n. 02
febbraio 2002

 

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La donna consacrata tra appartenenza e dono
di Paola Moschetti

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Ogni persona umana vive psicologicamente e spiritualmente a proprio agio quando ha chiari i suoi punti di riferimento. Dal livello psicologico lo “star bene” raggiunge tutte le altre facoltà e le impegna, portandole anche oltre il proprio limite. Siamo esseri in divenire e la nostra “sorte divina” può farci trovare davanti a orizzonti di uno stupore inatteso: lo vediamo nei santi.

Nella vita consacrata il delicato equilibrio che porta la persona a vivere in pienezza, si gioca tra la coscienza di appartenere al Signore, alla Chiesa, a una famiglia religiosa, e quella maturità umana da cui nasce il dono di sé agli altri.

E’ facile intuire come queste due dimensioni della appartenenza e del dono si esprimano con modalità e sensibilità diverse: qui cerchiamo di dirne qualcosa in riferimento alla donna consacrata. Ciascuna, a sua volta, le vivrà in modo unico e irripetibile; ma ci sono degli elementi comuni, una sorta di tappe attraverso le quali avviene il nostro sentirci radicate in quel che ci dà vita e ad un tempo capaci di suscitare vita.

Anche se il senso della appartenenza sembra dover precedere, in realtà i due momenti richiedono di essere vissuti parallelamente ogni giorno, in modo da diventare come i due contrafforti che permettono alla persona di stare in piedi. L’essere del Signore porta a farci più pienamente dono e l’essere per gli altri diventa la via verso una autentica unione con Dio.

Tutto questo trova riscontro nella Parola di Dio e nel magistero della Chiesa: saranno le fonti di riferimento a cui guardare, man mano che ci inoltreremo nella riflessione. Movendoci dall’appartenenza a Cristo e alla Chiesa, vedremo come l’esistenza della donna che si consegna pienamente a Dio si esprime nel dono di sé per amore: quell’amore che vive segreto in ogni consacrata quando dice il suo “sì” totale a Cristo, perché egli non è meno presente e reale di uno sposo umano che, amando veramente, riesce a suscitare la bellezza del vivere nell’esistenza della sua donna.

 

1.  “Tu mi appartieni”

Nel segreto del cuore ogni donna consacrata custodisce il mistero di un incontro con il Signore che ha portato nuovi orientamenti al suo vivere. Gli occhi si sono aperti dinanzi alla enigmatica espressione evangelica: “chi può capire capisca”(Mt 19,12). Cosa s’è capito? Forse semplicemente che non potevamo fare a meno di lui, Dio, cercato e desiderato con “cuore indiviso”: un cuore reso ormai incapace di essere soddisfatto da ogni altro amore. Lui era il vero tesoro nascosto, la perla preziosa di fronte alla quale chi la trova vende tutti i suoi averi e la compra (cf Mt 13,44-46).

Comincia così la storia di ogni totale appartenenza al Signore che inizia con il battesimo e poi, nella vita di particolare consacrazione, assume una fisionomia di assolutezza.

Ci si sente raggiunte da quelle stupende intuizioni di Isaia rivolte al popolo della Alleanza:

«Non temere, perché ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43,1).

E’ ancora la parola dei Profeti che ci si fa incontro per
puntualizzare che l’iniziativa di tutto viene da Dio:

«Ecco, la attirerò a me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).

E’ l’immagine che la tradizione ha sempre riferito a chi cerca una intimità più profonda con il Signore, anche se questo comporta delle prove, degli svuotamenti o dei “deserti”, per usare la metafora classica con cui vengono espressi i momenti duri nel cammino verso un rapporto di trasparenza con Dio: il cammino della santità.

Rifacendoci anche qui a una immagine dei Profeti, all’iniziativa di Dio segue la risposta della creatura:

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7).

L’espressione ci introduce in quella mistica sponsale che troverà fondamento nella realtà di Cristo Sposo e della Chiesa Sposa. La donna consacrata è “icona” privilegiata di questo mistero.

La dottrina del Nuovo Testamento apre la via al carisma della verginità, dove la sessualità ha un valore anche se non viene esercitata, ma offerta. E’ una proposta che raggiunge la persona dall’Alto - come è stato per Maria - e, pur sollecitandola, la fa sentire libera di rispondere o meno con un fiat.

Il nostro sentirci vivere come donne reclama il riferimento e la dipendenza da un Tu. E’ Cristo questa volta che si offre alla nostra femminilità dicendo: “tu mi appartieni”. Comincia così la storia di un amore destinato a coinvolgere tutti i livelli della persona e nello stesso tempo a condurla sempre oltre se stessa: «Tu non trasformerai me in te…ma sarai tu ad essere trasformato in me»1 – diceva il Maestro interiore a sant’Agostino.

La rinuncia al matrimonio, consapevolmente vissuta, è un valore capace di condurre la donna a vivere con sorpresa la propria femminilità in tutte le sue espressioni. E in una libertà tanto più possibile quanto più si rimane radicate nel Signore Gesù, come nuove creature, rese conformi a lui fondamentalmente nell’atteggiamento di oblazione davanti al Padre, quale risposta all’infinito dell’amore.

Lo spiegava bene Paolo VI, in una festa liturgica della Presentazione del Signore. “Cosa è oblazione? E’ offerta, che riconosce non solo un diritto divino, ma che vuole altresì riconoscere un amore divino verso di noi; e vuole rispondervi, come può, ma con analogo gesto di amore. E’ un atto riflesso, che assume significato di risposta… La nostra oblazione significa innanzitutto che ci siamo accorti di questo amore primigenio, che abbiamo avvertito il senso interrogativo ch’esso racchiude, abbiamo capito che sopra di noi si libra un’attesa divina, che mette alla prova la nostra libertà, un invito a cui bisogna dare riscontro, un riscontro dal quale dipende il nostro destino. Nasce di qui il nostro fiat, il nostro sì, religioso e cristiano”.2

In questo stato l’anima, facendo proprie le parole del salmo, può dire con tutta autenticità: “E io vivrò per lui” (Sal 21,30).

 

2. Nel seno della Chiesa

Innamorarsi di Dio significa innamorarsi della Chiesa, il mistero che alimenta ogni vita cristiana. Ma è tipico della donna consacrata sentirsi accendere da una autentica passione per tutto quel che è ecclesiale, andando oltre i limiti che segnano a volte negativamente il volto stesso della Chiesa.

Vien da pensare a grandi sante come Caterina da Siena, in cui l’amore per Cristo diventa piena accoglienza di colei che ne è misticamente la Sposa, al punto che non si distingue più se si vive per l’uno o per l’altra. E la persona del Papa è vista, solo per fede, come quella del “dolce Cristo in terra”.3

«Cristo e la Chiesa sono la stessa cosa», affermava con profonda intuizione Giovanna d’Arco. Ed è proprio dell’amore scoprire in modo semplice questa verità di fronte alla quale la teologia stessa fatica a dar delle ragioni. La si attinge più facilmente dall’esperienza e dal linguaggio dei mistici.

All’origine delle varie famiglie religiose c’è, in genere, un fondatore o una fondatrice il cui carisma non è altro che una espressione di amore per la Chiesa, concretizzatosi in una istituzione. Quindi ogni carisma di vita consacrata è parte integrante della Chiesa prima di tutto a livello mistico. E da essa unicamente continua a ricevere quella vitalità che lo mantiene autentico e a un tempo capace di rinnovarsi nel succedersi della varie stagioni che ogni istituzione conosce. Dobbiamo dire che quel che lo Spirito Santo è nella Chiesa, stando alla bella pagina della Lumen gentium (n. 4), lo è anche in ogni famiglia religiosa e in ogni singola persona consacrata.

Proprio grazie allo Spirito si evita il rischio di restringere il proprio mondo all’ambito di una più o meno illustre famiglia religiosa. L’importante è il respiro ecclesiale, che mentre allarga gli spazi del cuore fino ad abbracciare tutta l’umanità, dà ossigeno allo spirito in modo da percepire le cose grandi, quelle che valgono e aiutano la donna consacrata a vivere all’altezza della dignità del proprio stato.

Anche qui ricorriamo a poche righe di Paolo VI, pronunciate un giorno in cui sollecitava le religiose a ravvivare in sé il senso della Chiesa:

“Avviene talvolta che questo senso della Chiesa sia meno avvertito e meno coltivato in certe famiglie religiose: per il fatto che esse vivono appartate, e che esse trovano nell’ambito delle loro comunità tutti gli oggetti d’immediato interesse, e poco sanno di quanto accade fuori del recinto delle loro occupazioni, a cui sono totalmente dedicate, avviene talora che la loro vita religiosa abbia orizzonti limitati, non solo per ciò che riguarda la vicenda delle cose di questo mondo, ma anche per ciò che riguarda la vita della Chiesa, i suoi avvenimenti, i suoi pensieri e i suoi insegnamenti, i suoi ardori spirituali, i suoi dolori e le sue fortune”.4

Chi più amante del Carmelo di una santa Teresa d’Avila? Eppure questa grande appassionata della vita religiosa, sul letto di morte, sentiva bisogno di rifarsi alla Chiesa per avere accesso alla vita eterna. «Dopo tutto, Signore, sono figlia della Chiesa…»:5 una sorta di giaculatoria che ella alternava con le altre preghiere, ma che esprime bene cosa fosse la Chiesa per lei e quanto ci si sentisse radicata dentro.

In questo spirito, l’appartenenza si fa obbedienza. Non solo nell’ambito delle realtà istituzionali in cui ci si trova inserite, ma fondamentalmente nell’ambito della Chiesa, condotta dallo Spirito verso la pienezza della verità. Per questo Giovanni Paolo II sottolinea che un autentico sensus Ecclesiae, capace di resistere anche a spinte centrifughe e disgregatrici, si esprime attraverso “la adesione di mente e di cuore al magistero dei Vescovi, che va vissuta con lealtà e testimoniata con chiarezza davanti al Popolo di Dio da parte di tutte le persone consacrate, particolarmente da quelle impegnate nella ricerca teologica e nell’insegnamento, nelle pubblicazioni, nelle catechesi, nell’uso dei mezzi di comunicazione sociale” (VC 46).

Come si acquisisce lo spirito di Cristo, così si acquisisce quello della Chiesa. Potremmo anche parafrasare l’affermazione di Paolo: “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rm 8,9). Lo stesso si può dire in riferimento alla Chiesa. Per un mistero d’amore più facilmente percepibile dalla donna consacrata che tenda ad identificarsi con la Chiesa stessa.

 

3. Con Cristo, nelle cose del Padre

L’appartenenza a Cristo e alla Chiesa diventa sempre più profondamente l’anima del nostro vivere, il nucleo incandescente da cui dovrà irradiarsi tutta l’esistenza. Per questo hanno una particolare rilevanza gli anni della formazione, quando il progetto di vita comincia a trasformare anche il livello psicologico e a raggiungere l’essere della persona. Chi guarda dovrebbe poter dire: è una donna che appartiene a Cristo, una persona per la quale “vivere è Cristo” (Fil 1,13).

Proprio perché sono provvidenzialmente cadute le barriere tra mondo e vita religiosa, diventa tanto più necessario portare nel cuore le parole di san Paolo: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo» (Rm 12,2). Il mondo ha bisogno di vederci per quello che siamo. Anzitutto donne che hanno offerto se stesse «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). E’ una realtà che provoca ad un tempo distanza e attrazione. Ma sta di fatto che quando il nostro essere si esprime nella dignità ricevuta dal Signore, il mondo stesso ama quel mistero che noi siamo - lo si è visto in modo eclatante nella figura di Madre Teresa di Calcutta. Mentre una certa secolarizzazione, accolta con entusiasmo anche da preti e persone consacrate, è la via per rimanere sterili.

Perché l’essere con Cristo è il segreto della nostra pienezza e fecondità. E, insieme a lui, accanto ai fratelli. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).

Quel che il Concilio ha riferito alla comunità dei cristiani, trova risonanza ancor più grande nel cuore della donna consacrata. L’umanità è il campo a cui Gesù ci invia, destinate come lui ad “essere nelle cose del Padre”. Una espressione che traduce alla lettera il testo greco del noto versetto di Luca: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49).

E’ una espressione suggestiva, che dice come tutto quel che Gesù è stato e ha operato era in relazione al Padre. Per una donna consacrata può esprimere un programma di vita orientato a mantenere la persona nella sfera del Signore. Per Gesù essere nelle cose del Padre significava un atteggiamento che lo accompagnava ovunque. “E’ un modo di esistere, è l’identità di Gesù, ed è la scelta vocazionale di fondo a cui noi siamo chiamati, scelta previa a tutte le altre”.6

Una scelta di fondo nella quale tutta la persona si pacifica, un dono da chiedere anche nella preghiera: «Essere con Gesù e come lui nelle cose del Padre, nella sua volontà, nel suo disegno salvifico di amore per me e per gli uomini, essere con Gesù e come lui presso il Padre, nel suo disegno di amore per l’umanità, essere coinvolto nella sua avventura per la salvezza di tutti gli uomini e le donne del mondo».7

Una volta abbracciata questa scelta fondamentale, rimane aperta la via per inoltrarsi senza timori verso quei compiti a cui il carisma dell’Istituto o l’impegno della persona chiamano. Colpisce il fatto che nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II parla di un unico “programma” per tutto il popolo di Dio, quello raccolto dal Vangelo e dalla Tradizione. E questo non per ignorare lo specifico della vita religiosa, ma per proporre a tutti una “misura alta” del vivere cristiano: «Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste» (n. 29).

Appropriandoci di questo programma, costruiamo un’armonia tra interiorità e vita. Sapendo che nel rapporto con il Signore, con la sua Parola e con la parola della Chiesa si delinea la nostra fisionomia più specifica; nel rapporto con gli altri diamo quello che siamo, con semplicità, sulla linea di quanto Giovanni Paolo II suggeriva nella Redemptionis donum:

«Anche se sono estremamente importanti le molteplici opere apostoliche che svolgete, tuttavia l’opera di apostolato veramente fondamentale rimane sempre ciò che (ed insieme chi) voi siete nella Chiesa… di ciascuna di voi si possono ripetere, a titolo speciale, queste parole dell’Apostolo: ‘Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio’ (Col 3,3). E al tempo stesso questo ‘essere nascosti con Cristo in Dio’ permette di riferire a voi le parole del Maestro stesso: ‘Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei cieli’ (Mt 5,16)» (n. 15).

 

4. L’ordine dell’amore

La consuetudine di vita con il Signore ci porta ad andare oltre quello che siamo per aprirci piuttosto a quello che lui ci fa essere. E questo avviene nella dimensione dell’amore. Le accorate parole di Gesù: «Rimanete in me… rimanete nel mio amore!» (Gv 15, 7.9.), sono la chiave per costruire una autentica spiritualità della donna consacrata.

La psicologia femminile è particolarmente sensibile all’amore. Quando una donna dona il suo essere e le sue facoltà, si muove come risposta a quel che riceve o anche a quel che le è richiesto perché si ha bisogno di lei. Amiamo sentirci libere, ma nello stesso tempo affiancate da qualcuno in cui trovare quelle risorse vitali che danno fecondità al nostro donarci. Proprio per questo la fisionomia della sposa si presenta come la più indicata per esprimere il rapporto della donna consacrata con Cristo.

E man mano che si approfondisce l’intimità con lui, se ne coglie la dipendenza irrinunciabile ed irresistibile ad un tempo: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). La donna che vive questa esperienza diventa la vera testimone del Dio-Amore che nutre di sé le creature umane per renderle partecipi della sua vita.

Non solo testimone, ma lei stessa strumento capace di comunicare a sua volta quell’amore vitale con cui è collegato tutto il suo essere - appunto come il tralcio alla vite. Bisogna riandare all’esperienza dei mistici per cogliere cosa voglia dire vivere in comunione con il Signore. Prima ancora di comunicare attraverso le opere, una persona entrata nel circolo della carità divina “insieme al Verbo manda lo Spirito Santo su quelle creature disposte a riceverlo”. E’ la stupenda intuizione di Maria Maddalena de’ Pazzi e dice tutto sul livello da cui agisce la grazia: quello dell’essere. Una dimensione che non può fare a meno della interiorità.

Ora, ogni donna consacrata è chiamata ad agire da questo spazio interiore, nutrito e animato dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo. E nello stesso tempo ad orientare tutto quello che fa in modo da suscitare anche nelle persone con cui viene a contatto quella medesima vita secondo lo spirito, che genera i veri figli di Dio. Questo impegno è in piena sintonia con gli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano,8 dove ha grande rilievo la formazione alla spiritualità. Un compito inserito in quell’ordine dell’amore che Giovanni Paolo II riferisce ad ogni donna:

«La dignità della donna viene misurata dall’ordine dell’amore, che è essenzialmente ordine di giustizia e di carità» (MD 29). Come consacrate lo respiriamo nel nostro pregare o piuttosto in quella contemplazione da cui nasce anche la capacità di comunicare Dio agli altri. Perché «l’ordine dell’amore appartiene alla vita intima di Dio stesso, alla vita trinitaria. Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale ipostasi dell’amore. Mediante lo Spirito, Dono increato, l’amore diventa un dono per le persone create. L’amore, che è da Dio, si comunica alle creature: ‘l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci viene dato’ (Rm 5,5)» (ivi).

Così la vita consacrata diventa un’avventura, un’arte per disporsi, accogliere, stupirsi, ringraziare ed effondere, attraverso i mille modi che si offrono ad ogni esistenza. «Quando diciamo che la donna è colei che riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne» (ivi).

Nella sua dimensione di “sposa” la donna viene ad essere “profeta” dell’amore. La donna consacrata vive questa realtà sulla scia della Madre del Signore, nella quale Giovanni Paolo II vede la creatura che più di ogni altra esprime il rapporto d’amore sponsale con Dio. «Questa caratteristica ‘profetica’ della donna nella sua femminilità trova la più alta espressione nella Vergine Madre di Dio. Nei suoi riguardi viene messo in rilievo, nel modo più pieno e diretto, l’intimo congiungersi dell’ordine dell’amore – che entra nell’ambito del mondo delle persone umane attraverso una Donna – con lo Spirito Santo. Maria ode all’annunciazione. ‘Lo Spirito Santo scenderà su di te’ (Lc 1,35)» (ivi).

In questa luce siamo destinate a diventare come un richiamo autentico della realtà che ogni creatura vive per ricevere e per dare amore; che ogni persona umana non può realizzare se stessa senza l’amore e non può trovare la pienezza del proprio essere se non attraverso il dono sincero di sé.

 

5.  Un dono sincero di sé

E’ stata una vera luce per l’antropologia cristiana la nota affermazione del Concilio Vaticano II che pone nel dono di sé la maturità di ogni essere umano: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé» (GS, 24). E Giovanni Paolo II aggiunge: “La donna non può ritrovare se stessa se non donando amore agli altri” (MD, 30).

E’ la conseguenza logica di tutto il discorso sull’ordine dell’amore: dall’amore che si riceve all’amore che viene donato. Per quanto riguarda la donna votata a Dio c’è uno stile proprio in questo dono di sé, destinato a diventare tanto più profondo quanto più intenso è il suo rapporto con Cristo vivo.

E dovremo man mano convenire che il Signore non ci toglie a nessuno: come cresce la nostra unione con lui, crescono le risorse per donarci ai fratelli. Risorse di un amore che raggiunge le persone pure attraverso le vie misteriose dello spirito, lì dove non è possibile o non è il caso di intervenire concretamente. Lo diceva bene la Lumen gentium, parlando del coinvolgimento dei religiosi nelle vicende umane: “Se anche talora non sono direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo” (n. 46).

La tenerezza ci rimanda al grande tema della maternità secondo lo spirito, nel quale è ancora una volta Giovanni Paolo II a farci da maestro. Quella rinuncia alla maternità fisica, che si accompagna con il carisma della verginità, apre la strada all’essere madri nello spirito.

«La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi Istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: ‘Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (…), l’avete fatto a me’ (Mt 25,40)». (MD 21).

E’ con il cuore di sposa che la donna data a Cristo si rivolge ai fratelli. Se non fosse così sarebbe come tralcio staccato dalla vite. Dice Paolo, «la nostra capacità viene da Dio» (2Cor 3,5).

Questa colleganza con il Signore nel nostro donarci agli altri ha bisogno di essere continua, come diventa pian piano continua la preghiera nel nostro rapporto con lui. L’appartenenza a Dio si fa sempre di più dono di noi stesse agli altri.

Viene a proposito una bella affermazione di Dietrich Bonhoeffer, quando parla della vita in comunione: «Essere con e per gli altri, in libertà, in gratuità, in gioia, fino al dono della vita, per poi tornare al Padre, consumati».

Ci sono due rischi da cui guardarsi perché il dono di sé fiorisca in una autentica maternità spirituale. Da un lato ci si può sentire impari di fronte ai nostri limiti e in questo caso san Paolo ci ricorda che «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10): quindi osare di andare oltre noi stesse; dal lato opposto c’è il pericolo di congestionare la propria esistenza attraverso un cumulo di impegni che finiscono con il disumanizzare noi stesse e quello che facciamo.

Si diceva che deve esserci uno stile nel dono di sé. E ciascuna è chiamata a trovare il proprio nel delicato equilibrio tra appartenenza a Dio e dono di sé ai fratelli. Perché «la verginità, come vocazione della donna, è sempre vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona. Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si fa sentire in questa vocazione» (MD, 21).

Una maternità che, come è stato per Maria, viene a noi come dono e dà inizio a qualcosa di nuovo. E’ la risposta di Dio a una gratuità d’amore che egli stesso ha suscitato “per non lasciar mancare a questo mondo un raggio della divina bellezza che illumini il cammino dell’esistenza umana” (VC 109).

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