Ogni
persona porta dentro di sé il desiderio di amare in modo libero e
disinteressato, ma facciamo tutti l’esperienza di come il nostro modo di
amare sia ferito e limitato, segnato da chiusure e ripiegamenti su noi
stessi. Fatti a immagine e somiglianza di Dio, chiamati alla comunione
con lui e alla relazione con gli altri, siamo tuttavia esseri fragili,
creati dalla polvere della terra. Questo paradosso che ci abita
manifesta una tensione che ci caratterizza in quanto creature umane e
che ci accompagna lungo il corso della nostra esistenza: una sublime
chiamata ci raggiunge nella nostra profonda miseria (cf
Gaudium et Spes
13)
e nel nostro essere
vasi
d’argilla.
La
vita umana è intessuta di tanti tipi di relazioni, viviamo rapporti di
lavoro e collaborazione, relazioni di amicizia e legami familiari, ci
sono rapporti fraterni come nella comunità religiosa o nei diversi
gruppi ecclesiali. Oppure possiamo condividere il tempo libero, alcuni
valori o interessi, vivere la mutualità nell’impegno politico e per il
bene comune…Per quanto si tratti di diverse modalità di interazione,
come persone siamo chiamate a coinvolgerci nel rapporto con gli altri e
a mettere in gioco noi stessi e i nostri valori.
Vivere la gratuità nelle relazioni è frutto dello Spirito che opera in
noi incessantemente e che ci insegna ad amare, ma si fonda anche su una
capacità umana che ha radici lontane nella storia e nello sviluppo della
persona e che ci impegna a crescere per tutta la nostra vita.1
Con l’aiuto della psicologia possiamo provare ad individuare
alcuni presupposti umani che sono alla base della nostra capacità di
amare in modo gratuito.
«Sei degno di
grande stima e io ti amo»
Nel
mio servizio, come accompagnatrice vocazionale, faccio spesso esperienza
di come le persone portino nel profondo del cuore un’insicurezza o un
dubbio su se stesse e la propria positività. Ognuno di noi ha imparato a
rapportarsi con se stesso dentro il tessuto delle relazioni che ha
vissuto fin dall’inizio della propria vita e lungo questa storia ha
sviluppato un senso più o meno positivo della propria identità. Non mi
riferisco tanto al concetto di sé, cioè a come una persona valuta se
stessa e le proprie capacità, quanto piuttosto al sentirsi amabili per
ciò che si è (e non per quanto si fa) e sufficientemente bene e a
proprio agio con se stessi.
Alcune ferite a questo riguardo hanno radici nel passato. Talvolta
abbiamo imparato che gli altri ci amano “a condizione che” e tutto
questo costituisce un’eredità non cercata, ma semplicemente ricevuta.
Tuttavia essa ci interpella nel nostro presente come un compito da
assumere ed affrontare (e se talvolta abbiamo bisogno dell’aiuto di
qualcuno, basta chiederlo!): infatti alla propria amabilità s’impara a
credere rinnovando ogni giorno la fiducia in se stessi e l’apprezzamento
per l’amore ricevuto.
Dalla consapevolezza sentita di essere stati amati gratuitamente (senza
il dovere di conquistare l’affetto) scaturisce la gratuità della
relazione: «Cristo dà alla persona due fondamentali certezze: di essere
stata infinitamente amata e di poter amare senza limiti. Nulla come la
croce di Cristo può dare in modo pieno e definitivo queste certezze e la
libertà che ne deriva» (Vita
fraterna in comunità
22).
«Giulia ha poco più di vent’anni, è una persona brillante, ma piuttosto
ansiosa da sempre. Per lei sono molto importanti i risultati che
ottiene: nello studio, nel lavoro part-time che svolge, in parrocchia.
Quando qualcosa non le riesce molto bene si sente frustrata e inutile,
in colpa e si chiude su di sé.
Giulia è la terza nata in famiglia, in modo inatteso, dopo una sorella
ed un fratello poco più grande di lei. Non le sono mancate le cure e
l’attenzione, tuttavia fin dai primi tempi di vita ha “respirato” che in
casa non era stato preparato un posto per lei, il suo arrivo era
inatteso per cui ha imparato che il posto bisogna guadagnarselo. Il
posto non è tanto quello fisico bensì quello emotivo o affettivo. Così
Giulia “impara” che l’affetto, l’amore deve essere guadagnato, ad
esempio attraverso il successo, e interiorizza il messaggio “valgo e
sono degna di amore solo se ottengo risultati eccellenti”».
Si
tratta di un’esperienza che si perde nel passato della storia di Giulia,
ma che sebbene lontana nel tempo, costituisce una piccola ferita che
sanguina anche oggi e che è capace d’influenzare il presente. Il timore
di non essere amabili è un fantasma che alberga nel cuore umano: a volte
sussurra e insinua, altre volte grida e minaccia. Ma è solo guardandolo
in faccia e chiamandolo per nome che esso smette di avere eccessivo
potere sulla nostra vita e può assumere dei contorni più realistici.
D’altronde nessuno di noi è stato amato (e ama) in modo perfetto! Ma
l’amore, per quanto limitato e ferito, non smette di essere amore.
Credere alla propria amabilità diventa quindi nell’età adulta un impegno
e una scelta da rinnovare ogni giorno. Sulla certezza di essere stati
gratuitamente amati si fonda la gratuità della relazione.
Accettare la
conflittualità
Nel
vivere le relazioni spesso facciamo l’esperienza della delusione:
l’altra persona non è come l’ho conosciuta fino a questo momento e
rivela aspetti di sé che non avevo visto o che non mi piacciono. Oppure,
come avviene più di frequente, è solo diversa da come me l’aspettavo e
la desideravo.
Talvolta idealizziamo l’amico/a, il coniuge, la consorella… e sull’altra
persona proiettiamo le nostre attese e aspettative. In questo modo
nell’amico vediamo ciò che ci piace o che vorremmo vedere e
assolutizziamo alcuni suoi aspetti gradevoli, mentre altri nemmeno li
notiamo. Allo stesso modo, ognuno di noi disattende o delude aspettative
e attese che gli altri hanno nei nostri confronti. In alcuni casi
l’idealizzazione dell’altro è così forte che rischiamo di non avere di
lei/lui una percezione realistica e, più o meno inconsapevolmente,
tendiamo ad amplificare alcune caratteristiche positive a svantaggio di
uno sguardo più oggettivo.
«Marco e Laura sono sposati da alcuni mesi dopo un fidanzamento di due
anni. Lui persona mite e accogliente, lei donna dinamica e un po’
impulsiva. Una sera Laura torna molto arrabbiata dal lavoro e durante la
cena manifesta a Marco tutta la sua frustrazione e malumore per alcuni
torti che sente di aver subito in ufficio. Marco ascolta pacato e cerca
di vedere i lati buoni della situazione. Laura non si sente capita e si
arrabbia ancora di più. Giorno dopo giorno Laura entra in contatto con
quest’aspetto del carattere di Marco, questo suo fare il pacificatore,
forse ad oltranza, e si scontra con la sua attesa di un marito capace di
affrontare di petto le situazioni: Laura l’aveva conosciuto così o forse
lo desiderava così. Così Laura deve crescere in una conoscenza più
oggettiva di Marco (e viceversa) e imparare ad accettare che egli è
motivo del suo amore, ma contemporaneamente anche della sua rabbia».
Sappiamo che non è facile accogliere e vivere la delusione; si tratta
tuttavia di un passaggio importante che apre la strada ad una visione
più oggettiva della realtà altrui e ad un rapporto più realistico.
Questa fase richiede la capacità di tenere insieme i pezzi, cioè di
integrare aspetti positivi e negativi dell’altro e soprattutto, i
sentimenti ambivalenti di affetto/rabbia che posso provare nei suoi
confronti. Sarò capace di integrare i diversi aspetti dell’altro nella
misura in cui saprò guardare me stesso in questo modo, sapendo e
accettando che non tutto in me è debole e non tutto in me è forte.
Entrare e
uscire dalla relazione
Le
relazioni d’amicizia possono avere diversi livelli di profondità.
Pensiamo ad esempio all’effetto che produce un sasso gettato nello
stagno, dal punto in cui cade esso disegna sull’acqua diversi centri
concentrici. Allo stesso modo, in una relazione esistono differenti
livelli d’intimità, cioè disuguali gradi di apertura di sé all’altro in
un contesto di reciprocità. La consegna di sé implica una certa
esperienza di sicurezza e di fiducia: sento che l’altro non mi disprezza
e non mi rifiuta. Mi raccontava una persona di aver fatto una profonda
esperienza di amicizia quando, lavorando per lungo tempo con alcuni
colleghi ad un delicato progetto, ha sentito che essi hanno continuato a
stimarla e a volerle bene anche dopo averla conosciuta nei suoi limiti e
fragilità.
La
relazione d’intimità suppone due tipi di capacità o meglio, un adeguato
equilibrio tra due aspetti: l’autonomia e la dipendenza. L’autonomia,
quale capacità di stare in piedi sulle proprie gambe, permette di
riconoscersi nella propria individualità personale, come soggetto capace
di pensare, amare, decidere e agire. La dipendenza, intesa come capacità
di lasciarsi coinvolgere e raggiungere dall’altro, costituisce invece la
base per poter accogliere e ricevere l’affetto degli altri, inoltre
rende possibile un sano senso di appartenenza (alla famiglia, alla
comunità religiosa, al gruppo…). Essa nasce dall’umile consapevolezza di
non bastare a se stessi e di aver bisogno dell’altro. Autonomia e
dipendenza chiedono un dinamico equilibrio nella persona; se l’autonomia
è troppo forte diventa facilmente autosufficienza o paura dell’altro ed
impedisce di entrare nella relazione, mentre quando il bisogno di
dipendere è eccessivo, allora la persona fa fatica ad uscire dalla
relazione rischiando di rimanerne invischiata.
Chi ama si
rende debole
C’è
un altro aspetto importante che ci permette di vivere relazioni nella
gratuità. Quando amo veramente mi rendo debole, vulnerabile: si tratta
della capacità di assumere il rischio e di soffrire o, in termini
evangelici, di portare la croce. La reciprocità appartiene all’orizzonte
della relazione matura, in quanto le persone coinvolte nel rapporto
fanno l’esperienza sia del dare sia del ricevere. Questo non significa
che la motivazione principale della relazione è il
dare
per ricevere.
Infatti nella reciprocità matura c’è la disponibilità a donarsi e
l’apertura ad accogliere il dono dell’altro, piuttosto che la pretesa
che egli/ella si doni. L’altro potrebbe anche rifiutarmi e non
accogliere il mio affetto, oppure non ricambiarmi. In questo senso chi
ama è debole e vulnerabile e il rischio e la sofferenza appartengono
all’orizzonte della gratuità.
Anche quando non c’è l’esperienza del rifiuto o del tradimento,
relazione e sofferenza camminano insieme. Nel rapporto fraterno o
amicale siamo chiamati a far posto, a far spazio all’altro, e quindi
all’esperienza, in diversi modi, della rinuncia. Voler bene all’altro
significa volere il bene dell’altro, soprattutto quando ciò implica
rinunciare alla nostra personale gratificazione. C’è anche un altro
aspetto caratterizzante ogni relazione significativa, si tratta della
separazione, esperienza che in diversi modi si affaccia nell’esistenza
di ogni persona; infatti voler bene vuol dire lasciare che l’altro vada
per la sua strada e rinunciare al desiderio di trattenerlo a sé.
«Gratuitamente
date»
È la
sfida che accompagna ogni giorno il cammino del cristiano, l'uomo non
può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere
incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato
l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa
proprio, se non vi partecipa vivamente (Redemptor
hominis
10).
Gesù ha aperto una via attraverso il dono totale e gratuito di se stesso
e, su questa via, invita ognuno di noi a seguirlo accompagnandoci e
sostenendoci con il suo Spirito. Sperimentiamo quanto il Vangelo sia
facile, perché il Regno dei cieli è dei piccoli e dei bambini, e quanto
sia allo stesso tempo difficile, perché sappiamo quanto impegno chieda
accogliere ogni giorno l’invito di Gesù ad andare al di là di noi stessi
«fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
Samuela Rigon
Francescane dell’Addolorata
e-mail: samu.rig@libero.it
1 Cf
F. IMODA,
Sviluppo umano, psicologia e mistero.
Edizione riveduta e aggiornata, Dehoniane, Bologna 2005 (cap. V: «Il
mistero umano e lo sviluppo dell’ortopatia», 179-246).