Ogni persona umana vive
psicologicamente e spiritualmente a proprio agio quando ha chiari i suoi
punti di riferimento. Dal livello psicologico lo “star bene”
raggiunge tutte le altre facoltà e le impegna, portandole anche oltre
il proprio limite. Siamo esseri in divenire e la nostra “sorte
divina” può farci trovare davanti a orizzonti di uno stupore
inatteso: lo vediamo nei santi.
Nella vita consacrata
il delicato equilibrio che porta la persona a vivere in pienezza, si
gioca tra la coscienza di appartenere al Signore, alla Chiesa, a una
famiglia religiosa, e quella maturità umana da cui nasce il dono di sé
agli altri.
E’ facile intuire
come queste due dimensioni della appartenenza e del dono si esprimano
con modalità e sensibilità diverse: qui cerchiamo di dirne qualcosa in
riferimento alla donna consacrata. Ciascuna, a sua volta, le vivrà in
modo unico e irripetibile; ma ci sono degli elementi comuni, una sorta
di tappe attraverso le quali avviene il nostro sentirci radicate in quel
che ci dà vita e ad un tempo capaci di suscitare vita.
Anche se il senso della
appartenenza sembra dover precedere, in realtà i due momenti richiedono
di essere vissuti parallelamente ogni giorno, in modo da diventare come
i due contrafforti che permettono alla persona di stare in piedi.
L’essere del Signore porta a farci più pienamente dono e l’essere
per gli altri diventa la via verso una autentica unione con Dio.
Tutto questo trova
riscontro nella Parola di Dio e nel magistero della Chiesa: saranno le
fonti di riferimento a cui guardare, man mano che ci inoltreremo nella
riflessione. Movendoci dall’appartenenza a Cristo e alla Chiesa,
vedremo come l’esistenza della donna che si consegna pienamente a Dio
si esprime nel dono di sé per amore: quell’amore che vive segreto in
ogni consacrata quando dice il suo “sì” totale a Cristo, perché
egli non è meno presente e reale di uno sposo umano che, amando
veramente, riesce a suscitare la bellezza del vivere nell’esistenza
della sua donna.
1. “Tu mi appartieni”
Nel segreto del cuore
ogni donna consacrata custodisce il mistero di un incontro con il
Signore che ha portato nuovi orientamenti al suo vivere. Gli occhi si
sono aperti dinanzi alla enigmatica espressione evangelica: “chi può
capire capisca”(Mt 19,12). Cosa s’è capito? Forse semplicemente che
non potevamo fare a meno di lui, Dio, cercato e desiderato con “cuore
indiviso”: un cuore reso ormai incapace di essere soddisfatto da ogni
altro amore. Lui era il vero tesoro nascosto, la perla preziosa di
fronte alla quale chi la trova vende tutti i suoi averi e la compra (cf
Mt 13,44-46).
Comincia così la
storia di ogni totale appartenenza al Signore che inizia con il
battesimo e poi, nella vita di particolare consacrazione, assume una
fisionomia di assolutezza.
Ci si sente raggiunte
da quelle stupende intuizioni di Isaia rivolte al popolo della Alleanza:
«Non temere, perché
ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni» (Is 43,1).
E’ ancora la parola
dei Profeti che ci si fa incontro per
puntualizzare che l’iniziativa di tutto viene da Dio:
«Ecco, la attirerò a
me,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore» (Os 2,16).
E’ l’immagine che
la tradizione ha sempre riferito a chi cerca una intimità più profonda
con il Signore, anche se questo comporta delle prove, degli svuotamenti
o dei “deserti”, per usare la metafora classica con cui vengono
espressi i momenti duri nel cammino verso un rapporto di trasparenza con
Dio: il cammino della santità.
Rifacendoci anche qui a
una immagine dei Profeti, all’iniziativa di Dio segue la risposta
della creatura:
Mi hai sedotto,
Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (Ger 20,7).
L’espressione ci
introduce in quella mistica sponsale che troverà fondamento nella realtà
di Cristo Sposo e della Chiesa Sposa. La donna consacrata è “icona”
privilegiata di questo mistero.
La dottrina del Nuovo
Testamento apre la via al carisma della verginità, dove la sessualità
ha un valore anche se non viene esercitata, ma offerta. E’ una
proposta che raggiunge la persona dall’Alto - come è stato per Maria
- e, pur sollecitandola, la fa sentire libera di rispondere o meno con
un fiat.
Il nostro sentirci
vivere come donne reclama il riferimento e la dipendenza da un Tu. E’
Cristo questa volta che si offre alla nostra femminilità dicendo: “tu
mi appartieni”. Comincia così la storia di un amore destinato a
coinvolgere tutti i livelli della persona e nello stesso tempo a
condurla sempre oltre se stessa: «Tu non trasformerai me in te…ma
sarai tu ad essere trasformato in me»1
– diceva il Maestro interiore a sant’Agostino.
La rinuncia al
matrimonio, consapevolmente vissuta, è un valore capace di condurre la
donna a vivere con sorpresa la propria femminilità in tutte le sue
espressioni. E in una libertà tanto più possibile quanto più si
rimane radicate nel Signore Gesù, come nuove creature, rese conformi a
lui fondamentalmente nell’atteggiamento di oblazione davanti al Padre,
quale risposta all’infinito dell’amore.
Lo spiegava bene Paolo
VI, in una festa liturgica della Presentazione del Signore. “Cosa è
oblazione? E’ offerta, che riconosce non solo un diritto divino, ma
che vuole altresì riconoscere un amore divino verso di noi; e vuole
rispondervi, come può, ma con analogo gesto di amore. E’ un atto
riflesso, che assume significato di risposta… La nostra oblazione
significa innanzitutto che ci siamo accorti di questo amore primigenio,
che abbiamo avvertito il senso interrogativo ch’esso racchiude,
abbiamo capito che sopra di noi si libra un’attesa divina, che mette
alla prova la nostra libertà, un invito a cui bisogna dare riscontro,
un riscontro dal quale dipende il nostro destino. Nasce di qui il nostro
fiat, il nostro sì, religioso e cristiano”.2
In questo stato
l’anima, facendo proprie le parole del salmo, può dire con tutta
autenticità: “E io vivrò per lui” (Sal 21,30).
2.
Nel seno della Chiesa
Innamorarsi di Dio
significa innamorarsi della Chiesa, il mistero che alimenta ogni vita
cristiana. Ma è tipico della donna consacrata sentirsi accendere da una
autentica passione per tutto quel che è ecclesiale, andando oltre i
limiti che segnano a volte negativamente il volto stesso della Chiesa.
Vien da pensare a
grandi sante come Caterina da Siena, in cui l’amore per Cristo diventa
piena accoglienza di colei che ne è misticamente la Sposa, al punto che
non si distingue più se si vive per l’uno o per l’altra. E la
persona del Papa è vista, solo per fede, come quella del “dolce
Cristo in terra”.3
«Cristo e la Chiesa
sono la stessa cosa», affermava con profonda intuizione Giovanna
d’Arco. Ed è proprio dell’amore scoprire in modo semplice questa
verità di fronte alla quale la teologia stessa fatica a dar delle
ragioni. La si attinge più facilmente dall’esperienza e dal
linguaggio dei mistici.
All’origine delle
varie famiglie religiose c’è, in genere, un fondatore o una
fondatrice il cui carisma non è altro che una espressione di amore per
la Chiesa, concretizzatosi in una istituzione. Quindi ogni carisma di
vita consacrata è parte integrante della Chiesa prima di tutto a
livello mistico. E da essa unicamente continua a ricevere quella vitalità
che lo mantiene autentico e a un tempo capace di rinnovarsi nel
succedersi della varie stagioni che ogni istituzione conosce. Dobbiamo
dire che quel che lo Spirito Santo è nella Chiesa, stando alla bella
pagina della Lumen gentium (n. 4), lo è anche in ogni famiglia
religiosa e in ogni singola persona consacrata.
Proprio grazie allo
Spirito si evita il rischio di restringere il proprio mondo all’ambito
di una più o meno illustre famiglia religiosa. L’importante è il
respiro ecclesiale, che mentre allarga gli spazi del cuore fino ad
abbracciare tutta l’umanità, dà ossigeno allo spirito in modo da
percepire le cose grandi, quelle che valgono e aiutano la donna
consacrata a vivere all’altezza della dignità del proprio stato.
Anche qui ricorriamo a
poche righe di Paolo VI, pronunciate un giorno in cui sollecitava le
religiose a ravvivare in sé il senso della Chiesa:
“Avviene talvolta che
questo senso della Chiesa sia meno avvertito e meno coltivato in certe
famiglie religiose: per il fatto che esse vivono appartate, e che esse
trovano nell’ambito delle loro comunità tutti gli oggetti
d’immediato interesse, e poco sanno di quanto accade fuori del recinto
delle loro occupazioni, a cui sono totalmente dedicate, avviene talora
che la loro vita religiosa abbia orizzonti limitati, non solo per ciò
che riguarda la vicenda delle cose di questo mondo, ma anche per ciò
che riguarda la vita della Chiesa, i suoi avvenimenti, i suoi pensieri e
i suoi insegnamenti, i suoi ardori spirituali, i suoi dolori e le sue
fortune”.4
Chi più amante del
Carmelo di una santa Teresa d’Avila? Eppure questa grande appassionata
della vita religiosa, sul letto di morte, sentiva bisogno di rifarsi
alla Chiesa per avere accesso alla vita eterna. «Dopo tutto, Signore,
sono figlia della Chiesa…»:5
una sorta di giaculatoria che ella alternava con le altre preghiere, ma
che esprime bene cosa fosse la Chiesa per lei e quanto ci si sentisse
radicata dentro.
In questo spirito,
l’appartenenza si fa obbedienza. Non solo nell’ambito delle realtà
istituzionali in cui ci si trova inserite, ma fondamentalmente
nell’ambito della Chiesa, condotta dallo Spirito verso la pienezza
della verità. Per questo Giovanni Paolo II sottolinea che un autentico sensus
Ecclesiae, capace di resistere anche a spinte centrifughe e
disgregatrici, si esprime attraverso “la adesione di mente e di cuore
al magistero dei Vescovi, che va vissuta con lealtà e testimoniata con
chiarezza davanti al Popolo di Dio da parte di tutte le persone
consacrate, particolarmente da quelle impegnate nella ricerca teologica
e nell’insegnamento, nelle pubblicazioni, nelle catechesi, nell’uso
dei mezzi di comunicazione sociale” (VC 46).
Come si acquisisce lo
spirito di Cristo, così si acquisisce quello della Chiesa. Potremmo
anche parafrasare l’affermazione di Paolo: “Se qualcuno non ha lo
Spirito di Cristo, non gli appartiene” (Rm 8,9). Lo stesso si può
dire in riferimento alla Chiesa. Per un mistero d’amore più
facilmente percepibile dalla donna consacrata che tenda ad identificarsi
con la Chiesa stessa.
3.
Con Cristo, nelle cose del Padre
L’appartenenza a
Cristo e alla Chiesa diventa sempre più profondamente l’anima del
nostro vivere, il nucleo incandescente da cui dovrà irradiarsi tutta
l’esistenza. Per questo hanno una particolare rilevanza gli anni della
formazione, quando il progetto di vita comincia a trasformare anche il
livello psicologico e a raggiungere l’essere della persona. Chi guarda
dovrebbe poter dire: è una donna che appartiene a Cristo, una persona
per la quale “vivere è Cristo” (Fil 1,13).
Proprio perché sono
provvidenzialmente cadute le barriere tra mondo e vita religiosa,
diventa tanto più necessario portare nel cuore le parole di san Paolo:
«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo» (Rm 12,2). Il
mondo ha bisogno di vederci per quello che siamo. Anzitutto donne che
hanno offerto se stesse «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio»
(Rm 12,1). E’ una realtà che provoca ad un tempo distanza e
attrazione. Ma sta di fatto che quando il nostro essere si esprime nella
dignità ricevuta dal Signore, il mondo stesso ama quel mistero che noi
siamo - lo si è visto in modo eclatante nella figura di Madre Teresa di
Calcutta. Mentre una certa secolarizzazione, accolta con entusiasmo
anche da preti e persone consacrate, è la via per rimanere sterili.
Perché l’essere con
Cristo è il segreto della nostra pienezza e fecondità. E, insieme a
lui, accanto ai fratelli. «Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore» (GS 1).
Quel che il Concilio ha
riferito alla comunità dei cristiani, trova risonanza ancor più grande
nel cuore della donna consacrata. L’umanità è il campo a cui Gesù
ci invia, destinate come lui ad “essere nelle cose del Padre”. Una
espressione che traduce alla lettera il testo greco del noto versetto di
Luca: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc
2,49).
E’ una espressione
suggestiva, che dice come tutto quel che Gesù è stato e ha operato era
in relazione al Padre. Per una donna consacrata può esprimere un
programma di vita orientato a mantenere la persona nella sfera del
Signore. Per Gesù essere nelle cose del Padre significava un
atteggiamento che lo accompagnava ovunque. “E’ un modo di esistere,
è l’identità di Gesù, ed è la scelta vocazionale di fondo a cui
noi siamo chiamati, scelta previa a tutte le altre”.6
Una scelta di fondo
nella quale tutta la persona si pacifica, un dono da chiedere anche
nella preghiera: «Essere con Gesù e come lui nelle cose del Padre,
nella sua volontà, nel suo disegno salvifico di amore per me e per gli
uomini, essere con Gesù e come lui presso il Padre, nel suo disegno di
amore per l’umanità, essere coinvolto nella sua avventura per la
salvezza di tutti gli uomini e le donne del mondo».7
Una volta abbracciata
questa scelta fondamentale, rimane aperta la via per inoltrarsi senza
timori verso quei compiti a cui il carisma dell’Istituto o l’impegno
della persona chiamano. Colpisce il fatto che nella Novo
millennio ineunte Giovanni Paolo II parla di un unico
“programma” per tutto il popolo di Dio, quello raccolto dal Vangelo
e dalla Tradizione. E questo non per ignorare lo specifico della vita
religiosa, ma per proporre a tutti una “misura alta” del vivere
cristiano: «Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in
lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo
compimento nella Gerusalemme celeste» (n. 29).
Appropriandoci di
questo programma, costruiamo un’armonia tra interiorità e vita.
Sapendo che nel rapporto con il Signore, con la sua Parola e con la
parola della Chiesa si delinea la nostra fisionomia più specifica; nel
rapporto con gli altri diamo quello che siamo, con semplicità, sulla
linea di quanto Giovanni Paolo II suggeriva nella
Redemptionis donum:
«Anche se sono
estremamente importanti le molteplici opere apostoliche che svolgete,
tuttavia l’opera di apostolato veramente fondamentale rimane sempre ciò
che (ed insieme chi) voi siete nella Chiesa… di ciascuna di voi si
possono ripetere, a titolo speciale, queste parole dell’Apostolo:
‘Voi, infatti, siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con
Cristo in Dio’ (Col 3,3). E al tempo stesso questo ‘essere nascosti
con Cristo in Dio’ permette di riferire a voi le parole del Maestro
stesso: ‘Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché
vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre che è nei
cieli’ (Mt 5,16)» (n. 15).
4.
L’ordine dell’amore
La consuetudine di vita
con il Signore ci porta ad andare oltre quello che siamo per aprirci
piuttosto a quello che lui ci fa essere. E questo avviene nella
dimensione dell’amore. Le accorate parole di Gesù: «Rimanete in
me… rimanete nel mio amore!» (Gv 15, 7.9.), sono la chiave per
costruire una autentica spiritualità della donna consacrata.
La psicologia femminile
è particolarmente sensibile all’amore. Quando una donna dona il suo
essere e le sue facoltà, si muove come risposta a quel che riceve o
anche a quel che le è richiesto perché si ha bisogno di lei. Amiamo
sentirci libere, ma nello stesso tempo affiancate da qualcuno in cui
trovare quelle risorse vitali che danno fecondità al nostro donarci.
Proprio per questo la fisionomia della sposa si presenta come la più
indicata per esprimere il rapporto della donna consacrata con Cristo.
E man mano che si
approfondisce l’intimità con lui, se ne coglie la dipendenza
irrinunciabile ed irresistibile ad un tempo: «Senza di me non potete
far nulla» (Gv 15,5). La donna che vive questa esperienza diventa la
vera testimone del Dio-Amore che nutre di sé le creature umane per
renderle partecipi della sua vita.
Non solo testimone, ma
lei stessa strumento capace di comunicare a sua volta quell’amore
vitale con cui è collegato tutto il suo essere - appunto come il
tralcio alla vite. Bisogna riandare all’esperienza dei mistici per
cogliere cosa voglia dire vivere in comunione con il Signore. Prima
ancora di comunicare attraverso le opere, una persona entrata nel
circolo della carità divina “insieme al Verbo manda lo Spirito Santo
su quelle creature disposte a riceverlo”. E’ la stupenda intuizione
di Maria Maddalena de’ Pazzi e dice tutto sul livello da cui agisce la
grazia: quello dell’essere. Una dimensione che non può fare a meno
della interiorità.
Ora, ogni donna
consacrata è chiamata ad agire da questo spazio interiore, nutrito e
animato dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo. E
nello stesso tempo ad orientare tutto quello che fa in modo da suscitare
anche nelle persone con cui viene a contatto quella medesima vita
secondo lo spirito, che genera i veri figli di Dio. Questo impegno è in
piena sintonia con gli Orientamenti pastorali dell’episcopato
italiano,8
dove ha grande rilievo la formazione alla spiritualità. Un compito
inserito in quell’ordine dell’amore che Giovanni Paolo II riferisce
ad ogni donna:
«La dignità della
donna viene misurata dall’ordine dell’amore, che è essenzialmente
ordine di giustizia e di carità» (MD 29). Come consacrate lo
respiriamo nel nostro pregare o piuttosto in quella contemplazione da
cui nasce anche la capacità di comunicare Dio agli altri. Perché «l’ordine
dell’amore appartiene alla vita intima di Dio stesso, alla vita
trinitaria. Nella vita intima di Dio, lo Spirito Santo è la personale
ipostasi dell’amore. Mediante lo Spirito, Dono increato, l’amore
diventa un dono per le persone create. L’amore, che è da Dio, si
comunica alle creature: ‘l’amore di Dio è stato riversato nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci viene dato’ (Rm
5,5)» (ivi).
Così la vita
consacrata diventa un’avventura, un’arte per disporsi, accogliere,
stupirsi, ringraziare ed effondere, attraverso i mille modi che si
offrono ad ogni esistenza. «Quando diciamo che la donna è colei che
riceve amore per amare a sua volta, non intendiamo solo o innanzitutto
lo specifico rapporto sponsale del matrimonio. Intendiamo qualcosa di più
universale, fondato sul fatto stesso di essere donna nell’insieme
delle relazioni interpersonali, che nei modi più diversi strutturano la
convivenza e la collaborazione tra le persone, uomini e donne» (ivi).
Nella sua dimensione di
“sposa” la donna viene ad essere “profeta” dell’amore. La
donna consacrata vive questa realtà sulla scia della Madre del Signore,
nella quale Giovanni Paolo II vede la creatura che più di ogni altra
esprime il rapporto d’amore sponsale con Dio. «Questa caratteristica
‘profetica’ della donna nella sua femminilità trova la più alta
espressione nella Vergine Madre di Dio. Nei suoi riguardi viene messo in
rilievo, nel modo più pieno e diretto, l’intimo congiungersi
dell’ordine dell’amore – che entra nell’ambito del mondo delle
persone umane attraverso una Donna – con lo Spirito Santo. Maria ode
all’annunciazione. ‘Lo Spirito Santo scenderà su di te’ (Lc 1,35)»
(ivi).
In questa luce siamo
destinate a diventare come un richiamo autentico della realtà che ogni
creatura vive per ricevere e per dare amore; che ogni persona umana non
può realizzare se stessa senza l’amore e non può trovare la pienezza
del proprio essere se non attraverso il dono sincero di sé.
5. Un dono sincero di sé
E’ stata una vera
luce per l’antropologia cristiana la nota affermazione del Concilio
Vaticano II che pone nel dono di sé la maturità di ogni essere umano:
«L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto
per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono
sincero di sé» (GS, 24). E Giovanni Paolo II aggiunge: “La donna non
può ritrovare se stessa se non donando amore agli altri” (MD, 30).
E’ la conseguenza
logica di tutto il discorso sull’ordine dell’amore: dall’amore che
si riceve all’amore che viene donato. Per quanto riguarda la donna
votata a Dio c’è uno stile proprio in questo dono di sé, destinato a
diventare tanto più profondo quanto più intenso è il suo rapporto con
Cristo vivo.
E dovremo man mano
convenire che il Signore non ci toglie a nessuno: come cresce la nostra
unione con lui, crescono le risorse per donarci ai fratelli. Risorse di
un amore che raggiunge le persone pure attraverso le vie misteriose
dello spirito, lì dove non è possibile o non è il caso di intervenire
concretamente. Lo diceva bene la Lumen gentium, parlando del
coinvolgimento dei religiosi nelle vicende umane: “Se anche talora non
sono direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono
tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di Cristo”
(n. 46).
La tenerezza ci rimanda
al grande tema della maternità secondo lo spirito, nel quale è ancora
una volta Giovanni Paolo II a farci da maestro. Quella rinuncia alla
maternità fisica, che si accompagna con il carisma della verginità,
apre la strada all’essere madri nello spirito.
«La verginità,
infatti, non priva la donna delle sue prerogative. La maternità
spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate
che vivono, ad esempio, secondo il carisma e le regole dei diversi
Istituti di carattere apostolico, essa si potrà esprimere come
sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli
ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli
anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli
emarginati. Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e
unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: ‘Ogni
volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi (…), l’avete
fatto a me’ (Mt 25,40)». (MD 21).
E’ con il cuore di
sposa che la donna data a Cristo si rivolge ai fratelli. Se non fosse
così sarebbe come tralcio staccato dalla vite. Dice Paolo, «la nostra
capacità viene da Dio» (2Cor 3,5).
Questa colleganza con
il Signore nel nostro donarci agli altri ha bisogno di essere continua,
come diventa pian piano continua la preghiera nel nostro rapporto con
lui. L’appartenenza a Dio si fa sempre di più dono di noi stesse agli
altri.
Viene a proposito una
bella affermazione di Dietrich Bonhoeffer, quando parla della vita in
comunione: «Essere con e per gli altri, in libertà, in gratuità, in
gioia, fino al dono della vita, per poi tornare al Padre, consumati».
Ci sono due rischi da
cui guardarsi perché il dono di sé fiorisca in una autentica maternità
spirituale. Da un lato ci si può sentire impari di fronte ai nostri
limiti e in questo caso san Paolo ci ricorda che «quando sono debole,
è allora che sono forte» (2Cor 12,10): quindi osare di andare oltre
noi stesse; dal lato opposto c’è il pericolo di congestionare la
propria esistenza attraverso un cumulo di impegni che finiscono con il
disumanizzare noi stesse e quello che facciamo.
Si diceva che deve
esserci uno stile nel dono di sé. E ciascuna è chiamata a trovare il
proprio nel delicato equilibrio tra appartenenza a Dio e dono di sé ai
fratelli. Perché «la verginità, come vocazione della donna, è sempre
vocazione di una persona, di una concreta ed irripetibile persona.
Dunque, profondamente personale è anche la maternità spirituale che si
fa sentire in questa vocazione» (MD, 21).
Una maternità che,
come è stato per Maria, viene a noi come dono e dà inizio a qualcosa
di nuovo. E’ la risposta di Dio a una gratuità d’amore che egli
stesso ha suscitato “per non lasciar mancare a questo mondo un raggio
della divina bellezza che illumini il cammino dell’esistenza umana”
(VC 109).
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