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n. 1 del 2002

 

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Non scendere dalla croce
La speranza capovolta

di Gabriella Tripani
 

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Ero a una festa di parenti e amici di missionari. Prima che iniziasse la celebrazione eucaristica, la mamma di un missionario, dietro di me, mi ha toccato la spalla e mi ha chiesto sottovoce: «Forse io non dovrei dirlo, ma lasciami fare questa domanda: dove era Dio l’11 settembre mentre crollavano le torri? Dove è Dio adesso, quando alla televisione vediamo immagini di distruzione e morte di innocenti?». La Messa stava per cominciare. La domanda era lì nell’aria, talmente banale e talmente tragica, insieme ad abbozzi di risposte insoddisfacenti che si presentavano e si svuotavano di convinzione da soli. La mamma del missionario, mentre iniziava il canto di ingresso, ha aggiunto: «Forse non dovrei parlare così, penso che mio figlio è missionario in un paese islamico, penso che io dovrei avere più fede. Ma ho questa domanda qui in gola da settimane. Posso farmela?». Allora ho risposto di sì. E che me la facevo anch’io.

Sì, credo che possiamo e dobbiamo farci questa domanda, possiamo e dobbiamo scriverla. È una domanda vecchia di duemila anni e molto di più, una domanda fatta tante di quelle volte, che implica così tante cose, che scivola verso così terribili conclusioni…

Una domanda che è salita fin sul Calvario, quando hanno detto a Gesù in croce: Se scendi crederemo. Se non scendi, non possiamo credere. Dove è Dio qui? Se non scendi, non è con te.

Dobbiamo e possiamo fare anche noi questa domanda. Ma se facciamo una domanda dobbiamo anche avere il coraggio di ascoltare la risposta, perché la domanda in ultima analisi è fatta a Dio e lui ha il diritto di rispondere.

La risposta a questa domanda è la speranza.

 

La speranza di Dio

Come imparare a sperare e insegnare a sperare oggi? Un mestiere difficile. C’è una pedagogia della speranza da apprendere. Ci sono dei passi da fare. E il primo è tentare di imparare da Dio.

L’immagine della speranza è Dio che discute

Dio spera per primo. Già nell’Antico Testamento, un magnifico passo sulla speranza di Dio è il dialogo tra Dio e Abramo a proposito di Sodoma (Gn 18,16-33). Conosciamo quel lungo mercanteggiare. «Forse ci sono cinquanta giusti in quella città… Non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?». Abramo dà voce al desiderio di Dio stesso: salvare. Quanti ne troverò? Forse cinquanta, forse trenta, forse dieci, forse… Il contrattare della misericordia. Ma quando Abramo cessa di contrattare, Dio non cessa di sperare. Uno solo è l’ultimo limite della sua speranza nell’uomo. A Dio basta uno e se non c’è ve lo manda, perché ci sia, perché possa trovare uno per salvare tutti. Quell’uno è la presenza del Figlio tra noi, la sua presenza in noi, è quello che il Padre guarda per salvarci.

In questo si manifesta la speranza di Dio: che sempre trova in noi qualcosa che val la pena di salvare. Spesso noi non siamo capaci di vedere questo qualcosa che val la pena di salvare, né fuori di noi né in noi. Non vediamo abbastanza lontano, né abbastanza in profondità. Per questo ci scoraggiamo. La speranza è uno sguardo.

Insegnare a sperare è insegnare a vedere: vedere meglio, più a fondo, nei fatti, nelle persone, nei segni di bene, nelle prospettive del futuro, nelle intenzioni, nei desideri; far credito a tutto questo, in noi e negli altri. Non fermarsi alla prima impressione di male, cattiveria e durezza; non squalificare tutto perché c’è del male, dell’impurità; non scartare tutto perché qualcosa è inquinato. Per uno, Dio chiude gli occhi su quanti?

 

L’immagine della speranza è Dio che concima

Un’altra parola di speranza del vangelo è la richiesta del contadino al padrone dell’albero (Lc 13,6-9). Il padrone vuol tagliare l’albero perché non dà frutto. Niente di più logico. Perché deve sfruttare il terreno? Ma il contadino spera che porti frutto. «Lascialo ancora un anno».

Dio spera nei nostri frutti. Dio spera nel nostro cambiamento. La sua speranza è attiva: tende a porre le condizioni adatte. Non si limita a dire: vediamo se vengono frutti, vediamo se cambia (o, peggio, voglio proprio vedere se cambia!). Non spera passivamente che in noi succeda qualcosa. Scava intorno, mette concime. Ci lavora, ci provoca. La sua speranza non ci lascia tranquilli.

Insegnare a sperare è insegnare a operare perché il bene si mostri, emerga. È aiutare gli altri a essere migliori, è credere nell’aiuto reciproco, nella correzione fraterna, nel portare i pesi gli uni degli altri. È avere pazienza, non mettere scadenze, lasciare a Dio l’ultima parola.

 

L’immagine della speranza è Dio sul terrazzo

Infine, una parola sullo sperare di Dio è la parabola del padre misericordioso di due figli (Lc 15,11-32). Dio spera nel nostro rientrare in noi stessi, nel nostro ritorno, nel nostro comprendere la sua misericordia. La sua speranza è paziente, fiduciosa, vigile, calda. Dio che spera è il padre sul terrazzo che aspetta il figlio senza condizioni.

Insegnare a sperare è insegnare a sperare non una volta sola, ma di nuovo e sempre. Sperare prima di ogni delusione è più facile. Sperare dopo le delusioni è più difficile. Ridare fiducia a noi stessi e agli altri è speranza più grande.

Chi spera non sta chiuso in casa aspettando che chi arriva bussi, per alzarsi nel caso e andare ad aprire. Chi spera sta sul terrazzo a scrutare l’orizzonte, quasi affrettando il ritorno con l’attesa ardente, quasi spingendo i passi di chi torna, attraendo con l’amore che aspetta.

 

Dio ci chiede di sperare

Dio che spera ci chiede di sperare. Per diventare educatori di speranza, ci chiede di sperare quando è difficile, già comportandoci come se la speranza fosse certezza, già riconoscendo i segni della speranza realizzata.

Dare nella speranza

Il profeta Elia era scoraggiato (1Re 17,1-16) . Dio si prende cura di lui e lo anima. Gli mostra che provvede a lui acqua del torrente e pane e carne portati dai corvi. Gli fa sperimentare che oltre la sua delusione di se stesso («non sono migliore dei miei padri») c’è la sua presenza e il suo progetto.

Quando Elia ha fatto esperienza di speranza, allora Dio lo invia a insegnarla ad altri. È l’incontro con la vedova di Zarepta. A lei che non ha niente il profeta chiede. Le dice: «Prima prepara un pane per me e poi lo preparerai per te e tuo figlio». Non ce n’è abbastanza. La speranza è difficile, perché sulla parola del profeta la vedova deve dare prima di vedere la ricompensa. E c’è un momento, quello in cui dà, in cui resta davvero senza niente.

Nei luoghi difficili della speranza, alle porte della città stretta dalla fame, quando c’è così poco che non basta per nessuno, prima da’ e poi riceverai. La speranza chiede di dare prima di ricevere.

Guardare nella speranza

Gesù è maestro di speranza nel vangelo. Quando i discepoli ancora non vedono nulla, indica: «Guardate i campi che biondeggiano» (Gv 4,34-38). L’oro del grano è il segno che qualcosa sta capitando.

«Alzate gli occhi e guardate». I nostri occhi sono fissi a terra e non vedono che il raccolto è maturo. A noi sembra sempre non ancora pronto. Dio vede oltre, vede il raccolto pronto, frutto della speranza di chi ha seminato non per sé.

Gesù maestro di speranza dice un’altra volta «guardate». Guardate i corvi, guardate i gigli (Lc 12,22-31): perché siete così ansiosi?

Noi non riusciamo a vedere quello che Dio vede, nella nostra vita, nella storia. Il grano, i corvi e i gigli non ci dicono molto. Ma Dio continua a ripeterci: alzate gli occhi e guardate.

 

I travestimenti della speranza

Ma per quanto ci sia chiaro l’esempio e l’insegnamento di Dio, noi abbiamo le nostre resistenze e la sua grazia ci incontra nella nostra realtà limitata.

La speranza, radicata nella fede e sostenuta dalla grazia, trova espressione dentro l’organizzazione psicologica della persona e la sua struttura. Per questo, per un lavoro educativo, la speranza può essere compresa meglio nell’esaminare le sue dinamiche psicologiche.1

Speranza e limite

La speranza è solo il sogno di chi è sveglio, è la definizione attribuita da Diogene ad Aristotele.

La speranza è l’emozione che nasce in assenza di un bene futuro che è difficile ma non impossibile raggiungere, dice la tradizione tomistica.

La speranza è l’aspettativa di raggiungere uno scopo (Stotland), è il senso del possibile (Lynch), è il qualcosa che rende la persona capace di andare avanti con una certa energia verso un obiettivo, una meta desiderata e non ancora raggiunta (MacIntyre).2

La persona umana in quanto tale è capace di immaginare il futuro. Sperare significa credere che il futuro non è completamente determinato dal passato, da una realtà già data, ma che c’è spazio per la novità e la libertà. La capacità di sperare implica la convinzione che ci sono soluzioni alle difficoltà concrete e alle sfide della vita di ogni giorno.

Di tutto quanto è possibile dire sulla speranza, ci fermiamo su un particolare aspetto che appare paradossale: la speranza è radicata nella capacità di accettare i limiti della realtà. Solo la persona che distingue tra possibile e impossibile è capace di sperare, perché è capace di desiderare profondamente e al tempo stesso di sopportare la frustrazione.

Che cosa significa sperare realisticamente? Ridurre la speranza a nostra misura? Al contrario.

In termini di psicologia evolutiva, una speranza realistica si raggiunge quando si abbandona il senso di onnipotenza infantile e si apprende a vivere secondo il principio della realtà. Vari autori ritengono che la capacità di sperare si sviluppa a partire da un rapporto significativo con la madre: un rapporto che consente di stabilire una fiducia di base e proprio per questo permette gradualmente di rinunciare alla dipendenza infantile e di impegnarsi per il proprio futuro.3

La capacità di sperare allora coinciderebbe con la maturità umana psicologica.

Questa affermazione è interessante: saper sperare, sperare davvero, sarebbe un segno indicativo di maturità umana oltre che di fede, proprio perché collegato alla capacità di accettazione realistica del limite in sé, negli altri, nel mondo.

Una speranza matura si costruisce sulla comprensione che la nostra realtà, su questa terra, è una realtà finita. La speranza non esonera dall’affrontare limiti, decisioni e morte. Se la speranza diventa il tentativo di evitare tutto questo, allora è una evasione che può diventare patologica: dall’angoscia all’illusione, per evitare l’angoscia. Una speranza è immatura quando tenta di evadere dalla responsabilità, quando nega il limite, quando distorce la realtà per rifugiarsi in un mondo di possibilità illimitate…

La vera speranza spinge in avanti. Invece l’immaturità tende a perpetuare se stessa attraverso l’evasione dalle sfide che potrebbero modificare gli schemi ripetitivi che la persona usa. La tendenza all’evasione si vede anche dalla qualità delle speranze che possono riflettere i processi più o meno immaturi della persona: alcune immaturità infatti possono trovare la loro espressione nel modo cui la persona pensa al proprio futuro.

In molte persone è facile notare una tendenza a idealizzare il proprio futuro o il proprio passato, una tendenza che trova espressione in speranze fantastiche.

Costituiscono un buon esempio di speranza immatura le fantasie che vengono chiamate: “Un giorno o l’altro…” e “Se soltanto…”.4

 

Un giorno o l’altro…

Un giorno o l’altro… tutto andrà per il meglio!

Questa “speranza” è un tentativo di adattamento alla realtà nella convinzione che un giorno o l’altro nel futuro tutto andrà bene, anche se il passato e il presente sono sentiti negativamente.

È un atteggiamento di attesa senza un fondamento concreto, la segreta speranza, senza legame con il presente, che un giorno o l’altro tutti i problemi scompariranno oppure si sarà abbastanza forti da sapere gestirli senza difficoltà. L’eccessivo ottimismo è difensivo, basato su una negazione inconscia della realtà che non si vuole accettare, sul rifiuto di quella parte di sé che è conflittuale e aggressiva, sulla riluttanza ad accettare perdite e delusioni. È come un’armatura per tenere a distanza la realtà.

Quanti alimentano queste fantasie hanno delle precise aspettative su se stessi, sul loro ambiente e sulla vita in generale. Spesso sono persone che appaiono ricche di energia e entusiasmo. Ma soprattutto quando incontrano difficoltà, ostacoli e inciampi, tendono a ritirarsi, a diventare passivi e non fare niente. Poi, dopo un tempo di inattività in questi termini, ritornano al loro ottimismo entusiasta.

Molto spesso chi sogna che “un giorno o l’altro” tutto cambierà, richiesto di dettagliare un po’ di più questo sogno futuro, non è in grado di farlo e si sente a disagio soprattutto se gli si chiede di immaginare cosa succederà dopo quel giorno.

A livello comportamentale varia molto l’espressione di questa fantasia. Alcuni tentano  di dedicarsi al successo sociale o sul lavoro, altri lottano, altri ancora diventano passivi in attesa del magico evento che cambierà tutto, o si rifugiano nella droga a o altri espedienti antisociali.

 

Se soltanto…

Se soltanto non fosse successo.. se soltanto fosse andata diversamente… se soltanto avessi potuto…

Le persone assorbite da queste fantasie sono poco aperte al futuro, hanno scarso interesse nel futuro. Sono invece concentrate su alcuni aspetti negativi del passato. Insistono che se solo certi fatti non fossero successi (una separazione affettiva, una relazione fallita, un problema di salute), tutto sarebbe stato molto meglio. Si tengono attaccate a un’immagine idealizzata della vita prima dei fatti negativi e sognano di tornare a quella vita di pace.

Intensa nostalgia perciò accompagna questo tipo di “speranza”. Il desiderio di ricatturare un passato idealizzato stimola dolore e gioia insieme: il dolore viene dalla consapevolezza della separazione da questo passato idealizzato, mentre la gioia è evocata dalla fantasticata riunione con esso attraverso i ricordi. Il passato non viene lasciato definitivamente attraverso l’esperienza del lutto, né viene integrato nel presente, ma trattenuto in una sorta di limbo psichico da una testarda relazione nostalgica.

Quindi mentre la fantasia “un giorno o l’altro” idealizza il futuro, la fantasia “se soltanto” si attacca al passato. Ma entrambe portano a una discontinuità nell’esperienza di sé che produce una sorta di alienazione dal presente. Entrambe distorcono la realtà perché devono adattarla al loro sogno: l’interesse soggettivo prevale sulla oggettività.

Quindi, in entrambi i casi, in un cammino di maturità, queste fantasie devono essere sostituite da aspettative realistiche.

Forse abbiamo tutti una tendenza all’una o all’altra di queste “speranze”, a prescindere dalle forme più severe che possono diventare vere e proprie patologie. Sono fantasie che gettano luce sulle difficoltà che una persona vive nel pensare al proprio futuro.

Quello che è interessante notare è che le persone tendono ad avere ideali realistici nelle aree in cui sono forti e irrealistici nelle aree in cui sono deboli, il che conferma il carattere difensivo e compensativo di queste speranze. Ci si aspetta di più per il futuro nelle aree in cui si riesce meno nel presente.

La speranza è attiva

Qualsiasi tendenza che indebolisce la propria capacità di preparare il futuro vivendo bene il presente, cioè con tutto il cuore e realisticamente, è un limite.

Una persona spinta a desiderare una tranquillità passata e idealizzata o a sognare un futuro magicamente raggiungibile vivrà in tensione in molti aspetti della realtà. Diventa passiva, come se attendesse la gratificazione dei suoi bisogni da una mamma che fa tutto e che perfino li indovina senza che occorra dirglieli; evita le sfide, ripete le vecchie dinamiche perché non conosce alternative e perché ne ricava un guadagno. Aspetta che i problemi si risolvano, che magicamente i conflitti spariscano, che le difficoltà scompaiano.

Per educare alla speranza, occorre aiutare a smascherare e combattere questa passività.

Dice Tommaso d’Aquino che la speranza è una passione irascibile, cioè un elemento fortemente attivo e combattivo.5

La formazione dovrebbe spingere ad affrontare qualcosa in più di quello che una persona sa già fare. Dovrebbe stimolare il sorgere di nuove domande, favorire un processo di scoperta di se stessi, anche se questo può sconvolgere l’equilibrio presente e sacrificare una certa tranquillità, raggiunta però ai prezzi descritti sopra, cioè grazie all’uso di “speranze” difensive.

Occorre confrontare con gli schemi consueti e spingere a esplorare nuove possibilità, attivare il desiderio di crescere, insegnare a godere delle domande e della ricerca. Questo richiede un cambio delle speranze e quindi il passaggio attraverso la delusione.

 

Delusi per poter sperare

Se non si passa dall’illusione alla disillusione, non è probabile che il processo di maturazione si realizzi. La strada dall’illusione alla disillusione non è un cammino facile, ma è possibile.

Accompagnare le speranze deluse

Un cammino paradigmatico da una falsa speranza alla delusione e quindi alla speranza vera è descritto negli Atti degli Apostoli (Lc 24,13-35): la strada da Gerusalemme a Emmaus è il tratto in cui i due discepoli rinunciano alle loro speranze per trovare quella autentica, perché incontrano un maestro che insegna loro a comprendere la propria delusione e li recupera dallo sconforto alla speranza.

«Noi speravamo». Speravamo che “un giorno o l’altro”…, speravamo in una soluzione magica, attraverso un messia liberatore.

Hanno sperato, sono rimasti delusi. Ma non riescono a fare della loro delusione un passo verso la speranza. Si rifugiano in un rimpianto: se soltanto non lo avessero ucciso. Ci restano attaccati: non doveva succedere, questo è tutto. Ci hanno detto, per la verità, qualcosa di nuovo e diverso… ma noi non possiamo credere. Non sanno sperare. Sono attaccati al loro sogno infranto.

Sciocchi… Non avete letto? Non sapevate?

Una speranza doveva rompersi perché nascesse qualcosa di nuovo. Il sogno di prima, “un giorno o l’altro”, la tristezza di ora, “se soltanto”, devono lasciare il posto alla speranza che è altra cosa.

Il viandante maestro aiuta a rielaborare le delusione, a comprenderla come passo necessario.

E mentre camminando egli spiega le ragioni della delusione, non si sentono scoraggiati o depressi; prima avevano il volto triste, ma ora il cuore comincia ad ardere. È la speranza vera che si sveglia. Dunque c’è un senso. Dunque quello “sta scritto” significa che non siamo fuori dalle mani di un Dio che regge la storia, che non è stato tutto tragico inganno ma compimento, che la realtà è migliore e più grande anche se segnata dalla croce, anche se sorprende.

La delusione che fa crescere non è l’infrangersi del sogno in se stesso, ma l’accettazione di essere rimasti delusi, di aver sperato altro e di scoprire come piccole e inadeguate fossero quelle speranze.

Avere le proprie certezze, puntare sulle proprie forze, voler riuscire, essere perfetti, non fallire mai, non conoscere umiliazione e rifiuti… tante volte con consapevolezza più o meno chiara sono questi i puntelli delle nostre cosiddette speranze. Speranze di farcela, di aver successo, di non commettere errori…

Per passare a una speranza vera occorre passare attraverso la delusione, una specie di delusione di se stessi. È il cammino di tutti. Il passaggio alla realtà, all’accettazione del limite, avviene nel riconoscimento di una delusione, nell’esperienza che le speranze di prima non bastavano, anche se erano troppo.

Formare alla speranza significa insegnare e accompagnare in questo passaggio, perché la delusione non sia distruttiva, ma compresa e interpretata.

Per questo nella vita consacrata è importante formare alla speranza “prima”, cioè fin dall’inizio della formazione, e poi “durante”, cioè quando le delusioni avvengono. Prima, come aveva fatto Gesù che ha avvisato i suoi che avrebbero rischiato una delusione distruttiva (Gv 13,7.19; 14,25-26.29; 16,1.4.12.15.33). E durante, perché loro possano dirsi: era questo, ora sappiamo, ora comprendiamo.

Un’autentica formazione alla speranza deve insegnare a camminare e crescere attraverso le crisi e le tentazioni, insegnando a individuare come tentazioni le difese che scattano nei confronti della realtà quando è sentita difficile. Non basta la preparazione dell’inizio. Gesù aveva preparato i suoi con cura e tuttavia torna sulla loro strada per aiutarli ad applicare quanto avevano ricevuto: Non c’era forse scritto, non avevate forse letto? Torna a dirglielo, perché non sprechino il cammino di formazione già fatto.

Forse con troppa facilità la formazione dimentica Emmaus, cioè l’accompagnamento che insegna discreto a vivere il momento difficile della delusione.

E per quella parola di interpretazione detta al momento giusto, il cuore arde: lui aveva ragione e tutto si compie. E se il compimento è cancellare false speranze non importa, perché quella vera è già qui, che spezza il pane e si fa riconoscere. Una speranza diversa ma che riempie. Una speranza umile e solida.

 

Conclusione

Dobbiamo tornare alla domanda iniziale, quella che ci portiamo dentro e alla quale la speranza vuole rispondere. Dobbiamo tornare al momento della massima richiesta di speranza, il momento in cui è diventata grido.

Scendi dalla croce: grido antico duemila anni. Dove è Dio, cosa fa? Se non fa niente non è Dio.

Quanti erano presenti e hanno sperato che ascoltasse il grido irriverente e scendesse?

Tra le parole di un perdono neppure richiesto, «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno», e la promessa di una misericordia che riesce a pensare all’altro nel momento più tragico del dolore, «Oggi sarai con me nel paradiso», tra queste due parole, tre volte risuona il grido «salva te stesso», irridente, provocante o, chissà, in qualcuno forse sincero.

Anche a noi sembra che la speranza sia credere che Gesù scenderà dalla croce. Ma non è vero.

La croce è rimasta l’unico luogo al mondo dove l’amore è libero di dare tutto.

Perché Gesù non scende? Il suo non scendere è la risposta. Vuol dire che Dio è lì. Non è vero che solo Dio può scendere dalla croce. Solo Dio può non scendere dalla croce.

Non scendere dalla croce! Perché quella è l’unica vera speranza rimasta. La speranza che Dio non scenda. Che ci sia uno che ami fino in fondo, l’unico ad amare fino alla fine, nonostante tutto, ad ogni costo, fino all’ultima goccia di sangue, all’ultimo respiro.

Per ogni uomo, fino all’ultimo uomo, senza nessuna, assolutamente nessuna eccezione.

Non abbiamo altro luogo che la croce per intuire un amore così, non abbiamo nessun altro luogo per cui sperare.

Non scendere dalla croce, almeno tu.

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Modificato domenica 16 marzo 2014
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