n. 02
febbraio 2002

 

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Tra solitudine e comunione - II-
Dalla solitudine sofferta, una luce per l'esistenza
di Erminio Antonello

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La rivelazione ha portato in evidenza due elementi. Il primo, che il destino umano non è l’essere soli, ma la comunione filiale con Dio e la relazione di fraternità tra gli uomini. E, secondo, che questo destino relazionale, essendo stato turbato dal peccato, non è il sogno sentimentale di una fusione nel comodo appoggiarsi all’altro, ma si realizza attraverso il distacco dalle false immaginazioni di autorealizzazione mediante le proprie forze. Il modo filiale vissuto da Gesù, nel distacco da ogni presunzione di fare da solo, è il luogo teologico cui guardare per attuare il superamento di ogni forma di solitudine.

L’insegnamento della rivelazione rischia però, per l’incredulità umana, di essere relegato nell’ambito dell’inverificabilità delle cose astratte. Nel fondo del cuore umano infatti preme la reale e sorda sofferenza della propria e altrui solitudine. Sorge allora inevitabile la domanda se questo stato sia integrabile nell’esistenza oppure permanga come fatalità da subire? La domanda equivale a porre la questione se il fatto della redenzione umana attraverso la croce di Cristo sia un dato puramente teorico oppure sia verificabile nell’esistenza concreta?

Qui interviene la sfida propria di ogni credente e, in particolare, del consacrato. Egli con la sua vita è chiamato a testimoniare nel mondo delle solitudini umane che il momento della desolazione interiore, illuminato dalla grazia, può diventare un passaggio propizio per realizzare quel rientro autentico in se stessi, che prelude alla capacità di stabilire vincoli autentici di comunione con Dio e di fraternità con gli altri. Occorre esaminare come ciò possa avvenire.

 

La falsa soddisfazione di sé, copertura delle solitudini umane

Iniziamo con l’osservazione: da dove nasce tanta angoscia da solitudine nel nostro tempo? A mio parere dal rifiuto della solitudine come condizione ineliminabile dell’esperienza umana.

L’apparato iper-protettivo della nostra società stende un velo di onnipresente maternage su ogni bisogno e ogni problema, tentando di annegare la solitudine del cuore umano nel rumore dell’affollato “villaggio globale”. Ogni bambino che cresce nell’opulenta società occidentale cresce con l’illusione che sia possibile abolire ogni forma di sofferenza. Nella convivenza sociale l’esistenza viene stemperata nella cortesia e nella gentilezza. Questa gaia gentilezza ha le sue forme stereotipe nel volto accattivante delle commesse, nella cortesia dell’uomo d’affari o nella suadente proposta pubblicitaria.

La falsa sicurezza che sia possibile vivere senza alcun residuo di frustrazione, attutisce la capacità di accettare l’inevitabile delusione della vita. E non appena si scava al di là della facciata si scopre nel cuore dell’uomo una solitudine amarissima. Di fronte alla quale peraltro non si riesce ad esprimere niente altro che la fuga, poiché la delusione dell’insoddisfazione è pesante da sostenere.

Questa descrizione, un po’ semplicistica ma non lontana dal vero, vuole mostrare che a provocare il senso di vuoto e di solitudine è il disimpegno con la verità di sé e il contatto puramente esterno con gli altri. I rapporti con l’altro - e tra questi il primo è il rapporto con il Mistero di Dio - diventano significativi soltanto nell’ordine della verità e dell’autenticità. Se si sta insieme soltanto in ordine a cose da fare o a compiti da espletare, ma non c’è attenzione da parte nostra o degli altri alla propria interiorità personale, è allora che si fa più acuto un senso di frustrazione vitale. La solitudine è un disagio endogeno che non nasce necessariamente dall’assenza di persone vicine, ma può persino sorgere dall’eccesso della loro vicinanza.

 

Fuga dalla solitudine

Questo sentirsi soli è l’esito di una visione dell’uomo centrata su di sé. L’uomo sganciato dal rapporto con il Mistero è votato alla solitudine amara dell’esistenza. Può tentare di risolverla, proiettando la propria anima nella apparentemente esaltante avventura del fare e del possedere, ma alla fine del percorso ritrova soltanto il suo limite. Ciò sgomenta. E poiché come acutamente osserva san Tommaso “nessuno può abitare nella tristezza” (De malo, 11,4) quello sgomento è l’inizio di un’inquietudine dello spirito, che innesca la spasmodica acquisizione di qualcosa al di fuori quale antidoto al vuoto in sé.

L’uomo allora si mette in fuga. Fugge dall’essere verso il fare o l’avere. Fugge dal pensare nel parlare. Fugge dall’esistere nell’apparire. Fugge dall’autentico nel surrogato. Fugge e sostituisce. Sostituisce il nuovo al vero. Sostituisce la ripetizione all’inesauribile. Sostituisce l’effimero all’eterno. E così, in questo processo di estraneazione, l’uomo vive una forma più o meno grande di smarrimento, poiché nessuna comparsa sulla platea del mondo può competere con la dignità di sentirsi vivo dentro all’anima.

Nell’attuale cultura dell’esteriorità lo smarrimento non è più solo un momento dell’esistenza, piuttosto è diventato sistema. Un attento lettore del nostro tempo ha interpretato la civiltà della modernità occidentale con la metafora della perdita del centro.6 Smarrito il centro, la dinamica dell’essere è polarizzata sugli estremi. Il soggetto di conseguenza si trova dilaniato: tirato di qua e di là, senza un perno interiore attorno a cui far ruotare la propria anima. Anima, peraltro, totalmente assorbita dall’attività, e perciò spodestata dalla sua funzione di unificazione di tutte le sensazioni che penetrano l’orizzonte dell’esistere. La figura umana di arlecchino, osservava con un’altra efficace metafora M. Blondel già alla fine del secolo XIX, rispecchia la condizione dell’uomo nel frammentato e variopinto vestito delle sensazioni subite e delle cose fatte.7

Dal deludente panorama di chiassosità del mondo emerge un vuoto e un bisogno che restano insopprimibili nel cuore umano. E quel vuoto, nella lunga catena dei surrogati in cui si tenta di annegarlo, ritorna con tutto il suo potenziale di interrogazione sul senso dell’esistenza.

Ma che fare quando questo sentimento interviene? E’ possibile trasformare la sua carica negativa in fattore positivo di maturazione di sé?

 

Elaborazione della solitudine

La sofferenza della solitudine è un’esperienza che si può occultare e allontanare per un certo tempo, ma non eliminare. E’ una forma d’angoscia che prende l’esistenza e fa sentire se stesso inadeguato nella vita. Di fronte ad essa si aprono due strade: o la paura crescente di non potervi opporre alcuno sbarramento se non l’ingenuo tentativo di occultamento oppure la sua assunzione, riducendone l’angoscia fino a renderla produttiva. Non basta immergersi nei rapporti sociali per scongiurare questa sofferenza. Forse mai come oggi è facilmente comprensibile quanto si possa essere soli in mezzo alla folla. Occorre invece guardarsi interiormente, accettare e fare i conti con il vuoto esistenziale per approfondire la propria identità personale. Perciò la solitudine esprime la condizione umana che esige di essere assunta ed elaborata per diventare creativa.

Che lo si voglia o meno, il sentimento di solitudine accompagna l’esistenza dell’uomo, in quanto tale. Ognuno, che s’impegni seriamente con la sua dinamica esistenziale, con i suoi desideri e le sue attese, esperimenta, poco o tanto, l’insoddisfazione cui conducono i tentativi di realizzare quei desideri e quelle attese. Alla fine si esperimenterà sempre di essere soli. A meno che non si dimezzino le attese o ci si accontenti di quella soddisfazione momentanea che è però il preludio di un ricominciamento di altri desideri e attese. In un circolo senza fine, che riproduce altra umana insoddisfazione in una specie di impotente rimando a se stessi, insomma, ancora una volta, in un sentimento di solitudine.

Quando una fatica giunge al suo culmine e la gioia ricca di soddisfazione del risultato ottenuto si spegne nella noia del già visto e conosciuto, nasce l’interrogativo: A che serve? E’ chiaro allora che non si può sempre rimandare tutto al futuro, dal momento che ogni futuro diventato presente mostra di non poter colmare l’attesa ultimativa del cuore. Il cuore è inquieto. Il cuore, il povero e grande cuore dell’uomo, esperimenta sempre il momento della tristezza e della solitudine proprio perché nel culmine di un compimento o di una riuscita, come finemente osservava C. Pavese, resta sempre l’inquietudine della fine. Scriveva all’indomani del conferimento di uno dei più ambiti riconoscimenti letterari, il Premio Strega: “Hai ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca di esserlo. Eppure tutto ciò finirà”. E qualche mese dopo nel ritirarlo: “Apoteosi. E con questo? Ci siamo. Tutto crolla”.8

Non serve difendersi con una forma più o meno larvata di pessimismo scettico sulla vita. Non ci si libera da un problema sfuggendolo, ma attraversandolo.

 

Dalla solitudine alla scoperta di Dio e dell’altro

Ecco allora che il momento della delusione e della solitudine può trasformarsi in un’occasione preziosa. Quando infatti si prova la dolorosa sensazione della propria impotenza avviene un fenomeno importante nella vita. E’ il momento di spoliazione che conduce a vedere se stessi nella verità. L’io che di solito nel momento favorevole si esalta - e quindi rischia di ingannarsi -, nel momento della desolazione dello spirito ha a che fare con la giusta misura delle cose e di sé. In tale circostanza può scoprire la verità di sé.

Nella sofferenza della solitudine l’io può diventare umile e predisporsi ad accogliere l’alterità, così come la terra riarsa è attesa dell’acqua. L’uomo deve scendere negli abissi della propria solitudine e della propria miseria per liberarsi dall’orgoglio (o, come pittorescamente lo descrivono gli psichiatri, dal delirio di onnipotenza) e sgonfiarsi dall’illusione dell’auto-possesso. Solo così l’uomo può accedere alla verità di sé e venire introdotto al rapporto con gli altri.

La prova della solitudine, dunque, non è solo dannazione: mentre brucia, illumina. Porta a galla la verità profonda del cuore di essere povero e debole. Purifica da tutte le forme con cui idolatricamente possediamo il reale. Fa chiaramente vedere che cosa conta e ciò per cui vale la spesa di vivere. Porta ad evidenza la nostra natura profonda quale è uscita dal progetto di Dio, mostrando che solo un rapporto autentico con la paternità di Dio e fraterno con gli altri può realizzare la propria personalità.

Soltanto chi ha provato l’amarezza della solitudine percepisce anche la gioia di una solidarietà senza finzioni e di un rapporto che rompe la monotonia delle relazioni sociali stereotipe. Chi si sente povero può facilmente stringersi all’altro senza pretesa o presunzione. L’altro diventa in tal modo compagno alla propria stessa povertà, favorendo una relazione di reciproca appartenenza, non più in base a ciò che si può dare o ricevere, ma nella luce del medesimo destino che libera entrambi.

Anche il volto di Dio, infine, s’illumina per chi ha attraversato in prima persona l’intricato rovo della solitudine. Allora appare il volto di un Padre che porta in luce quella figliolanza che si era smarrita nella presunzione di poter esistere da soli. Un volto che sa abbracciare con lo sguardo e rispettare nella libertà: appunto, il volto di un Padre che sa amare senza imporre e aspettare senza stancarsi delle giravolte della libertà ribelle.

La testimonianza del consacrato

Al consacrato non è risparmiata la fatica della solitudine. Forse è una solitudine ancora più amara, poiché essa segnala un clima spirituale abortito. Essa nasce sovente da un’incomprensione tra fratelli che non dovrebbe esserci o da tiepidezze spirituali che rendono insipida la vita comunitaria. Forse però, se si avesse il coraggio di guardare con realismo questa miseria accostandola alla misericordia di Dio, accadrebbe un evento di rinascita della propria persona. Evento che nella vita matura occorre attendere e preparare.

Questo è il miracolo da chiedere per ogni comunità di consacrati: che si impari a leggere, alla luce della fede evangelica, la profonda forza della miseria assunta nella misericordia di Dio Padre, nella croce del Figlio amato e nell’energia bruciante d’amore dello Spirito. Per questa via può dischiudersi la forza di testimonianza di una solitudine redenta.

Nella nostra epoca così ferita nella sua umanità, un’esistenza trasformata dalla consuetudine del rapporto con il Cristo sofferente e nell’ascolto umile e generoso della propria e altrui solitudine, diventa uno spazio di refrigerio per ogni persona su cui si abbatta il doloroso disagio di sentirsi solo.

Continua

  

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