n. 5
maggio 2010

 

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Vivere la gratuità nelle relazioni

di SAMUELA RIGON

 

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Ogni persona porta dentro di sé il desiderio di amare in modo libero e disinteressato, ma facciamo tutti l’esperienza di come il nostro modo di amare sia ferito e limitato, segnato da chiusure e ripiegamenti su noi stessi. Fatti a immagine e somiglianza di Dio, chiamati alla comunione con lui e alla relazione con gli altri, siamo tuttavia esseri fragili, creati dalla polvere della terra. Questo paradosso che ci abita manifesta una tensione che ci caratterizza in quanto creature umane e che ci accompagna lungo il corso della nostra esistenza: una sublime chiamata ci raggiunge nella nostra profonda miseria (cf Gaudium et Spes 13) e nel nostro essere vasi d’argilla.

La vita umana è intessuta di tanti tipi di relazioni, viviamo rapporti di lavoro e collaborazione, relazioni di amicizia e legami familiari, ci sono rapporti fraterni come nella comunità religiosa o nei diversi gruppi ecclesiali. Oppure possiamo condividere il tempo libero, alcuni valori o interessi, vivere la mutualità nell’impegno politico e per il bene comune…Per quanto si tratti di diverse modalità di interazione, come persone siamo chiamate a coinvolgerci nel rapporto con gli altri e a mettere in gioco noi stessi e i nostri valori.

Vivere la gratuità nelle relazioni è frutto dello Spirito che opera in noi incessantemente e che ci insegna ad amare, ma si fonda anche su una capacità umana che ha radici lontane nella storia e nello sviluppo della persona e che ci impegna a crescere per tutta la nostra vita.1 Con l’aiuto della psicologia possiamo provare ad individuare alcuni presupposti umani che sono alla base della nostra capacità di amare in modo gratuito.

«Sei degno di grande stima e io ti amo»

Nel mio servizio, come accompagnatrice vocazionale, faccio spesso esperienza di come le persone portino nel profondo del cuore un’insicurezza o un dubbio su se stesse e la propria positività. Ognuno di noi ha imparato a rapportarsi con se stesso dentro il tessuto delle relazioni che ha vissuto fin dall’inizio della propria vita e lungo questa storia ha sviluppato un senso più o meno positivo della propria identità. Non mi riferisco tanto al concetto di sé, cioè a come una persona valuta se stessa e le proprie capacità, quanto piuttosto al sentirsi amabili per ciò che si è (e non per quanto si fa) e sufficientemente bene e a proprio agio con se stessi.

Alcune ferite a questo riguardo hanno radici nel passato. Talvolta abbiamo imparato che gli altri ci amano “a condizione che” e tutto questo costituisce un’eredità non cercata, ma semplicemente ricevuta. Tuttavia essa ci interpella nel nostro presente come un compito da assumere ed affrontare (e se talvolta abbiamo bisogno dell’aiuto di qualcuno, basta chiederlo!): infatti alla propria amabilità s’impara a credere rinnovando ogni giorno la fiducia in se stessi e l’apprezzamento per l’amore ricevuto.

Dalla consapevolezza sentita di essere stati amati gratuitamente (senza il dovere di conquistare l’affetto) scaturisce la gratuità della relazione: «Cristo dà alla persona due fondamentali certezze: di essere stata infinitamente amata e di poter amare senza limiti. Nulla come la croce di Cristo può dare in modo pieno e definitivo queste certezze e la libertà che ne deriva» (Vita fraterna in comunità 22).

«Giulia ha poco più di vent’anni, è una persona brillante, ma piuttosto ansiosa da sempre. Per lei sono molto importanti i risultati che ottiene: nello studio, nel lavoro part-time che svolge, in parrocchia. Quando qualcosa non le riesce molto bene si sente frustrata e inutile, in colpa e si chiude su di sé.

Giulia è la terza nata in famiglia, in modo inatteso, dopo una sorella ed un fratello poco più grande di lei. Non le sono mancate le cure e l’attenzione, tuttavia fin dai primi tempi di vita ha “respirato” che in casa non era stato preparato un posto per lei, il suo arrivo era inatteso per cui ha imparato che il posto bisogna guadagnarselo. Il posto non è tanto quello fisico bensì quello emotivo o affettivo. Così Giulia “impara” che l’affetto, l’amore deve essere guadagnato, ad esempio attraverso il successo, e interiorizza il messaggio “valgo e sono degna di amore solo se ottengo risultati eccellenti”».

Si tratta di un’esperienza che si perde nel passato della storia di Giulia, ma che sebbene lontana nel tempo, costituisce una piccola ferita che sanguina anche oggi e che è capace d’influenzare il presente. Il timore di non essere amabili è un fantasma che alberga nel cuore umano: a volte sussurra e insinua, altre volte grida e minaccia. Ma è solo guardandolo in faccia e chiamandolo per nome che esso smette di avere eccessivo potere sulla nostra vita e può assumere dei contorni più realistici. D’altronde nessuno di noi è stato amato (e ama) in modo perfetto! Ma l’amore, per quanto limitato e ferito, non smette di essere amore. Credere alla propria amabilità diventa quindi nell’età adulta un impegno e una scelta da rinnovare ogni giorno. Sulla certezza di essere stati gratuitamente amati si fonda la gratuità della relazione.

Accettare la conflittualità

Nel vivere le relazioni spesso facciamo l’esperienza della delusione: l’altra persona non è come l’ho conosciuta fino a questo momento e rivela aspetti di sé che non avevo visto o che non mi piacciono. Oppure, come avviene più di frequente, è solo diversa da come me l’aspettavo e la desideravo.

Talvolta idealizziamo l’amico/a, il coniuge, la consorella… e sull’altra persona proiettiamo le nostre attese e aspettative. In questo modo nell’amico vediamo ciò che ci piace o che vorremmo vedere e assolutizziamo alcuni suoi aspetti gradevoli, mentre altri nemmeno li notiamo. Allo stesso modo, ognuno di noi disattende o delude aspettative e attese che gli altri hanno nei nostri confronti. In alcuni casi l’idealizzazione dell’altro è così forte che rischiamo di non avere di lei/lui una percezione realistica e, più o meno inconsapevolmente, tendiamo ad amplificare alcune caratteristiche positive a svantaggio di uno sguardo più oggettivo.

«Marco e Laura sono sposati da alcuni mesi dopo un fidanzamento di due anni. Lui persona mite e accogliente, lei donna dinamica e un po’ impulsiva. Una sera Laura torna molto arrabbiata dal lavoro e durante la cena manifesta a Marco tutta la sua frustrazione e malumore per alcuni torti che sente di aver subito in ufficio. Marco ascolta pacato e cerca di vedere i lati buoni della situazione. Laura non si sente capita e si arrabbia ancora di più. Giorno dopo giorno Laura entra in contatto con quest’aspetto del carattere di Marco, questo suo fare il pacificatore, forse ad oltranza, e si scontra con la sua attesa di un marito capace di affrontare di petto le situazioni: Laura l’aveva conosciuto così o forse lo desiderava così. Così Laura deve crescere in una conoscenza più oggettiva di Marco (e viceversa) e imparare ad accettare che egli è motivo del suo amore, ma contemporaneamente anche della sua rabbia».

Sappiamo che non è facile accogliere e vivere la delusione; si tratta tuttavia di un passaggio importante che apre la strada ad una visione più oggettiva della realtà altrui e ad un rapporto più realistico. Questa fase richiede la capacità di tenere insieme i pezzi, cioè di integrare aspetti positivi e negativi dell’altro e soprattutto, i sentimenti ambivalenti di affetto/rabbia che posso provare nei suoi confronti. Sarò capace di integrare i diversi aspetti dell’altro nella misura in cui saprò guardare me stesso in questo modo, sapendo e accettando che non tutto in me è debole e non tutto in me è forte.

Entrare e uscire dalla relazione

Le relazioni d’amicizia possono avere diversi livelli di profondità. Pensiamo ad esempio all’effetto che produce un sasso gettato nello stagno, dal punto in cui cade esso disegna sull’acqua diversi centri concentrici. Allo stesso modo, in una relazione esistono differenti livelli d’intimità, cioè disuguali gradi di apertura di sé all’altro in un contesto di reciprocità. La consegna di sé implica una certa esperienza di sicurezza e di fiducia: sento che l’altro non mi disprezza e non mi rifiuta. Mi raccontava una persona di aver fatto una profonda esperienza di amicizia quando, lavorando per lungo tempo con alcuni colleghi ad un delicato progetto, ha sentito che essi hanno continuato a stimarla e a volerle bene anche dopo averla conosciuta nei suoi limiti e fragilità.

La relazione d’intimità suppone due tipi di capacità o meglio, un adeguato equilibrio tra due aspetti: l’autonomia e la dipendenza. L’autonomia, quale capacità di stare in piedi sulle proprie gambe, permette di riconoscersi nella propria individualità personale, come soggetto capace di pensare, amare, decidere e agire. La dipendenza, intesa come capacità di lasciarsi coinvolgere e raggiungere dall’altro, costituisce invece la base per poter accogliere e ricevere l’affetto degli altri, inoltre rende possibile un sano senso di appartenenza (alla famiglia, alla comunità religiosa, al gruppo…). Essa nasce dall’umile consapevolezza di non bastare a se stessi e di aver bisogno dell’altro. Autonomia e dipendenza chiedono un dinamico equilibrio nella persona; se l’autonomia è troppo forte diventa facilmente autosufficienza o paura dell’altro ed impedisce di entrare nella relazione, mentre quando il bisogno di dipendere è eccessivo, allora la persona fa fatica ad uscire dalla relazione rischiando di rimanerne invischiata.

Chi ama si rende debole

C’è un altro aspetto importante che ci permette di vivere relazioni nella gratuità. Quando amo veramente mi rendo debole, vulnerabile: si tratta della capacità di assumere il rischio e di soffrire o, in termini evangelici, di portare la croce. La reciprocità appartiene all’orizzonte della relazione matura, in quanto le persone coinvolte nel rapporto fanno l’esperienza sia del dare sia del ricevere. Questo non significa che la motivazione principale della relazione è il dare per ricevere. Infatti nella reciprocità matura c’è la disponibilità a donarsi e l’apertura ad accogliere il dono dell’altro, piuttosto che la pretesa che egli/ella si doni. L’altro potrebbe anche rifiutarmi e non accogliere il mio affetto, oppure non ricambiarmi. In questo senso chi ama è debole e vulnerabile e il rischio e la sofferenza appartengono all’orizzonte della gratuità.

Anche quando non c’è l’esperienza del rifiuto o del tradimento, relazione e sofferenza camminano insieme. Nel rapporto fraterno o amicale siamo chiamati a far posto, a far spazio all’altro, e quindi all’esperienza, in diversi modi, della rinuncia. Voler bene all’altro significa volere il bene dell’altro, soprattutto quando ciò implica rinunciare alla nostra personale gratificazione. C’è anche un altro aspetto caratterizzante ogni relazione significativa, si tratta della separazione, esperienza che in diversi modi si affaccia nell’esistenza di ogni persona; infatti voler bene vuol dire lasciare che l’altro vada per la sua strada e rinunciare al desiderio di trattenerlo a sé.

«Gratuitamente date»

È la sfida che accompagna ogni giorno il cammino del cristiano, l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente (Redemptor hominis 10). Gesù ha aperto una via attraverso il dono totale e gratuito di se stesso e, su questa via, invita ognuno di noi a seguirlo accompagnandoci e sostenendoci con il suo Spirito. Sperimentiamo quanto il Vangelo sia facile, perché il Regno dei cieli è dei piccoli e dei bambini, e quanto sia allo stesso tempo difficile, perché sappiamo quanto impegno chieda accogliere ogni giorno l’invito di Gesù ad andare al di là di noi stessi «fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).

Samuela Rigon
Francescane dell’Addolorata
e-mail: samu.rig@libero.it

 

1 Cf F. IMODA, Sviluppo umano, psicologia e mistero. Edizione riveduta e aggiornata, Dehoniane, Bologna 2005 (cap. V: «Il mistero umano e lo sviluppo dell’ortopatia», 179-246).

 

 

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