mosè, allora
avremmo un elenco completo delle donne nella vita di Mosè.