n. 10
ottobre 2002

 

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di Biancarosa Magliano
 

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Ci si potrebbe ripensare...

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1962 – 12 ottobre – 2002. Quarant’anni dal giorno memorabile in cui il Beato Giovanni XXIII dava solennemente inizio a quella stupenda avventura che, come evento profetico, non si è ancora conclusa: si sarebbe denominata Concilio Vaticano II. Una parola, che racchiudeva un concetto fortemente incisivo, coinvolgente e sconvolgente, provocatorio, subito si fece strada e volò per l’etere dell’universo: Chiesa povera, Chiesa dei poveri, Chiesa per i poveri. Da allora nel mondo intero, ma soprattutto nei continenti o nelle nazioni-regioni più povere e diseredate, molti religiosi e religiose hanno messo in questione il loro stile di vita. Convegni, incontri, dibattiti anche a toni forti, dobbiamo essere onesti e ammetterlo, hanno fatto rimescolare per così dire le carte in tavola e in verità molto è stato fatto. Molte opere sono state ridimensionate non senza una sofferenza mai conosciuta prima. Molte comunità hanno cambiato domicilio preferendo vivere “con e come i poveri”. Ci sono state spaccature. A volte si sono create distanze di opinione e di orientamento. E’ lo scotto da pagarsi negli stravolgimenti storici. Ma l’elenco continuativo dei martiri di questi anni e che la storia rimanderà ai posteri come memoria di eroismi semplici e genuini nella loro linearità, ne sono la prova più esplicita, che non teme in nessun modo la minima smentita: vite donate nella libertà assoluta e nell’amore supremo.

Ma tra la fine di agosto ultimo e i primi di settembre TV e carta stampata ci hanno posto dinanzi immagini, hanno fornito statistiche, han fatto previsioni, a dir poco scioccanti. Ancora e sempre sulla situazione di popoli allo sbaraglio, per carenza di viveri, per malattie indotte da un trend di vita estremamente gramo. “L’acqua è di tutti” è stato l’appello di Nelson Mandela, premio Nobel per la pace, leader anti-apartheid. “Il mondo può cambiare” disse a se stessa e decise Innocentia, a Soweto con tutti i suoi ragazzi, leader che aveva organizzato il controvertice a Joannesburg.

Dette immagini e statistiche sono la prova della veridicità di quanto affermava Paolo VI nella Populorum Progressio: “I ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri”.

Sono immagini e parole, non certamente virtuali; non sono state costruite da cervelli e da mani esperte su un computer pur sofisticato; documentano e certificano situazioni reali, concrete, che possono, anzi debbono, interpellare la  propria esistenza. Le esclamazioni pure e semplici di stupore o disgusto, la stessa compassione non seguita da fatti, non servono a nulla.

 E’ indiscusso che la testimonianza della povertà, se sarà profumo emanato dalla libertà del cuore ed espressione inconfutabile di carità, da parte di religiosi, è una forma di profezia che dice, pur senza proferire verbo, il primato di Dio nella propria storia e nella propria vita. Del primato di Dio tutti coloro che credono in un essere trascendente, sono coscienti, ma è necessario renderlo “patente”, solare; è necessario che questo 'primato' sia colto come verità che guida, orienta, accompagna la propria esistenza.

Vivere in povertà, quindi, e spendersi a favore dei poveri, anche quelli o quelle delle nostre comunità, ossia essere profezia di povertà e di carità.

La profezia della povertà, insieme con quella della carità, – e il martirio ne è l’espressione più evidente – oggi è la più persuasiva. Marino Qualizza scrive che un aspetto della profezia del credente è “dato dalla forza che l’amore di Dio dona ai credenti rendendoli liberi dall’affanno per le cose del mondo. Amare Dio con tutto il cuore significa entrare nel mondo di Dio e nel modo di giudicare e valutare le cose con il metro di Dio”. Dio deve “essere” ed “essere dichiarato” primo negli interessi, nelle finalità, con la vita, con le scelte che si fanno, con i valori di riferimento cui ci si appiglia. “Tutto questo – continua lo stesso autore – porta a un atteggiamento di libertà interiore quanto mai decisivo per una buona testimonianza profetica”. Si diventa allora profeti di una “libertà nei riguardi di tutto ciò che può condizionare a partire dal possesso e dal desiderio del possesso e del potere con i suoi addentellati”. E’ necessario, per essere profeti oggi e pertanto credibili, “vivere di una essenzialità e di una sobrietà (personale e comunitaria) che faccia parlare di sé”. Ma “ciò è dono di grazia che suscita amore e gioia per la libertà”. Lo si comprende e lo si vive soltanto se Dio concede la grazia di capirlo. Di qui l’urgenza di chiederla in preghiera e con disponibilità di cuore. Il resto potrebbe non contare nulla.

F. Martínez Díez, nel suo Rifondare la vita religiosa, sostiene che “la maggior parte dei problemi di cui oggi soffre la vita religiosa hanno la loro ultima radice nell’abbandono della povertà evangelica” e che la povertà è “la credenziale di tutto l’annuncio evangelico”. Così che “abbandonare la povertà evangelica è sottrarre credibilità alla Parola annunciata”.

Il discorso è di uno spessore enorme e non si risolve soltanto con ‘conversioni’ personali, pur encomiabili. E’ da farsi a livello comunitario o, meglio ancora, a livello istituzionale. Perché è un discorso che abbraccia la giustizia, la solidarietà, la condivisione, la compartecipazione – in convento e fuori – e deve essere posto all'altezza della complessità del mondo d'oggi e dei valori che esso propina e incoraggia. Tutti siamo chiamati in gioco. Il dominio o il prevalere dell'interesse individuale nelle comunità rovina l'interesse collettivo, istituzionale non solo, ma anche sociale.

Il quarantennio dall’inizio conciliare potrebbe essere una occasione propizia. Una opportunità. Perché tutto non rimanga soltanto ricordo pio e devoto,vissuto come un’emozione e nulla più.

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