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Dove sta andando l’Europa del nuovo
millennio e dell’euro? L’arrivo della moneta unica non rischia di
nascondere problemi e disagi, angosce e patologie gravi non ancora
chiarite? Cosa significa questa ondata di spiritualità che tutto
pervade, ma che allo stesso tempo niente risolve?
La sera del 9 novembre 1989, mentre il
muro di Berlino veniva sbrecciato e distrutto, lì accanto il grande
violinista Rostropovic suonava alla Primavera di J. S. Bach. In quel
muro che crollava e in quella sonata eccezionale c’era tutto il peso e
la simbologia di un evento epocale che segnava il punto di non ritorno.
Tutto si dissolveva con una rapidità incontrollabile e tumultuosa, come
fosse un’architettura di cartapesta.
Era la fine "simbolica" di un
isolamento imposto e difeso con le armi e la prepotenza. L’arte di
vivere da europei era anch’essa rimasta in situazione di divisioni e
risentimenti drammatici, congelati per decenni. E si ricominciava da lì
a ridefinire la vita da europei, disegnando di nuovo la mappa geografica
e culturale, religiosa ed etnica, turistica ed economica, e anche
pastorale e spirituale. Nel Sinodo per l’Europa del 1991 c’è stata
la riscoperta di volti resi invisibili per decenni; ma nel secondo
Sinodo per l’Europa del 1999 altre erano le storie e i temi: una
democrazia affaticata, una speranza fragile, una frantumazione del
patrimonio religioso.
Purtroppo entro le centinaia di
resurrezioni etniche e religiose, disordinate e tumultuose, l’Europa
negli anni novanta ha rischiato di lacerarsi da capo. Come una vecchia
tovaglia rimasta a lungo ripiegata, che si lacera nelle pieghe quando la
riapri: è la risorgenza di antichi conflitti mai superati, ma solo
nascosti. "La libertà è diventata una realtà terribilmente
pesante" (Cingiz Ajtmatov).
Ma era la situazione fino all’11
settembre scorso: da quel giorno gli scenari sono tutti sconvolti e
incerti. Se nel 1989 Francis Fukuyama parlava di "fine della
storia", dopo l’attacco terroristico al World Trade Center – il
cuore della economia mondiale – ora Sam Hungtington parla di
"scontro di civiltà" (the Clash of Civilizations). Prima
erano le ideologie a generare conflitti, oggi sono le culture e le
religioni. E così tutto si rimescola e si contraddice, anche da noi in
Europa. Forse ancor più che nella stessa America.
Cambio rapido di scenari e sfide
Non è rimasta esente da questi cambi la
spiritualità: cioè il mondo delle esistenze in cui lo Spirito santo
lavora per plasmare fedeltà creativa al Cristo e per sollecitare
cammini di libertà e di nuova fraternità. La stessa parola
"spiritualità" era pronunciata con imbarazzo, oggi la si
pronuncia con compiacenza e quasi con orgoglio. Ma dubito che si potrà
continuare a farlo.
Solo qualche decennio addietro - nel
decennio del post-Concilio - ci si vergognava di usarla, perché
alludeva a un mondo poco serio e molto emotivo. Sembrava a tutti
plausibile e inevitabile una prolungata era di secolarizzazione: con l’emarginazione
della religione, dell’esperienza vibrante e dell’organizzazione
religiosa ad elemento secondario, privato, senza vero peso sociale.
Quello che i regimi violenti non
riuscivano a fare con la prepotenza e la persecuzione, pareva
realizzarsi, senza crudeltà apparente, con la nuova modernità. Una
lenta e inesorabile morte della visibilità religiosa era da tutti
preconizzata senza il minimo dubbio. Anzi perfino auspicata come
necessaria premessa per una "fede adulta" (D. Bonhoeffer),
oltre le abitudini "religiose".
Ora le avanguardie non sono i negatori
della religione, ma i nuovi profeti della mistica, della trascendenza,
di una religione cosmica che recuperi perfino le antiche forme pagane.
La sfida attuale non sta nel riuscire ad elaborare discorsi da chierici
per distinguerci ed etichettare gli altri. La vera sfida attuale è
proprio quella di discernere quello che è genuino e valido in mezzo a
questo affollamento di proposte ed esperienze dette
"religiose" o "sacre" o "profonde" o
"trascendenti". Il lessico è sfavillante e vario, come si
addice ad ogni consumo trendy.
Un vento che trascina naufraghi
Il nuovo millennio si è aperto con un’ondata
gigantesca di nuovo spiritualismo: a cui non ha contribuito solo un
certo recupero di autorevolezza e di molta visibilità del
cattolicesimo. C’è anche il nuovo vigore missionario delle altre
tradizioni religiose, come l’islam e l’induismo.
Si pensi alle giornate della Gioventù a
Parigi (1997) e soprattutto a Roma (2000), o anche al pellegrinaggio
dell’induismo indiano al Gange (che radunò in pochi giorni più
pellegrini che tutto il Giubileo a Roma). E si pensi anche alle folle
immense che visitano la Mecca, di continuo. Ma si pensi anche alla
diffusione pervasiva di tutte le forme del New Age: la si ritrova
dovunque, come dolce seduzione e come nebulosa che affascina. Ma poi
quando cerchi di delimitarne l’efficacia, non sai come stringerla. E’
come voler tracciare la mappa delle nuvole: cambiano sempre.
Si potrebbe parlare del neo spiritualismo
come di una spiritualità scatenata, in cui si associano crisi culturale
e cultura dell’io, immagine polimorfa di Dio e biografia fai-da-te. La
razionalità moderna che sembrava dominare e non solo coordinare tutto,
si trasforma da un lato in metanetwork che tutti collega, e pone on line
la vita di tutti quasi senza più segreti né libertà di movimenti e
scelte. E dall’altro favorisce la voglia di fuga, il bisogno di nuova
privacy, di nuove relazioni interpersonali fuori dagli schemi e dalle
convenzioni. E’ anche lo stesso humus su cui vigoreggia il
neo-fondamentalismo: che non disdegna alcuni strumenti della modernità.
E così aumentano i naufraghi dello
spirito alla ricerca di altre sensazioni e altri incontri. Quanti sono
alla deriva come su zattere on line! Il nomadismo telematico
"naviga" tra culti e tecniche, senza mai approfondire né
approdare davvero. Insegue l’ombra fuggente del sacro, senza mai
agguantarla. Oppure la vuole rendere fissa, rigida, senza nessuna
inculturazione.
In realtà è un "surrogato"
che sembra per tanti dare una nuova identità, fluida, intercambiabile;
oppure una sicurezza in un mondo troppo sconnesso e senza semafori. Di
fatto poi è un labirinto, dentro il quale perdersi è come ritrovarsi,
senza mete né uscite, senza riferimenti né soluzioni. Vagabondi per
caso, ma alla fine è proprio questa la nuova identità: un fluire senza
punti fermi, una sensazione oceanica che già i mistici avevano sentito,
ma con altro significato. In realtà i più fortunati nuovi pescatori d’anime
sono proprio i servers dell’internet, con i loro portali e i loro
infiniti links.
La religione del cuore ferito
Possiamo parlare di una "religione
del cuore ferito", assetato di felicità. I nuovi
"credenti" in Europa - ricomincianti o no - sembrano
visibilizzarsi in questa folla immensa di credenti in un Dio vago,
cosmico, pure pagano. Che anzitutto risponde alla sete di felicità, al
bisogno di relazioni calde e gratificanti; ma che allo stesso tempo non
imponga divieti e obblighi, dogmi, norme o rappresentanti.
E’ il dominio del culto insieme
politeista e polimorfo, ampio e molto individualista, flessibile e
sincretista. Esso fa della trascendenza un oggetto da consumo, e dell’inquietudine
personale un luogo per tutte le divinità, come fosse un panteon. La
salvezza oggi si chiama "felicità", non più redenzione,
almeno guardando alla nuova ondata di religione.
E connesso con questo però, c’è un
altro aspetto della fenomenologia religiosa e spirituale che vorrei
richiamare. La manipolazione narcisista o paneconomica dell’esperienza
del divino (anche di certe "forme" di Dio). Il "ritorno
del sacro" tante volte mostra non la presenza di Dio, ma la sua
assenza invadente e il suo silenzio assordante. E il parlare di Dio
diviene pura proiezione isterica, angosciata o patologica del proprio
inconscio. Sono stati d’animo, non messaggi veri, quelli che si
proclamano in tante comunità che si reggono con lo stile dell’happening.
C’è un bisogno coercitivo di "un’altra
dimensione", perché la vita è troppo assurda, perché le tragedie
sono senza spiegazioni. Di fatto questo "dio" (tra virgolette
e minuscolo) riempie questo vuoto esistenziale e la sua assurdità
caotica e angosciante. Col rischio di favorire un esibizionismo furbo e
opportunista; e con il pericolo di debordare nella pura superstizione o
nel fideismo gratuito e idolatrico. Giustamente scrive J. B. Metz, la
crisi di orientamento del nostro tempo è in realtà "crisi di
Dio": perché riduce il concetto di Dio ad un "mio"
orizzonte (Dio per me), mentre dovrebbe essere quello di "Dio per
il mondo".
Dio assenza bruciante
La grande corrente apofatica sembra
dimenticata nel nuovo spiritualismo: anzi scacciata come irriverente
verso un Dio così disponibile, alla mano e à la carte, ubiquitario e
pronto uso, senza bisogno di istruzioni. Proprio questo
"esibizionismo" di un Dio in tempo reale, mi pare segno di un
bisogno irriverente e immanente da soddisfare, comunque, in mancanza di
meglio. Si spingerà mai questa forma religiosa oltre il gioco degli
specchi, che rimandano se stessi all’infinito? Come superare la
biografia religiosa fai-da-te?
Per paradosso nella sua presenza
pervasiva, tipica di certe correnti spirituali così invadenti, Dio si
mostra ancor più altro, l’assente, il totalmente Altro. Dio non è
là, è altrove: là c’è solo il suo simulacro, una pantomima
irriverente. E’ una teologia sub contrario. Una fede che pensa e
indaga, una fede che tace e non ha risposte, sembra fuori gioco oggi: ma
forse è proprio qui uno dei nodi per il discernimento.
Questa assenza bruciante, questo silenzio
di Dio in un contesto di angoscia mortale e di prepotenza
istituzionalizzata, troppo velocemente la si riempie di un
"divino". Questo "divino", comunque sia, deve dare
senso e consolazione. La risposta è certamente deviante molto spesso;
ma la domanda è giusta e autentica. Mi viene in mente il quadro di E.
Munch: Il grido. Quella bocca spalancata nell’urlo insieme disperato e
implorante, mi pare un simbolo teologico.
Dio è assenza bruciante, Dio è presenza
viva là dove domina solo l’urlo assoluto. Non nella risposta
immediata, ma nell’eco cosmico di quel grido. Tornare al vuoto, al
muto silenzio, alla notte senza luce, alla soglia del mistero, senza
presumere di manipolarlo: questa è una sfida per la nostra
spiritualità nella postmodernità.
Nei solchi dell’Alleanza
Scriveva il filosofo danese S.
Kierkegaard: "La nave ormai è in mano al cuoco di bordo e il
megafono non trasmette più la rotta, ma ciò che mangeremo
domani". Voleva dire che manchiamo del tutto di progetti e di senso
per la vita. E’ esattamente questo gap che in tanti lamentiamo:
andiamo avanti come capita, inventando il presente, senza grandi
progetti per il futuro. Stressati per mille futili cose, incapaci di
abitare gli orizzonti. E forse anche incapaci di riconoscerli: perché
sprovvisti di profeti e poeti, e in mano ai pragmatisti del concreto ed
efficace.
Oggi i cuochi di bordo sono gli
economisti della Banca europea, sono gli analisti dei parametri di
Maastricht, sono gli esperti di Wall Street e di tutte le borse. Essi
mandano su e giù non solo le monete, ma anche le speranze di riscatto
dei continenti più deboli e dei poveri di tutto il mondo. Come se si
trattasse di numeri del Bingo e non di esseri umani, con emozioni e
sofferenze.
Allora il problema urgente è prendere in
mano il megafono, non i fornelli della cucina: per dare segnali di
rotta, non solo ordini per il menu del giorno o le riforme fiscali. Per
segnalare cioè sensi propri alla vita. Quei sensi per i quali vale la
pena vivere da protagonisti e non da consumatori o spettatori annoiati.
Un poeta tedesco invitava: "Giorno e notte, un fuoco divino ci
spinge ad aprire la via. Su vieni! Guardiamo nell’aperto, cerchiamo
qualcosa di proprio, sebbene sia ancora lontano" (Hoelderin).
Occorre uscire, rischiare: andare verso il largo, come invita il papa
nell’ultima lettera (Novo Millennio Ineunte, 58), per un esercizio
ampio della libertà creativa, della fedeltà dinamica.
Certamente si tratta di rischiare il
largo, dove le acque sono più profonde e i cieli appaiono più ampi. La
globalizzazione che danza alle nostre porte e ogni giorno sconvolge
abitudini e sicurezze, per metterci in gioco nel vasto mondo, è insieme
rischio e chance. La Chiesa, come serva e testimone dell’Alleanza
nuova e universale, può diventare ora interprete nuova delle sue
esigenze e vigilare perché non si instauri una universalità oppressiva
e manipolatrice.
Guarire le ferite di relazione
Ma non per questo viene meno il valore
del frammento, del locale, del gesto minore, che ha forza simbolica di
universalità. Bisogna anche abitare gli interstizi, le fessure, che
sembrano solo accenni di spazio, e possono diventare invece il luogo del
gesto più profetico.
Penso in questo momento alla scena del
papa davanti al Muro del Pianto a Gerusalemme: solo, bianco, curvo, in
silenzio. Poi si avvicina, con un piccolo foglio in mano: in quel
momento fa suo un gesto che ogni pio israelita desidera fare davanti a
quelle pietre enormi, consunte dal tempo. Ecco in quegli interstizi il
papa ha deposto il pentimento della Chiesa e l’invocazione di una
nuova alleanza. Il più umile dei gesti - comune a tutti gli altri - è
diventato il più sublime, il più eloquente, il più liberatore.
Ha così instaurato fra ebrei e cristiani
una nuova identità, con cuore implorante e adorante, come il Padre
cerca (cf Gv 4,23). Ha dato con questo simbolo una lezione enorme,
pacificatrice e implorante, ad una umanità atrofizzata dalla sua
memoria ferita, dalla sua incapacità a fare pace fra i figli di Abramo,
dalla sua mancanza di profezia disarmata e penetrante. In un gesto del
genere si riassumono secoli negativi e decenni positivi: e si propongono
progetti di nuova fraternità.
Così dovrebbe saper fare la
spiritualità oggi. Affrancare il desiderio da tutti gli ostacoli del
formalismo, della vergogna, dei fallimenti. Per lasciar emergere le
ferite di relazione, e guarirle non con gesto magico, ma il più umile,
proprio della religiosità popolare, che esalti il dialogo, i silenzi di
attesa, la paziente scoperta dei sentieri che hanno portato al
fallimento, i gesti simbolici carichi di stupore e libertà. Per guarire
il cuore bisogna instaurare nuove relazioni, gratuite, rispettose, che
interrogano non per indagare, ma per abbracciare e avvolgere di
rispetto.
Segni poveri per una nuova storia
La spiritualità non è un discorso sull’anima,
né su una profondità generica o uno spirito vago. E’ riconoscere all’opera
lo Spirito del Figlio. Lo Spirito innalza non genericamente, ma modella
secondo l’archetipo Gesù di Nazaret. Non può pertanto che essere un
sapiente lavoro di accordatura fra tradizione e nuovo inizio: a Nazaret
il Redentore ha appreso la sapienza delle tradizioni, ha gustato il
pianto e il canto dei profeti, ha sentito narrare la memoria di un
popolo nomade e pellegrino, in cerca di casa e di pascoli.
Quel linguaggio di una esistenza sul filo
dell’anonimato e del quotidiano, non è la premessa di tempi pieni,
non è solo una preparazione alla redenzione: è il luogo più tipico e
proprio del dialogo della redenzione. E’ lì che avviene la tessitura
quotidiana dell’agape: e lì splendono le virtù più comuni, ma anche
più preziose della "forma ecclesiae", come diceva in una
poesia Teresa di Gesù Bambino.
Bisogna ripartire da questa situazione
della presenza di immersione, della assimilazione senza fretta del
vivere umano. E’ quello il grande archetipo dell’identità: la
compagnia, la vicinanza, lo stare in mezzo a tutti, vivendo con serietà
la vita di tutti. E’ il lato positivo dell’invenzione quotidiana di
valori e opzioni, che il tempo intesse in un progetto più ampio.
Siamo in una stagione caratterizzata dall’indebolimento
del pensiero e dall’esibizionismo mercantile delle esperienze
religiose come se fossero gadget in omaggio a chiunque. Quel gesto del
papa, sopra ricordato, si pone come criterio di giudizio e di
discernimento: come appello a una fede che ama la terra e la abita con
gratitudine e serietà, senza morire di conservazione, ma con coerenza
creatrice.
Proprio in quella scena si fondono la
memoria solenne delle pietre del Tempio, e la coerenza creatrice, che è
azione vitale, liberatrice, fatta di fantasia e poesia. Non è la
teologia dello splendore, ma lo splendore di una fede umile e
implorante, di una presenza divina percepita pellegrinando come tutti i
pii del popolo dell’Alleanza. Solo la fede può rendere visibili e
pieni di senso i grandi sogni, pur contenuti in biglietti modesti,
deposti nelle fessure delle pietre e della storia.
Testimoni dell’estro di Dio
Nella sua lettera postgiubilare il papa
ha invitato ad avere "occhi penetranti e cuore grande" (NMI
58), per attraversare i giorni e gli anni del nuovo millennio cercando
il volto del Signore. E per servirlo con l’immaginario della carità e
la serena disponibilità all’ascolto di fronte alle nuove sfide. Solo
così non si sarà né finti acrobati né rassegnati nani. Non saranno
gli dei del neopaganesimo a guarirci, ma neppure questa equivoca
rinascita religiosa a darci il sapore della vita. Dio non può essere
una specie di protesi malriuscita per le nostre angosce zoppe. Purtroppo
il neospiritualismo ha tutte le parvenze di una protesi consolatoria.
Per essere quei tenaci costruttori dell’Alleanza
nuova e dei sentieri profetici del Regno, ci stiamo rendendo conto che
bisogna sfidare e superare i modelli esclusivisti e statici di riferirsi
a Dio e di proporne l’incontro. Dice la lettera agli Ebrei: "In
molte circostanze e in molti modi Dio ha parlato ai padri per mezzo dei
profeti. Da ultimo ha parlato per mezzo del Figlio…" (Ebr 1,1s).
Ora questa continua creatività di linguaggi e uso delle circostanze da
parte di Dio, fino alla più sorprendente di tutti le forme nella carne
del Figlio - pieno di gloria e di verità (cf Gv 1, 14.16) - non può
essere accolta solo per farne una ordinata antologia, che organizzi la
varietà.
E’ questa grammatica, piuttosto, che
condiziona ogni nostro parlare di Dio e dell’incontro con lui. Bisogna
cioè dar risalto alla varietà di forme e linguaggi, di persone e
culture, di memorie e progetti. Dio è stato ricco di estro, di
originalità, di inventiva, sorprendente fino a sconcertare. Il profeta
parla di "Dio misterioso" (Is 45, 15), che rifiuta concetti e
figure rigide, eppure è anche "Dio dei nostri padri, Dio di
Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe" (Es 3, 4; 1Re 18, 36). E’
proprio questo estro di Dio che ci occorre oggi. Viviamo in un contesto
di fantasiose possibilità di variazioni, in una cultura dove domina il
simbolico, l’immagine cangiante, la creatività più destrutturante.
Ma il linguaggio teologico e spirituale sembra spesso preferire lo stile
ripetitivo e noioso.
Ha scritto un teologo ortodosso che vive
a Parigi: "Dopo secoli di inaridimento, ritorna il tempo di un
cristianesimo creatore di bellezza. Viene il tempo di un cristianesimo
di trasfigurazione, in cui la bellezza non sarà più simbolica, ma lo
svelamento della realtà" (O. Clement). Ecco gli orizzonti che
bisogna segnalare e abitare: non quelli del molto fare ed esperimentare,
ma quelli che si raggiungono per i sentieri dello sguardo estetico,
simbolico, iconico, dossologico.
Saper cambiare schema
Si tratta di parlare di Dio in forma
dossologica, non puramente rituale e formale: lasciando che anche il
corpo usi il suo linguaggio, con la danza, il vestire, il canto, la
musica, l’improvvisazione, il silenzio, la fatica. E’ in questo
parlare dossologico che ormai gli eventi ecclesiali incidono, meglio dei
discorsi solenni e rigorosi. La tenda provvisoria dice più delle grandi
basiliche, la liturgia pomposa e teatrale non risponde alla fruibilità
semplice e popolare, la religiosità carica di simboli e partecipazione
spontanea coinvolge più dei cerimoniali compassati e vigilati dalla
guardie svizzere.
Abbiamo bisogno di tende sulle strade che
percorrono oggi uomini e donne in migrazione continua, non solo
geografica, ma spirituale, religiosa, culturale, antropologica,
simbolica. Nessuno più si sente - salvo frange isolate - sicuro dove
sta e con quello che ha. Fare domande, grandi domande è più saggezza
che avere sempre delle risposte pronte.
Forse in questa costante capacità di
interrogare e di interrogarsi, la religione e la spiritualità avranno
una chance in più per dialogare con i contemporanei. Il lavoro di
accordatura dei frammenti e dei tessuti sfilacciati, con soluzioni
provvisorie e continui rifacimenti, è efficace e ispira la vita, più
che la proposta rigida di affermazioni teoriche complicate e barocche.
Il Dio dell’esodo e quello dei profeti,
il Dio dei sapienti e quello degli oranti è un Dio che di continuo
rifà lo schema, cambia prospettiva, sorprende con nuovi incontri, nuovi
sogni, fa "cose nuove" (Is 43, 18s). E alla fine della
rivelazione anche gli ultimi scritti ci ricordano che alla chiusura
della storia, ci saranno "cieli nuovi e terra nuova"; e non ci
saranno più né strutture sacre (il tempio) né città murate (le
strutture sociali), ma solo l’Agnello redentore e la "sposa
bella" (Ap 21-22).
Dovremmo tornare a questa esperienza di
Dio, a questa "vita nello Spirito" che è creazione e
profezia, vita e vento, fuoco e fonte, bellezza, canto, sogno. Purtroppo
siamo invece spesso - noi spiritualisti - in adorazione della memoria
del passato, inginocchiati davanti alle urne dorate, dove dormono
"vecchi dei" avvolti in sudari ricamati…
"Lo Spirito vi guiderà alla
verità tutta intera" (Gv 16,13)
Lo Spirito esegeta della memoria ma anche
profeta di nuovi cammini, è forse la prospettiva più dinamica che io
trovo nella missione della Chiesa. Lo si vede in atto nelle molteplici
esperienze che si definiscono di "spiritualità narrativa". Si
tratta delle proposte dei nuovi movimenti ecclesiali, centrati sulla
spiritualità condivisa a partire dalla Parola, dalla liturgia, dalla
comunione fraterna.
Ma vi rientrano anche le nuove forme di
comunità monastica, i molteplici centri e inziative di incontro fra
tradizioni religiose differenti, la varietà dei gruppi di terapia
spirituale, le nuove esperienze di risveglio della coscienza femminile,
della spiritualità ecologica, della religiosità popolare, della
sensibilità artistica, ecc. Si tratta anche di questa fame della Parola
di Dio che si manifesta nella pioggia di iniziative che vanno sotto il
nome della "lectio divina".
E’ un agitarsi dal basso, che fa vivere
i grandi principi e li mette in feconda tensione con la prassi.
Certamente in alcuni di questi gruppi e in questi avvenimenti di massa c’è
il rischio dell’estetizzazione del quotidiano, cioè dell’esibizionismo
narcisista e del raccontare il proprio vissuto come se fosse una
rappresentazione sacra. Ma senza questi percorsi nuovi le grandi scelte
del Concilio sarebbero rimaste fragili e confuse, incapaci di fecondare
la vita dei credenti, e solo oggetto di studio accademico.
Mi pare soprattutto che in questa nuova
stagione aggregativa (Cf L 29) la memoria non è puro riporto statico e
caotico, ma qualche cosa di ispirativo, e tutto viene ripreso con una
recezione selettiva. E la progettualità non è semplice e
sconclusionata rottura degli schemi, ma laboratorio di nuova
spiritualità, di nuova sintesi fra teologia e vita, fra prassi
cristiana autentica e percorsi antropologico-culturali.
A mio vedere resteranno paradigmatiche
queste esperienze, se eviteranno la tentazione, appena i loro leader
fondatori scompariranno, di tornare là da dove erano partite. Se
sapranno cioè evitare la pura pura riformulazione terapeutica delle
origini, per un bisogno di identità rassicurante. Piuttosto
continueranno a mettere in gioco la creatività e il rischio: per
tendere alla verità più ampia, sulle strade del futuro, a partire dai
luoghi e dagli interstizi del presente.
Lo Spirito non è
"manutenzione" ma "filtro creativo"
Io vedo lo Spirito creatore e profeta in
azione là dove non ci si limita alla pura manutenzione delle
"pratiche di pietà" e degli obblighi spirituali, ma si
esprimono anche nuove forme di "consacrazione", di
condivisione dei carismi e delle spiritualità. Dove si vivono nuove
esplorazioni di modelli e linguaggi spirituali, specie per chi
"cerca come a tastoni" un senso nuovo per la sua fede
ereditata e per i sogni di nuova umanità.
Quello che ha fatto per esempio la
comunità di Taizé in questo mezzo secolo - con la sua forma di vita,
ma anche con la sua "animazione" spirituale delle giovani
generazioni - fa ormai parte del patrimonio europeo ed è di grande
valore. E’ questo che io chiamo la coerenza creativa della memoria:
perché non è semplice riporto di frammenti, non più comprensibili e
inutili. Non è dominante il mito del passato, sempre migliore del
presente e del probabile futuro.
Non sono pochi coloro che di fronte alle
sfide del presente caotico e del rimescolamento di tutte le carte
rispondono globalizzando la memoria, di cui studiano ogni particolare.
Come se nei nuovi areopaghi del tempo si potesse entrare con arche
sante, dove dormono quei vecchi dei avvolti in sudari d’oro, di cui
già accennato. Le risposte fondamentaliste o puramente archivistiche
sono certamente in giro: ma la loro sorte è segnata. Perché credono di
avere la soluzione in mano, prima ancora di sapere quali sono le domande
e quali i problemi da sciogliere.
La via di uscita è un’altra. Entra qui
in gioco quello che i nuovi filosofi chiamano "il filtro
creativo": cioè quella capacità di selezione che mira a cogliere
nella memoria i semi di futuro non ancora sviluppati. E’ la capacità
di riconoscere le possibilità inedite e le intuizioni, castrate sul
nascere da circostanze e pregiudizi, ma ora recuperabili e coltivabili
con maggiore humus recettivo. Questa operazione, per stare nell’ambito
della spiritualità, non è possibile né feconda, se non sotto la guida
dello Spirito Santo. Egli svela nella memoria la consistenza dei suoi
contenuti, ma anche apre nuovi orizzonti da abitare e verso i quali
incamminarsi con audacia e fiducia.
La verità è "altrove"
"Non è dal modo in cui mi parla di
Dio che io vedo se uno ha abitato nel fuoco dell’amore divino, ma dal
modo in cui mi parla delle cose terrestri. La verità della fede si
misura sulla verità e la bellezza della vita che suscita" (S. Weil).
Il problema della spiritualità che sta nascendo e quotidianamente
rinasce - perché la spiritualità o è vita e dinamismo, o non è
affatto spiritualità cristiana - non sta pertanto nella lista delle
cose da fare o degli impegni da assumere. Non sta nemmeno nel catalogare
il successo delle nostre edizioni o nel passare in rassegna i nuovi
studi sui grandi maestri. Ma in questa passione totale e perfino
estetica per la vita. Perché questo in fondo significa la memoria di
Cristo nella storia.
Quella sollecitazione a navigare al
largo, che il papa ci ha fatto, quell’invito a gettare le reti dove le
acque sono più profonde, più che annunciare una nuova stagione quasi
parossistica di opere e attività apostoliche, è invito ad andare oltre
l’emotività negativa, la delusione e la notte sprecata (cf Lc 5,5).
Per scandagliare sempre da capo le profondità dello smarrimento del
cuore umano, e tirare a galla confusi e indecifrabili timori; ma anche
per provocare la generosità di "lasciare tutto" per seguire
il Signore Gesù.
Questo sarà il futuro della
spiritualità in Europa: guarire le relazioni ferite, accettare il
rischio di navigare in acque ampie e profonde, ritrovare la coerenza
creatrice della memoria, indicare ragioni di vita e stimolare il
discernimento corale. In una parola o sarà una sapienza orientatrice
che suggerisce nuovi orizzonti e stimola a conoscerli per abitarvi, o si
ridurrà a pura manutenzione di memorie gloriose ma rinsecchite e di
esigenze standardizzate, senza futuro e senza libertà interiore.
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