n. 12
dicembre 2002

 

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C'È UN TEMPO PER...
di Maria Pia Bonanate
 

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«C’è un tempo per serbare
e un tempo per buttare via» (Qo 3,6)

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I nostri nonni e genitori, le generazioni che ci hanno preceduto, hanno trascorso la loro esistenza a conservare tutto quanto con fatica erano riusciti a conquistarsi, dalla casa acquistata con tanta sacrifici, agli oggetti che via via l’arricchivano di comodità e di un qualche benessere.

Si era consolidata nel dopoguerra una «religione della conservazione» che testimoniava la rinascita e la ricostruzione dalle macerie del conflitto in cui tanti avevano perso tutto. Ispirava uno stile di vita e di comportamento che ha permesso all’Italia della gente comune di crearsi delle sicurezze molto importanti per un progresso sociale che ha portato un generale miglioramento della vita. Anche perché il significato di questi risparmi, della cura di quanto si era ritornati a possedere, o si possedeva per la prima volta, non era soltanto un fatto economico. Era legato a una idea di vita presieduta da principi etici, a cominciare dal valore del sacrificio e della negatività dello spreco, un’idea ereditata dal passato, ma importante per non interrompere il filo d’intesa e di apprendimento con le generazioni precedenti.

 Poi è arrivato il ciclone del consumismo con i suoi meccanismi distruttivi, con la sua filosofia dell’usa e butta, con il suo stile di vita legato a una precarietà che ha tolto ogni significato positivo all’azione del conservare e cancellato ogni consistenza alle cose.

Siamo diventati schiavi e dipendenti di una cultura del possesso che ha creato una corsa all’uso affannoso non soltanto delle cose, ma anche dei rapporti con gli altri, delle situazioni, delle persone. Siamo diventati dei precari della vita senza passato, senza presente, in attesa di un futuro confuso.

 «C’è un tempo per serbare....» E’ venuto il momento per riscoprirlo e rimetterlo in pista. Contro la precarietà del vivere, del consumare e bruciare emozioni, rapporti, situazioni, sentimenti e anche oggetti.

Serbare per riempire quella cassaforte della mente e del cuore, quel tesoro di pensieri, di affetti e di relazioni umane che è indispensabile alla costruzione delle persona e a un progetto di vita che non voglia edificare sulla sabbia, ma su un terreno consolidato dalla presenza di significati e riferimenti importanti. Per investire in un incontro, magari casuale, che ci ha regalato un’amicizia, un volto, una storia, ricca di stimoli e di scoperte; per far crescere dentro di noi una conoscenza approfondita di una situazione nella quale possiamo trovare aiuti per crescere e per progettare scelte e comportamenti; per tesaurizzare emozioni e sentimenti che sono fondamentali per ridarci quello spessore umano e anche intellettuale, quella ricchezza del cuore che abbiamo smarrito.

 Il tempo del serbare chiede pause e meditazione, valutazione e scelte. Suggerisce di ritirarci nel retroterra delle nostre azioni, dove il significato vero e autentico del vivere e del morire, illumina di una luce eterna il nostro breve passaggio sulla terra.

Dove dobbiamo ricominciare a imparare a leggere ciò che vale e ciò che non vale, in compagnia di quel patrimonio messo a nostra disposizione dagli altri, da chi ci ha preceduto e da chi ci vive accanto, fondato su quella Parola che deve essere «serbata» preziosamente nel tabernacolo del nostro cuore, come fonte continua di ispirazione e di verifica.

 Ma anche il «buttare via» che pratichiamo in modo così insensato deve correggersi in un’ottica diversa.

Oggi viviamo tutti mascherati. Ci nascondiamo dietro alle maschere che ci hanno imposto o che abbiamo scelto di indossare per far parte del grande ballo della società che premia soltanto chi è ricco, forte, potente, sano, e bello. Il nostro vero essere è sepolto sotto sembianze che non ci appartengono, ma sono l’espressione di quello che gli altri vogliono che siamo. In casa, in famiglia, sul lavoro, nelle istituzioni, nella vita sociale, politica e anche religiosa. Ci siamo ritrovati un po’ tutti, in un giorno della nostra vita, a guardarci nello specchio e a non più riconoscerci. Il nostro viso, i nostri occhi, sono scomparsi dietro a una maschera, imposta dalla nostra condizione sociale, dai nostri ruoli, dalla nostra acquiescenza a omologarci sui modelli di una società che, sin da quando siamo piccoli, ci impone precisi modelli vincenti.

 Una cara amica, una giovane donna che ha scoperto il significato vero della sua vita nella scelta di condividere totalmente la vita degli  ultimi in una bidonville africana, mi ha scritto: «L’obiettivo della nostra esistenza deve essere solo questo: fare il tuo passo oggi nel miglior modo possibile, dando il meglio di te stesso e delle tue possibilità. Solo credendo veramente in tutto ciò che sei e che fai, puoi arrivare a trasmettere un messaggio. Ed è questo che più conta. Non tanto le parole e le attività, le costruzioni, ma l’essere umano nella sua identità spoglia e semplice, autentica. Qui la gente non ha maschere dietro alle quali nascondersi, etichette da mettersi addosso. Non ha nulla da fingere. E’ stato questo a spogliare i miei occhi da tanti filtri, a restituirmi a me stessa».

 Oggi il tempo del «buttare via» inizia proprio da qui. Dal levarci dal viso le tante maschere che ci impediscono di vedere, di capire, di accogliere con occhi e cuore puro, mente sgombra da pregiudizi, con quella innocenza che è coerenza e fedeltà a se stessi.

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