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n. 1 del 2002

 

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Sperare con cuore povero e casto
di Paola Moschetti
 

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La speranza è la virtù dei poveri. L’affermazione, umanamente amara, si carica per noi di attese inesprimibili, tanto più se possiamo dire che è anche la virtù dei vergini. Ed è importante introdurci in una riflessione sulla speranza pensando che nella vita cristiana essa non è solo una virtù ma anche un dono. Il che apre a una dimensione mistica in cui la persona viene proiettata verso orizzonti infiniti, che al cuore è dato sperare.

Ora, ogni cuore spera nei valori in cui crede. Nel nostro caso lo Spirito ha già effuso una certa luce su quel che ci attende come creature destinate a partecipare alla vita divina. Lo sguardo interiore si è orientato verso l’inesprimibile da cui il cuore è stato afferrato e la speranza fiorisce bella, quanto più si affina attraverso le virtù cristiane che educano la persona.

Qui vediamo come castità e povertà s’accompagnano con la speranza. Per noi sono a un tempo voti e virtù che ci conformano a quel «genere di vita verginale e povera che Cristo Signore si scelse per sé e che la Vergine Madre sua abbracciò» (LG 46). E’ facilmente intuibile la valenza che esse hanno sulla speranza come virtù infusa. E anche a voler guardare più dall’esterno, rendono la persona consacrata testimone privilegiata della speranza nel Regno che viene.

Stando alla suggestiva intuizione di C. Péguy, la speranza è come la “sorella minore” che tira le altre due grandi virtù, la fede e la carità. Vorrei riprendere questa immagine, per vedere a loro volta povertà e castità come due umili virtù che trascinano verso la grande speranza.

Una speranza di cui l’umanità oggi ha più bisogno che mai. Il progresso stupendo raggiunto richiede un dono dall’alto che lo purifichi e lo orienti lì dove possa essere valorizzato e assunto per il bene dell’uomo. Al timone di tante realizzazioni ambigue può essere determinante la presenza di un cuore aperto alla speranza.

Ma una speranza eroica, frutto di santità. Come quella di chi sceglie di vivere povero e casto per entrare più profondamente nella comunione con Cristo. Dovremo anche riconoscere che è funzione particolare di chi è consacrato vivere la speranza come attesa della venuta del Signore. E in questa attesa ottimista e fiduciosa lasciar trapelare i bagliori di una gloria in qualche modo già iniziata.

 

L’ora di una speranza eroica

Stando agli orientamenti che ci vengono dal magistero di Giovanni Paolo II, non si può parlare di autentica vita cristiana se manca un fondamentale impegno alla santità. E santità vuol dire virtù vissute fino all’eroismo.

Quando si fa il processo canonico per dichiarare che una persona è santa, ciò che conta non è tanto quel che ha fatto quanto il modo eroico in cui ha portato avanti la sua esistenza cristiana, con particolare riferimento alla fede, alla speranza e alla carità, le virtù teologali che ci tengono in comunicazione con Dio e da lui ci fanno attingere le risorse per la nostra santità.

Lasciando come base la dipendenza reciproca che esiste tra queste virtù-dono, veniamo alla speranza per vedere come si colloca nella teologia e nella spiritualità dei nostri giorni. Con la riflessione offerta dal Concilio Vaticano II, la Chiesa sembra essersi maggiormente focalizzata sulla dimensione escatologica dell’esistenza umana. E così l’accento si è spostato sulla speranza come virtù che anima le prospettive della fede e spalanca l’eternità al desiderio di amore.

Potremmo dire che fede e carità si espandono nella speranza. Alla luce del mistero pasquale di morte e risurrezione si aprono nuove prospettive. «Allora nella speranza avviene la extensio animi ad magna, come era chiamata nel Medioevo. Nel fatto di Gesù Cristo la fede discerne l’alba di quel futuro di apertura e di libertà. La speranza che ne nasce spazia sugli orizzonti che in tal modo si aprono dinanzi a una vita altrimenti chiusa. La fede vincola l’uomo a Cristo. La speranza rende quella fede aperta all’onnicomprensivo futuro di Cristo».1

Per ogni cristiano la speranza diventa attesa di un compimento in ordine al quale anche le realtà terrene vengono viste sub specie aeternitatis – alla luce dell’eternità – e l’animo si carica di energie per impegni diversamente insperati. Questo noi vediamo nei santi. E in ultima analisi dovremo dire che in essi la speranza è stata la forza motrice per arrivare a realizzazioni, piccole o grandi che siano, ma eroiche. Anche «sperando contro ogni speranza», come Abramo (Rm 4,8).

E’ chiaro che nel costruire un livello alto della speranza confluiscono tante virtù della vita cristiana, come povertà e castità che qui ci riguardano. E queste, in ordine alla speranza, hanno un valenza non solo come virtù ma anche come voti. Perché i voti sono delle promesse e ogni promessa è collegata con la speranza. Nella promessa, poi, c’è qualcosa di immortale.

Bisognerà coltivare la speranza come la piccola gemma turgida di vita, come scrive Péguy. Fino a diventare noi stessi il germoglio da cui viene tutto. «Ora, io ve lo dico, dice Dio, senza questo germogliare della fine d’aprile… senza quell’unico piccolo germogliare della speranza, che evidentemente chiunque può spezzare, senza quella tenera gemma cotonosa… tutta la mia creazione non sarebbe che del legno morto (…) Quando vedete tanta forza e tanta rudezza la piccola gemma tenera non sembra proprio più nulla. E’ lei che ha l’aria di essere parassita dell’albero… Eppure è da lei che tutto viene».2

 Siamo stati «rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3), che zampilli da noi come fonte di vita eterna anche per gli altri. Quanto più è viva ed eroica, tanto più è feconda. Mi riferisco a una speranza capace di recuperare tutte le illusioni che orientano l’umanità verso valori falsi, che distruggono la persona. I santi, con le opere e con la preghiera, si sono sempre impegnati a far cambiare rotta ai cammini sbagliati; si sono posti al timone della storia sia nel nascondimento, sia coinvolgendosi in prima persona negli eventi del loro tempo.

Perché l’atteggiamento cristiano, proprio in forza della speranza, non è mai passivo. E si spera anche in vista di quello che sarà il nostro destino eterno. Intuiamo che ameremo e conosceremo Dio nella misura in cui le nostre facoltà si saranno impegnate in questa esistenza terrena. Ora, proprio la speranza ci spinge a crescere per fare grande l’eternità dove, chiamati secondo il disegno di Dio, siamo predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, nella gloria (cf Rm 8,28-30).

Un nuovo modo di esistere che continuerà a tenerci coinvolti, insieme a Cristo, nella vicenda umana. Come intuiva anche Teresa di Lisieux: «Se Dio misericordioso esaudisce i miei desideri, il mio paradiso trascorrerà sulla terra fino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio Cielo a fare del bene sulla terra».3

 

Mia parte è il Signore

 La spiritualità cristiana e la tradizione monastica da sempre hanno colto un nesso tra i consigli evangelici della povertà e della castità e la virtù della speranza. «La pratica della rinuncia, mediante la povertà volontaria, è un atto nobilissimo della speranza, virtù teologale».4

Quando i beni terreni sono valutati e usati per quello che sono, nella verità, e il cuore si dà totalmente a Dio senza rimpianti per le creature, nell’animo esplode la speranza.

«Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
      nelle tue mani è la mia vita.
      Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
      è magnifica la mia eredità» (Sal 15,5-6).

Si può far riferimento a questi due versetti del salmo per dire lo stato d’animo della speranza. E’ chiaro che tutto l’essere, trasportato dallo Spirito, è andato oltre. Gesù non ci lascia nel vuoto. Vuol trasferire l’interesse del cuore umano verso altri valori: «Dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34). Se il tesoro è nel Signore, possiamo pure identificare la povertà con la speranza.

Per vedere come anche il dono del nostro corpo a Cristo sia in vista di una ulteriorità, bisogna andare alle espressioni con cui i primi Padri della Chiesa si rivolgevano alle vergini consacrate. «Custodite, o vergini, custodite ciò che siete. Custodite quello che sarete. Vi attende una magnifica corona. Il vostro coraggio avrà la meritata ricompensa. Alla vostra castità sarà riservato un dono eccelso. Voi avete già cominciato a essere quello che noi saremo. Voi avete già in questo mondo la gloria della risurrezione».5

Camminiamo nell’esistenza terrena sapendo che Dio è la nostra sorte per sempre (cf Sal 72,26). Questa coscienza rende liberi, audaci e ottimisti. Un ottimismo che diventa fiducia nell’amore di Dio: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dall’amore di Cristo?… Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze né profondità, né alcun’altra creatura potranno mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).

La speranza nutrita in un cuore povero e casto diventa via del ritorno a Dio, prima ancora di essere attesa della sua venuta. «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,2-3).

Una esigenza di purità che ci rimanda a un certo “vuoto” di cui parla san Giovanni della Croce a proposito della speranza. «Vivendo nella speranza, in cui è impossibile non sentire un certo vuoto, l’anima emette un gemito, anche se soave e delicato, proporzionato a quanto le manca per raggiungere il possesso perfetto dell’adozione dei figli di Dio dove… anche il desiderio diventerà quieto».6

Quanto più la persona purifica le sue facoltà, tanto più spera in Dio a un livello adeguato a quel che Dio è. E in proporzione della speranza comunica con Dio e lo possiede. Quindi la speranza come passione umana va orientata in modo che desideri solo Dio: su questo desiderio, inizialmente anche impuro, viene a innestarsi la speranza come virtù infusa.

 E’ interessante l’intuizione di Divo Barsotti secondo cui Dio ha creato l’uomo in modo tale che dall’uomo stesso poi dovesse dipendere il compimento del suo essere. Se si fosse volto a Dio, egli avrebbe tratto con sé, nel suo ascendere a Dio, anche il suo corpo, e con il suo corpo tutto il mondo creato. Ma avendo abbandonato Dio per fermarsi alle cose, ora «per ritornate a Dio, deve distaccarsi da loro, deve, in una sua rinnovata verginità, sciogliersi dal legame alle creature e ordinarsi totalmente a Dio».7

In questa via del ritorno si legano povertà, castità e speranza: andare oltre le cose materiali, gli affetti sensibili, lasciando che l’anima venga attirata dall’alto. Rivolgersi a Dio, sublimando tutta la natura, secondo l’audace aspirazione di Paolo: «Sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste… In realtà quanti siamo in questo corpo, sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita» (2Cor 5,2.4).

 

3. Nell’attesa della beata speranza

Quando il cuore diventa povero e casto, avendo trovato il suo bene nel Signore, quel che spera lo attende. L’attesa è da sempre nota caratteristica della spiritualità cristiana e ad essa ci richiamano anche oggi i nostri Pastori: «Noi viviamo tra il giorno della risurrezione di Cristo e quello della sua venuta. Egli è colui che verrà alla fine dei tempi, per portare a compimento in tutto il creato la volontà del Padre. Per questo il cristianesimo vive nell’attesa, nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa viene meno c’è da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile, la speranza fondata».8

Dobbiamo riandare alle origini della vita evangelica per respirare il clima in cui ci si muove quando si aspetta il ritorno del Signore come qualcosa di immediato. Tutto quel che è terreno diventa relativo. Lo mostra bene la nota pagina della prima lettera ai Corinzi, dove Paolo parla di matrimonio e verginità. Ciò che conta è tendere verso il Signore ed adeguarsi a lui, liberi da ogni altra cura terrena. In tal senso il rimanere vergini si presenta come una condizione privilegiata.

 Con il trascorrere dei secoli, la dimensione profetica di chi si dona totalmente a Cristo viene avvalorata. «Alla vita consacrata è affidato il compito di additare il Figlio di Dio fatto uomo come il traguardo escatologico a cui tutto tende, lo splendore di fronte al quale ogni altra luce impallidisce, l’infinita bellezza che, sola, può appagare totalmente il cuore dell’uomo» (VC 16). La vocazione alla verginità diventa così vocazione ad evangelizzare l’attesa del Signore, in modo che tutta la Chiesa tenda verso la pienezza di quanto la fede ci promette e la speranza ci fa aspettare. Tutti siamo chiamati a vivere nell’unica fondamentale tensione verso il ritorno di Cristo.

La parabola delle dieci vergini che attendono lo sposo esprime bene la situazione della Chiesa intera chiamata a vegliare. «L’attesa, che non è vigile, non è più attesa: è distrazione, noia, addormentamento. Tocca ai poveri del Signore richiamare con la loro vita il senso e la logica dell’attesa: perché il compimento sia da Dio e secondo Cristo, non dalla sapienza dell’uomo. Tra i poveri del Signore staranno anche i vergini: nella loro solitudine e nella loro sterilità».9

 Un cuore libero diventa capace di sperare con umiltà e senza presunzione, sulla stessa lunghezza d’onda di quel che lo attende: qualcosa che si coglie solo con lo spirito, perché la vita dei risorti non può essere immaginata con le nostre categorie.

Quando gli autori del Nuovo Testamento ci provano ad abbozzare quel che sarà la vita eterna, finiscono piuttosto con il raccomandare le condizioni per attendere e anche per “affrettare” la venuta del giorno di Dio. Ci si prepara nella “santità”, dice esplicitamente Pietro. E aggiunge ancora: «Secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace» (2Pt 3,13-14).

Anche Paolo suggerisce quello che deve essere l’atteggiamento cristiano nell’attesa della beata speranza: «vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2,11).

Una attesa che non distoglie dal presente. «La sostanza del presente non è (come si dice generalmente) l’attenzione: è l’attesa, ossia la proiezione del nostro essere verso ciò che non è ancora. L’essenza del presente è questa tensione, questo slancio; se viene meno la speranza, allora il presente ricade in malinconia».10 Siamo più condizionati dall’attesa del futuro che dal possesso del presente.

La liturgia della Chiesa ci offre ogni anno il periodo dell’Avvento per ricaricarci di speranza. Non è solo attesa della nascita di Gesù. E’ fiducia che la presenza di lui nella storia faccia progredire tutta l’umanità verso quella destinazione divina che la attende.

Un compimento affidato anche al desiderio che viene da un cuore umile: quel puro desiderio che è molto di più del bisogno di Dio. Viviamo in una cultura in cui fare cose sembra più importante che aspettare il Signore. L’attesa è specifica della femminilità matura. Ritorna alla mente il coro delle donne di Canterbury nel dramma che rievoca l’assassinio di S. Tommaso Becket: «Per noi, le povere, non v’è l’azione ma solo l’attendere e il testimoniare».11

E’ difficile stare attivamente in silenzio alla presenza di Dio. Eppure è in questa presenza che vive la speranza e il cuore esce nel grido accorato con cui si chiude la Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!».

 

Cristo in voi, speranza della gloria

E’ nota l’immagine di san Bernardo secondo cui esiste un medium adventus12 del Signore, il quale viene fin d’ora in coloro che lo accolgono e con la sua misteriosa e dolce presenza fa già assaporare i frutti della adozione a figli di Dio. Un sapore che non è possibile cogliere senza un cuore povero e casto.

Per dare concretezza a una speranza che si inveri lungo il cammino del nostro vivere con Cristo, guardiamo alla figura di Maria: in lei tutte le attese cristiane sono diventate realtà. E se dovessimo ricercare il segreto di tanta grandezza, non potremmo trovarlo altro che nella sua “purità”, un traguardo al quale ci è dato levar lo sguardo nella speranza. Ricordiamo l’esortazione di sant’Ambrogio, il cantore della verginità consacrata: «Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio; se secondo la carne una sola è la Madre di Dio, secondo la fede tutte le anime generano Cristo; ognuna infatti accoglie in sé il Verbo di Dio purché, serbandosi senza macchia e libera dal peccato, custodisca con intemerato pudore la castità».13

Se questo è vero, le cose grandi nel cristianesimo non sono una utopia. Con la novità di vita la persona è chiamata anche ad anticipare. «Anticipare, cioè realizzare nel tempo, fino ai limiti delle possibilità umane fecondate dalla grazia di Dio, le promesse escatologiche di cui siamo in attesa: la pace, la libertà, la salute, la giustizia, la comunione, la condivisione… L’anticipazione è il primo dovere della speranza».14 In realtà tanti santi agli occhi del mondo sono apparsi utopisti.

La speranza è virtù attiva, che incide nella vita e nella storia preparandole alla venuta del Regno. Una preparazione che è in qualche misura prefigurazione, come ci dice la dottrina del Concilio Vaticano II. «L’attesa di una nuova terra non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo» (GS 39).

Vorrei leggere in questo anticipare non solo quel che si diventa capaci di fare attivamente, ma soprattutto quel che si riceve.

«Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto» (Mc 10, 29-30). La vita non sarà facile, aggiunge Gesù. Ma è un fatto che al di là delle apparenze, il Regno di Dio cresce in noi e nella storia. E in questo crescere si costruisce la pace e nasce la gioia, come doni di Cristo risorto. «Esultate di gioia indicibile…» (1Pt 1,8).

 Dopo che la speranza ha dissolto in noi la paura della morte, la vita diventa bella, qualunque sia la vocazione a cui siamo destinati. Si trova gioia pura e autentica anche nella sofferenza, come testimoniano tante esperienze di santità pure attuali.

A ogni epoca il proprio tempo è sembrato il più nefasto, benché sant’Agostino dica che simili paragoni non sono ispirati da saggezza; ma se anche il male sembra crescere, Dio, più grande del cuore dell’uomo, suscita anime sante capaci di controbilanciare l’odio che satana suscita nel mondo. E’ la suggestiva intuizione di san Luigi Maria Grignion de Montfort il quale vede gli “ultimi tempi” contrassegnati da una dura lotta. Ma «verranno grandi uomini, che Maria formerà per ordine dell’Altissimo, al fine di estendere il suo dominio sopra quello degli empi».15

Ma quando avverrà tutto questo? «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,7-8). E con lo Spirito Santo il Signore Gesù ci dona quella speranza che per duemila anni ha fatto vedere i “cieli aperti” a chi vi si è abbandonato; così pure ha colmato in modo imprevedibile il cuore povero e casto di tante persone che si sono “promesse” a lui nelle più svariate forme di vita consacrata.

Esprime bene il compimento della speranza di un cuore che si è consegnato a Cristo una antica antifona della festa di sant’Agnese. Mi piace riportarla anche in latino per non diminuirne la bellezza: «Ecce, quod concupivi, iam video; quod speravi, iam teneo; ipsi sum iuncta in caelis, quem in terris posita, tota devotione dilexi».16

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