n. 02
febbraio 2002

 

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Prendersi cura del malato:
una responsabilità condivisa
di Luciano Sandrin

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1. “… e si prese cura di lui”

«La comunità cristiana, come comunità dei discepoli di Gesù, è chiamata per prima a mettersi alla scuola del Dio buon samaritano per continuare e attualizzare la sua azione risanante. Come Lui avere occhi per vedere, cuore per farsi vicino a chi soffre e prendersene cura»1. Sono parole che ci invitano a guardare al buon samaritano come modello del nostro prenderci cura del malato, ma sono anche provocazioni a un agire che ne sia oggi un’adeguata incarnazione e a una formazione che lo renda possibile.

Ma il tipo di sapere che deve guidare oggi il nostro saper fare nel mondo sanitario, non può eludere alcune domande “antropologiche” fondamentali: Chi è il partner della nostra relazione? Cosa chiede il malato che chiede di essere curato e guarito? Quale tipo di relazione dobbiamo intessere con lui per rispondere, in modo efficace, alla sua domanda di salute? A quali modelli, ad esempio, ci rifacciamo nel modulare la nostra relazione di cura? A modelli militari (combattiamo una malattia e il malato è il campo di battaglia), sportivi (non si può che vincere o perdere la partita e il malato ne è il trofeo della vittoria o il segno della sconfitta), tecnologici (legati all’efficienza dei mezzi a disposizione, non sempre nostri preziosi aiuti ma troppo spesso nostri sostituti e padroni), economici (c’è chi fornisce una prestazione e chi la deve pagare e i conti devono sempre tornare) o politici (è un luogo dove esprimiamo un servizio alla comunità o dove ci istalliamo per gestire un potere)? O, pur non demonizzando tutto ciò, la nostra relazione di cura ha un più ricco modello antropologico che la fonda e che, nel riconoscimento, non solo teorico ma pratico, di una reciprocità relazionale, ci invita a essere rispettosi della ricchezza di chi fa la domanda di cura e a essere “critici” sulla nostra (a volte riduttiva e povera) modalità di porci in relazione?

Non c’è contraddizione tra la critica di una “ideologia della tecnica” e il riconoscimento di una sua importanza per un miglioramento della cura. «Non c’è contraddizione nella misura in cui ogni forma tecnica di intervento sia immersa nel contesto di una intersoggettività radicale e di un’atmosfera psicologica e umana: che consentano ai pazienti di sentire intorno a sé, non fredde applicazioni di categorie tecniche, ma presenze umane capaci di ascoltare e di fare, contemporaneamente assistenza e terapia», capaci di ad-sistere (stare accanto) e therapeuein (servire e curare)2. La terapia e l’assistenza, però, non possono essere tali se non all’interno di rapporti in cui la dignità umana della persona malata è pienamente riconosciuta in tutti i momenti e contesti del percorso di cura.

Nel nuovo contesto socio-sanitario «in cui da una parte la persona vive il fascino della moderna tecnologia applicata alla medicina e dall’altra avverte il disagio, sia per l’impersonalità delle procedure, specialmente a livello ospedaliero e della medicina specialistica, sia di fronte al vissuto di disorientamento legato alla settorializzazione degli interventi conseguente il predominio del concetto di competenza che al massimo giunge a preoccuparsi del dolore fisico ma molto raramente delle condizioni soggettive di benessere-malessere e quindi della sofferenza, è riemerso anche qui in modo evidente il bisogno di soggettività»3.

Il malato vive spesso, sulla sua pelle, un sentimento di frantumazione, di essere guardato e curato da vari operatori sanitari, ognuno dal suo punto di vista, senza il dovuto rispetto della sua interezza. Gli viene rimandata nella relazione di cura, come in uno specchio, un’immagine frantumata e parziale. Perché la risposta curante ridia unità al soggetto che la chiede e continuità narrativa a una biografia che la malattia interrompe, c’è bisogno, anche nella relazione terapeutica, di riscoprire il modello di alleanza, di un patto in cui i due partner si prendano sul serio nell’interezza della loro personalità e dell’implicito esperienziale cui sia la domanda di cura che la risposta a essa rimandano: non solo l’interezza del malato ma anche di chi lo cura.

 

2. Un’alleanza “attenta”

Alleanza terapeutica è il nome che si può dare alla relazione tra chi soffre e chi lo prende in cura quando tale relazione è intesa nella sua dimensione più radicalmente esistenziale: all’interno di un’esperienza di malattia si solleva una domanda di cura, cui un soggetto competente promette di prestare aiuto. La malattia non è però semplicemente alterazione di una parte dell’organismo e l’impegno terapeutico non si esaurisce in un organo da far funzionare, in un virus-nemico da combattere, in qualcosa che possa venir totalmente oggettivato.

La domanda di cura, la richiesta di aiuto che il sofferente fa a chi gli sta intorno, è carica di un’attesa più ampia della semplice prestazione tecnica, è ricerca della propria vera identità e del senso che l’esperienza della malattia ha all’interno della sua vita. Rispondere alle attese del malato non può dunque ridursi alla sola offerta di servizi tecnici. La domanda di cura è richiesta da parte di chi soffre di un suo riconoscimento come persona e di una salute che gli interventi tecnici da soli non possono pienamente soddisfare4.

La persona umana è una realtà integrale, complessa e articolata espressione di più dimensioni distinguibili ma non separabili: la dimensione somatica, quella psichica, quella relazionale e quella spirituale. E tutto ciò ha profonde implicazioni nel rapporto con il malato (a livello medico, infermieristico, psicologico, tecnico e pastorale) e nel tipo di formazione che deve rendere capaci di ri-conoscere la sua unità globale, pur attraverso un approccio specialistico (e quindi dovutamente parziale) che si concentra su qualcuna di queste dimensioni.

Nell’esperienza di crisi della malattia colui che soffre viene chiamato a riscoprire la sua unità globale pur nell’emergere differenziato delle sue dimensioni, a cogliere la sua autotrascendenza ossia la sua incessante ricerca di senso che lo porta a uscire da sé stesso per andare oltre l’attuale condizione, a concepire la sua esistenza come dialogicità e relazionalità all’interno di un progetto di alleanza con Dio e con coloro che, prendendosi cura non solo della sua malattia ma di lui come malato, colgano le voci della speranza nella sua invocazione di cura e gestiscano con competenza e discrezione il suo affidarsi a loro5. Non poche volte questo affidamento dà luogo a una relazione paternalistica (e infantilizzante) se non proprio a un rapporto di potere.

Se nel parlare di alleanza terapeutica il riferimento è al modello biblico di alleanza, c’è bisogno di qualche attenzione, non ultima quella di non identificare l’operatore sanitario con Dio e il malato con il popolo al quale Dio offre la sua alleanza: nell’alleanza terapeutica tra il malato e chi lo cura ognuno dei due partner è immagine espressiva di caratteristiche di Dio e del suo popolo, della presenza del Cristo-samaritano e del Cristo-malato.

Quando la persona si ammala, e chiede aiuto, affida se stessa agli altri, mettendo nelle loro mani la sua vita e anche la sua autonomia. Il rischio è che i vari operatori sanitari si facciano “padroni della sua vita” azzerando la sua autonomia e rendendola sempre più dipendente anche sul piano psicologico e funzionale.

Aiutare, guarire o anche solo curare e riabilitare significa accettare l’affidamento della persona in difficoltà, vivendolo come temporaneo e limitato anche quando, per vari motivi, tende a durare nel tempo; vuol dire difendere la vita del paziente, soprattutto la dignità e qualità della sua vita, attenti a non mascherare dietro “il bene del paziente” la soddisfazione di qualcosa che si radica altrove, come ad esempio motivazioni, spesso inconsce, di controllo e di potere.

Nella malattia e nella disabilità la situazione di dipendenza e la capacità di essere autonomi subisce continue fluttuazioni, ma anche il bisogno di essere protetti non è sempre assoluto e definito una volta per sempre. Se la relazione terapeutica deve essere rispettosa della “soggettività” del paziente e attenta al mantenimento di una buona qualità di vita, il principio fondamentale è il riconoscimento della sua autonomia che resta sempre “possibile” anche in presenza di una dipendenza che rimane6.

Il malato è estremamente “vulnerabile”, già ferito dalla malattia e dal dolore ma reso ancor più fragile da inadeguate modalità relazionali: le “ferite” di chi cura il malato, le sue in-consistenze non riconosciute, le sue ansie, i suoi conflitti non risolti e le sue in-competenze relazionali rischiano di debordare anche in forme, più o meno celate, di controllo, di violenza e di potere.

La relazione di cura è salutare solo quando l’operatore sanitario non si identifica rigidamente nel “guaritore” ma si riconosce ferito ed è, per questo, capace di “vibrare alle sofferenze altrui”, senza indebite identificazioni, risvegliando nel paziente la sua forza di guarigione7.

 

3. Soggetti in relazione

Nel rapporto terapeutico è importante essere attenti a non “oggettivare” nessuno dei due partner della relazione. Nella ricerca di ricostruzione di un’identità che la malattia mette in crisi la persona chiede aiuto a chi lo cura. Ma se questi “riduce” (e impoverisce) la sua identità dentro un ruolo, o si fa rappresentare o sostituire dalla tecnica, non può cogliere questo bisogno di identificazione del malato. Lo obbliga, anzi, a stare dentro un ruolo - il ruolo di malato - con il quale (soltanto) sa porsi in relazione.

La relazione dell’operatore sanitario con il malato non è allora che una relazione tra personaggi (tra maschere), tra ruoli funzionali tra loro, ma non tra persone. Solo accettando la domanda di identificazione che il malato fa, l’operatore sanitario può scoprire, o riscoprire, la ricchezza della sua stessa identità, e solo così la sua risposta di cura può esprimere il ricco modello antropologico di curante che, nella persona del Cristo, buon Samaritano, il Vangelo ci affida.

Un’articolata formazione umanistica è quindi importante, ma non deve ridursi a far apprendere tecniche relazionali per convincere il malato ad aderire alla cura, ma deve aiutare a saper stare nella relazione, a essere attenti all’integralità esperienziale e comunicativa del malato senza fughe ma anche senza illusioni. È la persona-curante il farmaco principale ed è un farmaco che sviluppa la sua forza terapeutica nella relazione.

La guarigione della persona attraverso i percorsi della malattia «richiede che si ascolti non soltanto quello che preme per essere ascoltato (spesso si tratta di un’organizzazione di sintomi che fa da paravento alla vera causa del malessere, impedendo alla persona di modificarsi in profondità), ma anche e soprattutto quello che è stato “scomunicato”, cioè sottratto alla comunicazione. Si può, in altre parole, usare la propria competenza nel guarire per “tenere a distanza” ciò che è veramente importante»8, ma che può risvegliare nell’operatore sanitario il difficilmente gestibile, e quindi rimosso, mondo interiore.

Un certo uso della tecnica può rispondere nei curanti a questo bisogno di difesa. Ne deriva un regime terapeutico caratterizzato dal trascurare tutto ciò che può riportare al centro il malato, la sua storia, i suoi problemi, le sue emozioni e cioè tutti gli aspetti esperienziali presenti nel rapporto di cura. Questo è raramente intenzionale, ma porta automaticamente al risultato che (più ancora degli stress-indotti-dalla malattia) siano gli stress-indotti-dal-rapporto-di-cura a inserirsi come fattore patogeno (e fonte di sofferenza aggiunta) nell’esperienza di malattia.

C’è bisogno, se si vuole migliorare la relazione di cura, di rivedere (già a livello di curriculum formativo) il modello terapeutico di riferimento passando da un modello centrato sulla malattia, che diviene facilmente centrato sul medico, sull’infermiere o sull’istituzione a un modello centrato sul malato. Nella medicina centrata sul malato la relazione diventa un momento del processo di cura che ha come protagonista il malato, perché attenta a cogliere quali siano i significati che egli dà alla malattia, i sentimenti da essa generati, le aspettative e i desideri con cui si rivolge al medico e all’istituzione sanitaria, il contesto familiare, sociale e culturale in cui è inserito9.

E questo avviene solo all’interno di una relazione empatica in cui l’operatore sanitario è capace di decentrare il fuoco dell’attenzione da sé stesso (dalle proprie categorie mentali e dalle proprie emozioni) al malato e al suo vissuto, cogliendo anche l’implicito delle sue comunicazioni, della sua domanda di cura e del suo dolore: un messaggio in codice che non sempre viene decifrato e al quale si risponde troppo spesso in maniera puramente tecnica, senza averne prima decifrato il senso che ha per quella persona, il posto che tiene nella sua vita e in quella della sua famiglia10.

Una visione antropologica integrale della persona (e una formazione che ne tenga conto) ci aiuta a leggere la sua malattia come rottura di un equilibrio che, se pur ha la sua matrice a livello somatico, interessa la persona nella sua globalità e tocca le sue varie dimensioni. La riflessione etica, e il tipo di formazione che essa motiva, deve quindi sempre più interessarsi della difesa e promozione della vita e della salute della persona in tutto il suo percorso vitale e, quando debole e malata, in tutto il percorso terapeutico perché tutta la cura sia rispettosa del malato, della sua dignità, della sua soggettività, dei suoi diritti e doveri, primo fra tutti quello di essere partner attivo nel processo di cura e nell’elaborazione di un senso a ciò che vive.

Se l’uso della tecnica e del farmaco diventa sostitutivo della relazione impoverisce non solo il malato ma anche chi lo cura. La riscoperta del soggetto non vale solo per il malato ma anche per chi lo cura e non può non influenzare i modelli formativi che vengono proposti.

 

4. Responsabilità condivisa

Nonostante nuove definizioni e dichiarazioni, riguardo alla salute non è ancora avvenuto, sia in ambiti sanitari che nel più largo mondo sociale, un vero cambiamento culturale. Troppo spesso le varie dimensioni che costituiscono la salute vengono viste come separate, al massimo confinanti, forse solo sommabili, ma non tra loro interagenti, in un dinamico equilibrio in cui il soggetto è chiamato (e aiutato se occorre) a trovare un suo baricentro. Se un cambiamento deve avvenire nella pratica terapeutica, esso non può non partire da una formazione che la deve preparare: una formazione che renda capaci di dialogare, non solo con il malato e con i suoi familiari, ma anche con i vari professionisti con i quali si lavora: un dialogo tra persone ma anche tra prospettive scientifiche e professionali diverse.

Dovrebbe essere chiaro che non è possibile per un singolo operatore sanitario rispondere alle profonde ed esigenti domande di guarigione del malato, fare con lui un’alleanza terapeutica che non lo deluda, o che non debordi in una relazione paternalistica o di potere, se non facendo alleanza con tutti quelli che hanno in cura il malato (e ne hanno a cuore la sua salute integrale), condividendo competenze e sensibilità, accettando di essere tutti insieme tasselli di un unico mosaico terapeutico, senza la pretesa che siano la propria visione e forme di intervento professionale a gestire o dominare il processo di cura.

La malattia come la salute interessano la persona nella sua interezza e perciò rimandano a una grande alleanza di fattori. Anche la terapia deve essere frutto di un riuscito mosaico di conoscenze e competenze professionali. Solo insieme i vari operatori sanitari realizzano un’adeguata terapia. Solo insieme diventano comunità terapeutica e salutare in cui il malato, viene curato nella sua interezza, in tutte le dimensioni in cui la sua salute entra in crisi. Solo insieme possono prendersi cura del malato come persona11.

In un nuovo modello antropologico di salute e di cura, la collaborazione tra i vari operatori sanitari non può essere frutto di “benevolenza” o semplice amicizia ma preciso dovere morale se si vuol rispondere all’integralità della domanda del malato e alle profondità del suo bisogno di salute, di cura e guarigione. Per rimanere attenti ai vari aspetti della domanda di cura da parte del malato (e di chi gli sta accanto) ed essere capaci, per rispondere ad essa, di “con-laborare” c’è bisogno di una formazione, per molti aspetti nuova, che renda capaci di cogliere l’interezza della persona malata dietro alle sue espressioni parziali e di dialogare rispettosamente con tutte le altre professioni sanitarie, “con-dividendo” con i vari protagonisti della cura conoscenze e relazioni. «Nel tessuto quotidiano della nostra vita, nella realtà del territorio, della parrocchia e della famiglia si incontrano le domande, le ansie, i bisogni della cura della salute. È in questa realtà concreta che si vivono situazioni di malattia, di sofferenza, di disabilità, di servizio sanitario. Tutti nella comunità cristiana sono chiamati a prendere coscienza di queste diverse situazioni, per conoscerle, interpretarne insieme le domande e i bisogni, per rispondervi con una responsabilità condivisa»12.

La cura del malato presuppone la capacità di cogliere la ricchezza della sua domanda, saper leggere il suo dolore, i suoi vissuti emotivi, le sue relazioni, la sua sete di significati e la sua tensione verso la trascendenza e attuare (perché formati a farlo) un tipo di cura che risponda integralmente, pur da diversi cammini specialistici, alla sua domanda di guarigione. C’è bisogno, quindi, di “deprivatizzare” l’alleanza terapeutica, senza nulla togliere all’importanza di alcune figure professionali.

La relazione operatore sanitario-malato, per essere sanante, non può che essere dentro a una più ampia relazione comunità terapeutica-malato nella quale il rapporto con il malato è anche relazione con la sua famiglia e con il contesto socio-culturale in cui vive. La risposta al bene del paziente non può essere “monopolio” di un singolo professionista. E, di questo, anche la formazione deve farsene carico. L’alleanza terapeutica deve diventare, quindi, anche alleanza tra tutti coloro che del malato si prendono cura.

La salute non è uno “stato”, un equilibrio dato, ma continuamente riconquistato in un confronto interno ed esterno. Educare alla salute e alla sua cura significa quindi educare all’umiltà intellettuale e alla libertà e responsabilità: la nostra visione, proprio perché umana, è necessariamente prospettica e dobbiamo affrontare i vari problemi “dialogando” con chi si pone da altre prospettive, proprio perché non siamo Dio e non possiamo avere il suo occhio. La dignità della medicina olistica sta nella sua esigenza nobile di curare tutto l’uomo, ma nella coscienza che ciò è un’utopia, una speranza e non una certezza, che la salute è un già di salvezza di un non ancora che mai potrà essere espresso completamente su questa terra. Il sapere, che sta alla base di una cura salutare non può essere centralizzato e, a volte, può essere trovato anche in luoghi insospettati e in voci poco autorevoli, nel malato e in chi gli sta amorevolmente accanto.

L’umiltà intellettuale, la capacità di interagire e la responsabilità sono presupposti di carattere intellettuale e morale che forniscono i criteri per la formazione, la collaborazione e la condivisione delle specifiche competenze a servizio di chi soffre.

Formare buoni operatori sanitari significa allora formare maestri della contingenza, esperti nel curare “insieme” le ferite ma anche nel saperne fare buon uso, mettendo in comunione valori e progetti come membri di una comunità morale che non si limita semplicemente a condividere delle abitudini ma fa appello alla responsabilità di ciascuno e alla con-responsabilità di tutti: una comunità che condivide modalità simili d’azione perché si pone dei fini comuni e cerca di attualizzare gli stessi valori.

La comunità ha continuamente bisogno di essere salvata dal rischio di relazioni non-sane, dalla strumentalizzazione dell’altro e dal dominio, e il farmaco universale per questo è il dialogo. E “ragionando insieme” si possono discutere e stabilire compiti e competenze, diritti e doveri. Per questo motivo i professionisti della salute, nel loro cammino formativo, sono chiamati oggi a “ri-scoprire insieme” i valori e i significati della propria relazione di cura e soprattutto a far propria, attraverso una formazione iniziale e continua, una “cultura dell’intersoggettività” che non è, anche nelle sue fondazioni umane, se non “cultura dell’umiltà”.

Come ci ricorda il documento ecclesiale per la Giornata mondiale del malato di quest’anno «l’esperienza della malattia e della sofferenza, pur nella sua oscurità, può diventare momento di riscoperta di se stessi e di intensa crescita umana. In altre parole una scuola di vita per chi la vive e per chi sta accanto. Una comunità cristiana che non sappia mettersi in atteggiamento di ascolto e di accoglienza del “magistero” della persona malata e sofferente, si priva di una grande possibilità di conversione spirituale e pastorale». La relazione di alleanza, nel segno dell’interdipendenza e della reciprocità, ci rivela il volto del Buon samaritano sia nel volto di chi soffre che nel volto di chi se ne prende cura e apre «a una esperienza di comunione non solo umana, ma, in un certo senso, divina, nella partecipazione alla stessa comunione trinitaria»13.

Il discorso non deve interessare solo i singoli. È tutta la comunità cristiana (se vuol essere la chiesa di Cristo) che deve esprimersi, in tutto il suo agire pastorale, come chiesa samaritana14.

Ma questo è un dono del Risorto. “Quando si fa sera” (dentro all’esperienza della malattia e della relazione di cura), come nella via di Emmaus, è il Cristo che si fa nostro compagno di viaggio, ci svela il senso delle scritture e scalda la speranza del nostro cuore.

  

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