n. 5
maggio 2002

 

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Farsi "poveri" per rispondere
alla povertà del mondo

di Fernanda Barbiero

 

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Ci sono abitualmente due modi di orientarsi nel mistero della povertà cristiana: uno mira al farsi poveri per Dio, incamminarsi nella povertà per seguire il Cristo. L’altro è incamminarsi in una scelta di povertà come Cristo. Normalmente, le religiose si appropriano il primo approccio, in cui la povertà rivolta a Dio è intesa come dedizione a Lui. Ma da questa povertà talvolta Dio sfugge: se l’uomo non lo raggiunge attraverso il cammino della relazione con gli altri si trasforma in una immagine falsa, accomodante. La concezione della povertà staccata dalla relazione fra persone si raggela e si deforma necessariamente. Non riesce a evitare il pericolo di trasformarsi in comodità. La povertà basata su permessi, sul conformismo comunitario, non arriverà mai al confronto provocatorio con il sistema di vita che mantiene povero il povero, che parla di giustizia e pratica l’oppressione.

Il problema della povertà nella vita religiosa

La maggior parte delle comunità religiose si ispira a questa visione, che a mio avviso non porta da nessuna parte perché è un’astrazione. Spesso una tale povertà religiosa è la comodità garantita alla persona che, per dedicarsi completamente alle cose divine, deve essere liberata dalla preoccupazione dello scambio dei beni e dalle complicazioni del vivere. Si cessa di riflettere su come cambiare il mondo. Si pensa alla povertà unicamente come distacco, come rinuncia e sfugge la dimensione per il regno.

La povertà talvolta ha finito per essere deformante anziché liberante. Ha generato poveri che vivono nella sazietà. Così che, di fronte alle gigantesche proporzioni della povertà nel mondo qualcuno ha iniziato a domandarsi se è onesto fare il voto di povertà e dire che i religiosi sono poveri. O se invece sia più giusto dire che si fa voto di classe media1. Si ha così la crisi della povertà: crisi di rilevanza e di identità. Pretendere di essere e di presentarsi come poveri davanti al vastissimo mondo della miseria dell’umanità, per i religiosi, oggi, diventa impresa difficile. Eppure la povertà resta un paradigma importante della vita religiosa, del suo futuro. La povertà è decisiva per la testimonianza della presenza di Dio, della sua fedeltà verso il mondo, del suo amore quale forza che trasforma il mondo e la storia. La sequela cristiana si orienta naturalmente e trova la sua norma in Gesù Povero, Crocifisso, nel suo stretto rapporto con il Padre e nel dono di se stesso per tutti, soprattutto per i poveri, nel servizio e nella morte, affinché tutti abbiano la vita, la dignità, e un futuro2.

 

Il sapore della povertà è Cristo

La seconda via, invece, mira a farsi poveri come Cristo. Si tratta della povertà che ha il sapore di Cristo perché Cristo ha il sapore della povertà. Si fa riferimento a Cristo e alla sua relazione con i poveri. Un progetto concreto perché entra in una storia umana. E qual è il progetto? Esaltare gli umili (Mt 23,12; Lc 1,48; 18,9-14), esigere che siano accolti gli esclusi (Mt 9,11; Mc 7,28), pretendere che i fratelli aprano le porte delle loro dimore a coloro che le hanno chiuse in faccia perché diversi (Mc 7,28; Lc 8,4-7). La cosa più importante nella testimonianza della povertà è impegnare tutto ciò che si è e si ha al servizio dei più bisognosi per trasformare il grido accusatore dell’ingiustizia in canto di lode e di benedizione: «Beati i poveri: ad essi appartiene il regno dei cieli» (Mt 5,3; Lc 6,20). E’ un invito ad ascoltare il clamore dei poveri come una chiamata a una conversione di mentalità e di comportamenti in ordine ai beni di questa terra (Mc 12,44; Lc 21,4); a non avere compromessi con l’ingiustizia e a lavorare per la giustizia, a condividere i beni dentro e fuori la comunità (Mt 19,21; Mc 10,21; Lc 12,33-34; At 2,32-44) a testimoniare il senso umano del lavoro, «svolto in libertà di spirito e restituito alla sua natura di mezzo di sostentamento e di servizio»3.

Parlando di povertà occorre parlare dei poveri i quali meritano un’attenzione preferenziale (Gc 2,5), qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano (quella donna ha l’amante, quell’operaio si ubriaca, tutti i sabati quel ragazzo si buca). Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, tale immagine è abbruttita e vilipesa; per questo Dio prende la difesa dei poveri e li ama (Gb 36,15; Sal 107,41; 109,31; 113,7; 132,15; 140, 3; Is 25,4; 57,14-21; Ger 20,13; Mi 4,7; 2Cor 9,9). E’ per questo che i poveri sono i primi destinatari della missione (Mt 11,5; Lc 4,18; 7,22; Is 61,1-2). La povertà nasce dall’interesse per il «Vieni e seguimi» di Gesù, (Mt 4,19; 9,9; 19,21; Mc 1,17; 10,21; Lc 5,10; 10,28; 12,33; 18,22); dal sentirsi chiamati in causa dall’ammonimento del Vangelo: «Non potete servire a due padroni» e «o servirete l’uno o servirete l’altro» (Mt 6,24; Lc 16,13). Non si può stare da una parte e dall’altra. Mi sovviene un’affermazione del padre De Foucauld. Meditando il mistero della nascita di Gesù, dice:

«Se c’è qualcuno che può contemplarti nella grotta continuando ad essere ricco io non lo so, io non posso».

L’espressione ripresa da A. Paoli è stata applicata alla vita religiosa nel modo seguente:

«Se avete trovato una giustificazione per seguire il Vangelo mantenendo uno standard di vita comoda, arrangiatevi, io non posso»4.

Il Vangelo trasmette l’azione di Gesù, la sua iniziativa che si incarna nella storia: evidenzia la necessità di concorrere attivamente a trasformare la storia in storia del regno ossia in storia salvifica. La prospettiva dalla quale guardare non può essere solo il desiderio astratto di imitare Gesù e di volergli appartenere interamente, ma quello di dedicarsi con tutto il proprio essere, di portare avanti la sua missione che è quella di trasformare la storia dell’umanità in storia di salvezza. La storia crea disuguaglianze, disparità, competizioni, dipendenze, ingiustizie; l’azione salvifica deve trasformare tutto questo ed essere generatrice di uguaglianza, di fraternità, di comunione. Se non si esplicita il desiderio di Cristo, si rischia di vanificare il Vangelo. Si tratta di seguire Gesù che toccava coloro che erano immondi (Mt 8,33; 9,29s; 20,34; Mc 1,41-42; 7,33; 8,22; Lc 5,13; 7,14), frequentava i peccatori (Lc 5,29; 19,7; Mt 9,11; Mc 2,16), dava il cibo che Lui non aveva alle folle affamate (Lc 13; 31,11; Mt 14,16; 15,33; Mc 6,37; Gv 6,5), difendeva i poveri, smascherava la loro vita deplorevole.

 

Rispondere alla povertà del mondo

Chi ascolta l’appello di Gesù che invita a seguirlo risponde lasciando tutto perché sia Gesù a prendere possesso della sua vita e attraverso di essa arrivare agli altri. Le implicazioni del seguire Gesù abbandonando ogni cosa sono molto serie sia dal punto di vista personale che sociale. Esse hanno una forte connotazione missionaria che spesso viene dimenticata. L’austerità e la sobrietà di vita che marcava il modo tradizionale di vivere la povertà evangelica non è più sufficiente e non risponde interamente alla vita dei discepoli che vogliono seguire Gesù. C’è stato un cambiamento di prospettiva nella riflessione sui voti e in modo speciale sul voto di povertà, sul suo senso, sulla portata e sulla sua testimonianza nel contesto della povertà mondiale. La povertà del discepolo è una risposta alla povertà del mondo.

La dimensione sociale della vita religiosa esige un amore a dimensione sociale. La missione vive di un amore concreto ed efficace per i poveri (Lc 4,18; 7,2; Mt 11,5; cf Is 61,1). Il povero non è unicamente la persona isolata, ma le grandi masse, le folle verso le quali come Gesù occorre sentire compassione (Mt 9,36; 14,14; 15,30-32; Mc 6,34; 8,2; Lc 9,11; Gv 6,5). I mezzi dell’amore individuale sono limitati, insufficienti e corrono il rischio di lasciare le cose come stanno. Diventa necessario superare una visione intimistica e individualista dell’amore del fratello che è nel bisogno. L’amore del prossimo ha una dimensione storica e domanda nuove mediazioni che diano all’amore del prossimo la necessaria efficacia:

«Esigenze quali la non violenza cristiana, la protezione dell’ambiente, la responsabile pianificazione della famiglia, la prevenzione sanitaria, la responsabilità politica e così via possono avere per lo meno tanto rilievo quanto i singoli precetti dell’amore al prossimo che una volta venivano considerati e predicati come il contenuto del comandamento dell’amore del prossimo»5.

Dio infatti non è insensibile alla sofferenza dei derelitti, dei miseri, dei sofferenti (Es 3,8; Dt 32,36; Gdc 10,16; 2Re 20,5; 2Mac 7,6; Sal 86,15). L’impegno di povertà nella vita del discepolo si dà perché egli sia disponibile a Cristo e lavori come Lui e con Lui per una umanità più giusta e fraterna. La povertà non è una chiamata a gettare tutto dalla finestra o a vivere senza niente. La legge dell’incarnazione ci fa partecipi e amanti di questo mondo come Dio ama il mondo e ci rende soggetti alla temporalità e all’economia. La povertà - perciò - diventa un serio appello a essere responsabili di quel che guadagniamo e di quello che spendiamo, di come lo guadagniamo e soprattutto in che cosa lo investiamo, con quali motivazioni e con quali fini (Lc 14,13). Essa rimanda all’agire di Dio che ha inviato il Figlio Gesù.

Egli ammaestra sul servizio ai poveri con l’impoverirsi, arricchendo del suo donarsi all’umanità. Nella sua povertà, nel suo darsi via per amore offre un segno tangibile della povertà di Dio. «Si è fatto povero per arricchirci della sua povertà» (2Cor 8,9; 1Cor 11,17-22); Si è fatto conviviale dei pubblicani e dei peccatori (cf Mt 11,19; 9,11; Mc 2,15; Lc 15,2). A questa convivialità sono invitati tutti i discepoli6. Tutti sono sollecitati a maturare l’atteggiamento partecipativo secondo la logica di Cristo. Resta per tutti la responsabilità a impoverire se stessi nella condivisione dei beni per aprire il cuore agli altri. Chi conserva la vita la perde, chi la dona la guadagna. La missione passa attraverso queste reti di solidarietà7.

 

I volti

Essere al seguito di Gesù, impegna a condividere la sua avventura con i poveri e per i poveri (2Cor 8,9). Una sfida a farsi poveri (Mt 19,21) e ad amare e servire i fratelli poveri. L’incontro con essi non può avvenire che nella stessa prospettiva di Gesù (Gc 2,5; Lc 2,38), vale a dire nella prospettiva del suo annuncio di salvezza e di liberazione (Mt 19,27; Mc 10,28; Lc 18,28-29). E’ entrare nella sua storia di amore e di misericordia, di liberazione e di compassione che promuove la dignità delle persone e non restare neutrali di fronte all’ingiustizia del mondo. La parola povertà si riempie di contenuto a partire dall’incontro con i poveri, gli uomini e le donne che sono in difficoltà di fronte alla vita. La povertà è un male, un disordine, se impedisce alle persone di soddisfare i propri bisogni umani materiali e spirituali.

«La povertà è fame. La povertà è vivere senza un tetto. La povertà è essere ammalati e non riuscire a farsi visitare da un medico. La povertà è non potere andare a scuola e non sapere leggere. La povertà è non avere un lavoro. La povertà è timore del futuro, vivere giorno per giorno. La povertà è perdere un figlio per una malattia causata dall’inquinamento dell’acqua. La povertà è non avere potere e non essere rappresentati adeguatamente. La povertà è mancanza di libertà»8.

La povertà assume volti diversi, che cambiano nei luoghi e nei tempi: sono i senza terra, gli indebitati, le vittime del delirio di onnipotenza del nostro mondo che sfida il Vangelo.

«Si muore a 30 anni nelle miniere boliviane, a 3 di diarrea nell’ospedale di Kinshasa (Congo). Si muore di morbillo a 4 anni… a 5 di tubercolosi… a …

Si muore a 15 anni per overdose nelle grandi metropoli del Nord del mondo»9.

La sfida del cambiamento per una più giusta distribuzione delle risorse richiede azioni da parte di tutti, richiede di cambiare il mondo per far sì che molte più persone possano avere un buon livello di nutrizione, un alloggio adeguato, accesso all’educazione e alla salute, protezione dalla violenza e voce in ciò che succede nella loro comunità. Non abbiamo che da interpellarci sulle Beatitudini. Già Gandhi diceva: «Voi avete tutto nelle Beatitudini». Forse dobbiamo liberarle dalla sola dimensione personale in cui le abbiamo vissute dando loro un respiro planetario: Beati i poveri del mondo. Gesù muove i suoi passi sulle strade dell’uomo quale Messia dei poveri, Colui che si cura dei loro mali e soccorre Israele (Lc 1,54-55; Mt 4,23-24) e il suo Regno è Regno di giustizia, ovvero Regno dove gli uomini vengono resi giusti dall’iniziativa gratuita e compassionevole di Dio.

Occorre prendere parte al sogno universale di Dio per l’uomo. Uscendo dallo spirito di autoreferenzialità secondo cui ci si sente a posto e legittimati nel pensare solo alle cose proprie. Per questo la piccineria prende il posto dell’ideale, occupa gli spazi della mente e del cuore rendendo irrilevanti e insignificanti i desideri di Dio sull’umanità. Il sogno di Dio si allarga alle dimensioni della storia, dell’umanità e non cessa di raccogliere nell’otre suo le lacrime dei miseri (Sal 56,9). I suoi orecchi ascoltano il grido del povero (Pr 21,13; Gb 34,28; Sal 119,169) e il clamore delle angosce del mondo (Ger 11,11s): Beati i poveri del mondo!

 

Irrinunciabile immergersi nei popoli e nelle loro culture

Per rispondere alle varie forme di povertà nel mondo di oggi occorre andare a, immergersi in popoli e culture, storie e religioni differenti, esplorare l’ignoto e allo stesso tempo rimettere in discussione se stessi. La nostra preparazione al pluralismo, alla diversità, alla varietà tuttavia è ancora insufficiente. Tendiamo a riproporre noi stessi sempre allo stesso modo, e ci rendiamo conto che questo non è giusto. Le culture sono in movimento: nuove culture si delineano e vanno accolte, così come è necessario avere coscienza delle loro radici e tradizioni; altrimenti si presenta un Vangelo incomprensibile.

In questi ultimi decenni sono accaduti numerosi cambiamenti che mettono in revisione la missione; altri stanno avvenendo. Nelle Nazioni sviluppate dal potenziamento enorme della vita umana, con i progressi esplosivi nel campo scientifico e tecnologico, stiamo assistendo al fenomeno della disintegrazione sociale e spirituale caratterizzato spesso da una incessante ricerca di novità, una mentalità consumistica a tutti i livelli, sia rispetto ai beni materiali che alle nuove esperienze spirituali. Nei Paesi di missione sorgono nuove identità politico-sociali delle nazioni; particolarismi culturali e rivendicazioni etniche; conflitti regionali accentuati dalla fine dei due grandi blocchi contrapposti comunista e liberale; l’impatto dei mass-media sulle culture e sulla vita quotidiana della gente; rottura delle tradizioni razziali e culturali; rinascita di molte religioni che a volte diventano strumento di potere politico ed economico.

La lista potrebbe continuare a lungo. Basta dire dell’Asia, dove vive la maggior parte della popolazione e meno del 3% dei cattolici del mondo. Ma ci sono anche le aree pressoché sconosciute, dell’ex Unione Sovietica, nazioni relativamente piccole nate dalla frantumazione di blocchi più grandi (la ex Russia, la ex Jugoslavia, e molti paesi africani) con situazioni del tutto diverse e nuove, problemi da affrontare in modo diverso. Si pensi alla assenza di religiosità rispetto alla profonda e diffusa religiosità dell’Asia. Si pensi al problema delicato dei rapporti con l’Ortodossia. Enorme e complesso, dunque, il mondo cui la missione si rivolge. In essa la povertà prende molte dimensioni che si combinano in modo tale da creare e mantenere uno stato di impotenza, in cui manca la libertà di azione e di scelta, in cui si ha la sensazione di essere senza voce e si vive di paura per il futuro.

La insopprimibile dimensione contemplativa della povertà

Allora la chiesa che è nella storia, non come spettatrice dall’esterno, deve fare i conti con la storia e quindi con la sua infinita varietà di situazioni. Deve misurarsi con la continua evoluzione del mondo e sua. Anche la Chiesa che cammina con i popoli e si immerge nelle culture sta ponendo nuovi interrogativi alla missione. Oggi, il passaggio dal regime di statuto di missione alla responsabilità diretta delle chiese locali per la missio ad gentes ha imposto la ricerca di modalità nuove di presenza e di lavoro.

La vita religiosa ha parte attiva nel ridefinire il rapporto con le chiese locali e nella testimonianza evangelica della povertà. Deve trovarsi a proprio agio nell’imitare il Gesù Incarnato piuttosto che il Cristo Esaltato, prendendosi l’incarico che gli è proprio di vivere l’Incarnazione, ossia la vicinanza di Dio ai poveri. La sua competenza nell’essere esperta di Dio va espressa anche nello stare vicina all’uomo, alle sue preoccupazioni, alla sua felicità. Soltanto se parla in modo credibile dell’uomo allora parlerà in modo convincente di Dio. In questa direzione la vita religiosa trova la possibilità di ritrovare la sua ispirazione evangelica e la sua insopprimibile connotazione contemplativa. Occorre riprendere lo sguardo contemplativo sul mondo e sull’uomo. Non lo sguardo superficiale che vaga nell’attualità, che si sofferma sulla facciata delle cose, ma quello che si sofferma a guardare, ad ascoltare, a tastare e sentire, quello che lascia che le cose gli si avvicinino e comincino a parlargli.

Chi guarda a lungo Dio si sente spinto a vivere la dinamica della sua divina nostalgia per l’uomo. Colui che fissa lo sguardo in Dio è inviato da Lui verso l’uomo, nella Creazione, nella Incarnazione. Se si guarda Dio Egli ci porta con sé verso il mondo. Ci educa a un incessante descendit. Il descendit - dunque - ha rapporto diretto con la povertà dei religiosi, ossia la povertà scelta liberamente. Essa è un cammino verso il basso, è la scoperta della grandezza del piccolo, del semplice; un cammino verso le radici e si avvicina a coloro il cui destino ineluttabile è la povertà.

La povertà dei religiosi e la vicinanza ai poveri sono due facce della stessa realtà10. Perciò la povertà interroga la missione e il modo di capirla. La proposta che scaturisce dall’amore per gli ultimi allude sempre all’evento dell’Incarnazione che si congiunge all’offerta della Croce includendo tutto il mistero di Gesù. Per i nostri tempi occorre una ricompressone e riformulazione della povertà in prospettiva della missione: passare dal dono delle cose al dono di se stessi: «date voi stessi da mangiare». Si tratta di risignificare la povertà con la carità fino a quando la pasqua di Cristo sarà la pasqua del mondo, sarà la pienezza della missione. Il dinamismo della pasqua percorre tutto il mistero della povertà per il regno dei Cieli e norma la missione in tutte le sue articolazioni. Oggi più che mai sorge il bisogno di coniugare povertà e missione, missione e storia, storia e salvezza. E’ un tumultuare di interrogativi, di questioni aperte e bisogna fuggire dalla tentazione di pretendere semplificazioni impossibili o distorcenti. La complessità sta nei fatti, nella realtà. Ma accogliere la complessità non significa vivere nella confusione, bensì accogliere la situazione di fluidità e non pretendere spiegazioni teologiche definitive che rispondano a tutte le domande. Lasciare spazi incerti o discutibili è inevitabile.

«La chiesa è un popolo che cammina, un organismo che opera con la varietà delle sue membra, non un esercito uniforme e inquadrato che conquista11… Bisogna quindi accogliere la complessità di metodi, di approcci, di riflessioni teologiche e di carismi perché la chiesa possa meglio stare in mezzo agli uomini e svolgere per loro e con loro la sua missione»12.

Chi non percepisce la povertà 
non è in grado di stare al fianco dei poveri

I discepoli del Signore, abbandonando ogni isolamento culturale, superando il ripiegamento su se stessi, devono cercare di recuperare una rilevanza, a livello di prassi, nella sfera di una povertà vissuta per il mondo, per gli altri, una solidarietà con tutte le persone che sono minacciate e tradite nel loro essere umano. I discepoli del Signore si devono collocare a fianco dei poveri in una società e in un mondo in cui la povertà è in crescita. Chi non percepisce la povertà non è in grado di stare al fianco dei poveri. Occorre riconoscere i vari volti della povertà dentro l’economia di mercato che non ha riguardi per nessuno e che la globalizzazione rinforza, spingendo ai margini e producendo nuovi poveri. Una vita religiosa incapace di trasformarsi, per essere nella sfera di questi contesti mutati, a servizio della dignità umana, si fossilizza e si spegne. Diventa una setta insignificante, situata ai margini di una società in rapida trasformazione.

Nel presente contesto della globalizzazione neo-liberale che promuove il consumismo e un eccessivo accumulo di beni, i discepoli del Signore Gesù sono sollecitati a vivere la spiritualità della sufficienza, la capacità a vivere col minimo e a dire basta. Vivere con il minimo assicurerà qualcosa per i più poveri. Occorre allora tenersi informati su ciò che accade nel mondo; permettere ai poveri e agli oppressi di lavorare per la propria liberazione; promuovere la giustizia ecologica, ossia i giusti rapporti con tutta la creazione assicurando in tal modo le risorse della terra alle future generazioni; impegnarsi a cambiare sistemi e strutture per l’uguaglianza e la liberazione dall’oppressione; fare una scelta radicale a favore di una vita centrata su Cristo e sui suoi valori piuttosto che sul denaro, sui beni e sul loro valore relativo.

 

La lezione di un Dio povero e crocefisso

Per il mondo di oggi la povertà dei religiosi è chiamata a un nuovo modo di relazionarsi con la gente e con le proprietà per trattare tutti con equità. Dove esiste la povertà interiore, la semplicità, l’umiltà, là esiste la povertà materiale. Vivere poveramente significa vivere e agire con giustizia; avere relazioni con tutti senza esclusione e, soprattutto, con i poveri e gli emarginati come faceva Gesù13. Il Vangelo di Matteo 25 insegna che si trova Dio nelle immagini crocifisse di Gesù: gli affamati, gli assetati, i senzatetto, gli ignudi, i malati, i carcerati.

«Se un tale vuole diventare cristiano, non mandarlo nelle chiese ma negli slums. E’ qui che troverà Cristo»14.

Al fine di tradurre concretamente la sequela di Cristo in modo tale che susciti e rafforzi la fede e realizzi il progetto di amore del Padre, occorre imboccare la via critica e politica. Ossia quella che realizza la più antica idea di una chiesa per il mondo, una chiesa per gli altri. Soltanto alienandosi nell’altro, l’uomo giunge a se stesso. «Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma colui che dà la propria vita la salverà» (Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 17,33). Ma l’essere per gli altri perde di significato quando non si è altri dagli altri, ma soltanto loro compagni di viaggio. Soltanto chi trova il coraggio di essere diverso dagli altri può, in definitiva, essere per gli altri. Si tratta di prendere sulle proprie spalle la croce e battere la stessa strada di Colui che ha rinunciato alla propria identità divina e ha trovato la propria identità sulla croce (Fil 2). La vera esistenza cristiana può stare solo sotto la croce. Colui che segue Gesù senza riserve si trova a porre in gioco la propria vita quando ciò serva di aiuto al prossimo bisognoso.

L’itinerario evangelico della vita religiosa inizia nella consegna totale allo Spirito del Signore, inizia cioè da quello spirito di povertà (cf Lc 1,48) che non lascia più nulla nel discepolo se non la semplicità dello sguardo fisso in Dio. L’amore che nasce e che si dona e che non ha luogo, né tempo trasporta il discepolo fino a immergerlo nell’abisso infinito di Dio per farlo amante del Crocifisso povero, con cui desidera identificarsi.

La povertà cristiana, trova il proprio criterio intrinseco nel Dio povero e crocifisso: la Croce prova tutto ciò che merita di essere qualificato per cristiano. Si potrebbe aggiungere che soltanto la croce e null’altro, lo prova. Ora questa mistica della croce tipica dei poveri e degli oppressi, in effetti è espressione della miseria e implicitamente anche protesta contro la miseria. Ma nel suo nucleo essa è espressione della dignità umana e stima per l’uomo derivate dall’esperienza del rispetto che Dio usa nei suoi confronti. Dunque si segue Gesù quando tutto viene tradotto nella fede in lui e si assume come propria la sua missione fino a viverla come personale responsabilità. La povertà evangelica diventa in tal modo ricerca prospettica, linea di tensione, meta verso cui tendere perché è realtà da costruire nella fedeltà quotidiana, nei rischi, nell’inventiva, nella vittoria sulle paure, sulle diffidenze, sulle remore.

«Viviamo in un’epoca sicuramente senza precedenti e nella situazione presente l’universalità, che un tempo poteva essere implicita, deve essere totalmente esplicita. Essa deve impregnare il linguaggio e il modo di essere. Oggi non è sufficiente essere santo: è necessaria la santità che il momento presente esige, una santità nuova anch’essa senza precedenti»... Questa matura «nella solidarietà incondizionata con gli ultimi, vissuta nella propria carne»15.

Scrive, così, S. Weil che ne ha dato testimonianza caricandosi delle croci e delle povertà dell’umanità, espropriandosi, come Gesù, della sua condizione di privilegio per servire i poveri da povera.

 

Beati voi che avete un’anima da povero

La via della povertà o la si vive o non è. La povertà cristiana ha come punto di riferimento assoluto Cristo. O è relazione con Gesù di Nazaret e allora è una via di umanizzazione, di libertà, di maturità o non è quella di Cristo: non è quella evangelica. Non c’è altra alternativa che quella di far crescere la coscienza di ciò che significa e implica voler seguire Gesù povero e non tanto i controlli e la dipendenza. Innanzi tutto questo significa frequentare Gesù.

Per crescere nella povertà occorre pregare molto, è fondamentale la contemplazione e mettersi alla scuola dei poveri... Perché la povertà non è una virtù tra le altre da acquistare, ma è seguire Gesù povero, confrontarsi costantemente con il cuore, la vita, la parola di Gesù di Nazaret16; obbedire come Lui al sogno del Padre per tutta l’umanità. Allora sì, si potrà dire Beati voi che avete un’anima da povero perché nell’imitazione di Cristo povero, si confessa, si celebra il sogno di Dio, ossia il Regno di Dio come tesoro assoluto della vita, come perla raffinata di grande valore per la quale vale la pena di rinunciare a tutti i beni per comperarla (cf Mt 13,44-46).

 

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