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n. 1 del 2002

 

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La speranza: stupore di un orizzonte infinito
di Sabino Palumbieri
 

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1. Amore e speranza

L’uomo è anzitutto un animal amans.1 Egli infatti è un essere che vive nella corporeità (homo somaticus), che è capace di pensare (homo sapiens), di progettare (homo volens), di trasformare (homo faber), di giocare (homo ludens), di relazionarsi (homo socialis), di progredire insieme (homo culturalis). Ma tutto questo è possibile, perché egli è proteso a un polo magnetizzante. È cioè capace di attractio, delectatio, oblatio – polarizzazione, gioia e offerta generosa di sé fino al sacrificio – che sono le componenti del processo dell’amore.

L’amore è il punto di coagulo delle dimensioni e operazioni dell’essere umano. Ora, poiché l’uomo è l’essere che non è tutto dato, ma si compie nello svolgimento dell’essere dinamico – noi non siamo propriamente uomini, ma lo diventiamo ogni giorno2 – allora l’homo amans si presenta come volto verso il suo obiettivo mai dato completamente, ma sempre in distensione di ulteriorità.

Questa tensione di essere non va confusa con il semplice istinto di conservazione nel tempo, bensì è la percezione inestirpabile verso il più-d’essere del proprio essere. L’uomo è un oltre-ogni-altro-oltre.

Egli è, sì, animal rationale, ma la razionalità non completa l’estensione metafisica della sua realtà. L’attitudine dell’amore – mette conto averlo sempre presente – è il principio da cui partono tutte le dimensioni e le espressioni dell’uomo e a cui si riconducono.3 Ora, se l’amore è proteso al futuro dell’obiettivo del suo slancio mai esaurito, che non è altro se non la speranza, ne consegue che l’uomo si presenta, al culmine della sua tensione di esistenza, come animal sperans.

Ernst Bloch ha focalizzato l’uomo come principio-speranza.4 L’uomo è essenzialmente un essere che si proietta verso il non-ancora. «È la creatura per essenza che si protende nel possibile che gli sta di fronte».5 Il filosofo tedesco ricava le conseguenze sul piano pedagogico. Educare vuol dire insegnare che la speranza è l’anima della storia sia del singolo che della collettività. «Quello che importa è imparare a sperare».6

L’esistenza è come un viaggio dell’esser-ci, cioè dell’uomo collocato in un qui, ora, così, nel mistero immenso dell’essere, donde la definizione marceliana di homo viator.7 La speranza come tensione verso mezzi di vita si presenta diversificata da quella come tendenza alla vita in pienezza e a ciò che ne anticipa la realtà, ad esempio nel caso dei rapporti di tipo comunionale. La prima forma ha come suo oggetto l’ulteriore nella durata, caratterizzato dall’avere di più. La seconda, invece, ha come oggetto il futuro dell’essere sempre di più e in più. La prima, quando risulta inevasa, può creare solo turbamenti. La seconda, quando è disattesa, fa sperimentare il fallimento esistenziale che è la disperazione colta come tradimento dell’essere.8 La speranza si presenta come protensione verso il futuro. E questo si può visualizzare o all’interno della storia, che per sua natura è segnata dal limite e che non può mantenere la scommessa della pienezza dell’essere, o all’esterno della storia stessa, oltre il limite ove si intravede la pienezza dell’essere. La speranza assoluta «si presenta come risposta della creatura all’Essere infinito al quale sa di dover tutto ciò che è […]. Dal momento in cui mi prostro dinanzi al Tu assoluto che nella sua infinita condiscendenza m’ha tratto dal nulla, sembra che io mi vieti per sempre di disperare, o più esattamente che riconosca implicitamente nella disperazione possibile un indizio di tradimento tale da non potermici abbandonare senza pronunciare la mia propria condanna».9

 

2. Morte e significato

Oggi, con la caduta del pensiero forte e il dilatarsi del pensiero debole – con il crollo dei valori al segno della domanda: che valore hanno più i valori? – il problema più urgente che si impone è quello del significato. E, applicando al nostro tema ci si chiede: che senso ha la morte? E, se non ha senso, in quanto essa è sradicamento  di vita, che senso ha la vita, se il suo capolinea è privo di significato? Se la morte è l’ultima parola, e l’uomo non può mutuare il significato né del suo segmento di esistenza né della globalità dell’universo e della storia, donde lo potrà desumere? E in questo quadro, che valore ha la mia inestirpabile tensione d’essere, in rapporto all’imperio universale della morte? E se non è l’ultima parola, il senso della vita è legato all’immortalità personale? E questa, radicalmente, esiste? E come va interpretata? Qual è la base della sua sussistenza?

Oggi, insomma, la problematica della morte viene impostata non a partire dalla teoretica deduttiva della costituzione umana nei termini di anima e corpo, ma a partire dall’io, che può anticipare la morte vivendola come dimensione d’essere a cui conferire un significato che a sua volta lo dia alla vita intera. Si tratta di esplorare il mistero dell’uomo mortale lungo le direttrici di questi interrogativi alternativi: l’uomo è segnato dal destino o avviato a una destinazione? E la morte è la fine di un essere biodegradabile o l’inizio di un essere iper-elevabile? È sigla di una conclusione o spinta di una completezza? È decesso completo o accesso verso altro? È parola definitiva o provvisoria? È uscita sull’abisso o ingresso nella pienezza?

 

3. La speranza e le speranze

Impreteribile è la risposta a questi interrogativi non solo per dar senso all’esistenza, ma perché c’è una struttura d’essere dell’uomo che, per sua natura, spinge alla ricerca sulla linea del positivo di questa esplorazione.

Il discorso contemporaneo dell’antropologia poggia sulla scoperta dell’uomo come incessante autotrascendimento. Egli è un oltre-ogni-altro-oltre. La sua struttura fondamentale è la tensione verso un sempre-ulteriore. Comunque si risolva poi il problema, questo è un dato fenomenologico. E ha nome tensione di speranza.

La speranza, prima di essere una virtù, è una struttura fenomenologica. Diventa virtù quando c’è l’assunzione responsabile di questo dato da parte dell’uomo e il comportamento conseguente. Se la speranza è una struttura d’essere, rifiutare gli sbocchi intravisti a partire da essa significa coerentemente precludersi la strada all’ottimismo nell’essere. Perché, se non si sfocia nell’essere al di là del modo d’essere transeunte e pereunte, allora è tutto l’essere a rivelarsi in-sensato, perché non approdante rispetto a questa tensione costitutiva.

Gabriel Marcel ha collocato come cuore della sua analisi dello homo viator il capitolo che significativamente intitola Fenomenologia e metafisica della speranza. Egli distingue l’espoir, o attesa del futuro dei mezzi per la vita, dall’espérance o attesa della pienezza dell’essere. Il primo significato riguarda il funzionale e il sovrastrutturale, o anche il propedeutico. Il secondo riguarda l’essenziale e il definitivo. «È possibile vedere la distinzione di tono che separa l’“io spero” preso in senso assoluto e l’“io spero che”».10 Con la prima formula si esprime la tendenza a conseguire una situazione ambita ma transeunte. Conclusasi questa situazione, l’espoir continuerà ancora a elaborare progetti parcellari e a sostituirli quando le loro realizzazioni saranno consumate. Con la seconda, invece, si esprime la tendenza al conseguimento non dei beni preparatori, ma del bene-salvezza. Anzi, il fatto che ogni desiderio più ambito si concluda sempre con la rincorsa ad altro – e questo dato si afferma incessantemente – è il segno che c’è un oggetto di tendenza basilare che non si esaurisce negli oggetti raggiunti. Poi, quando tutto il possibile umano resta esaudito, come nella situazione in cui l’uomo si trova davanti al muro invalicabile della morte, si avverte che le speranze crollano e la speranza resta. Esperimenti condotti su malati terminali hanno largamente provato questa percezione della speranza, che trascende persino le speranze di guarigione.

 

4. Speranza fondamentale

Le speranze specifiche potremo qualificarle come relative. La speranza, invece, per i caratteri che abbiamo indicato, può essere chiamata fondamentale. Essa si rivela sempre come una vittoria sulla disperazione. «Può esservi speranza solo quando interviene la tentazione di disperare, la speranza è l’atto mediante il quale questa tentazione è attivamente o vittoriosamente superata».11

Tale speranza fondamentale che struttura l’essere ha bisogno di esercizio costante. C’è infatti il rischio, specialmente in un mondo di immediatismo, che si eserciti soltanto come speranza di tipo relativo. E così, questa struttura risulterebbe atrofizzata nel suo potenziale. Ora, l’esercizio della speranza fondamentale è legato sempre ad una esperienza d’amore nella misura della sua autenticità. «Amare un essere significa attendere da lui qualcosa d’indefinibile, d’imprevedibile; significa nel contempo dargli in qualche modo la possibilità di rispondere a questa attesa. Sì, per quanto possa sembrare paradossale, attendere significa in qualche modo donare; ma altrettanto vero è il contrario: non attendere più significa contribuire a rendere sterile l’essere dal quale non si attende più niente, significa dunque in qualche modo privarlo, togliergli in anticipo qualcosa».12 E ancora: «La speranza è sempre legata a una comunione. [...] Questo è talmente vero che ci possiamo domandare se la disperazione e la solitudine non siano in fondo identiche».13

Insomma, la speranza fenomenologicamente considerata è la disponibilità di una persona coinvolta a tal punto in un’esperienza di comunione, da innescare una tensione che supera la pura razionalità del conoscere e del volere, il puro scontato dell’esperienza di fatto. E si apre il varco ad un tempo dalla durata illimitata, che fa esplodere i circuiti della prigionia abituale del terrestre, per fare intravedere un totalmente-altro. E di questo, ogni esperienza di speranza è anticipo e segnale.14

Distinguendo l’anelito come tensione dell’uomo-cuore verso l’assoluto Bene e il desiderio come tensione verso i beni relativi, l’anelito si colloca e si dirige su vari livelli:

  • verso la verità senza ombre

  • verso la libertà senza ceppi

  • verso la giustizia senza veli

  • verso la comunione senza sponde

  • verso la felicità senza fine

  • verso l’essere senza vuoti.

L’anelito ha cioè, come suo obiettivo di sintesi, la pienezza, la definitività, la perfezione dell’Essere.

L’anelito dell’immortalità è quello dell’oltrepassamento di una vita che si percepisce incapace di dare questa pienezza. È, comunque sia, la vittoria su ciò che, pur nell’ipotesi delle più desiderabili condizioni di esistenza, porta lo sradicamento di quanto si è vissuto. Che anzi, quanto più la morte – l’abbiamo notato – succede a una situazione di forma umana perfetta, tanto più si rivela assurda e ripugnante.

L’anelito della felicità, come approdo al supremo Bene senza ombre, l’anelito della conoscenza, come approdo alla Verità completa, l’anelito della comunione, come approdo all’Essere perfetto in cui integrarsi, contengono l’anelito all’immortalità personale. Esso non è discontinuo, ma è presente in tutte le tensioni e le operazioni dell’uomo. Mette conto qui ricordare in merito Agostino: «I desideri dell’uomo sono sotto il sole, ma vanno ben oltre il sole».15 Ed è oltre che costante, anche costitutivo.

Se da qualche parte, in qualche modo, non ci fosse alcuna risposta a questo anelito, avremmo l’assurdo dell’uomo come animale peggio riuscito nell’universo. Infatti, vediamo che a ogni fame corrisponde il proprio pane. Se c’è la specie carnivora, la natura provvede con la carne. Per quella erbivora, con l’erba. L’uomo è un teovoro o affamato di assoluto. La ragione, sulla base dell’esperienza universale, giunge a intravedere la possibilità aperta dell’approdo dell’inquietum cor che non si placa finché non raggiunge il Bene assoluto.16

5. Speranza come tensione

La speranza non è dunque la probabilità, come talvolta si interpreta. È, invece, l’attesa di un bene fondato, segnata dai caratteri dell’operosità, dell’ardimento e del gaudio. È attesa operosa, poiché si è chiamati alla con-laborazione e alla con-costruzione dell’ordito, nello sviluppo del bene germinale che già contiene il futuro, come il seme contiene la pianta e la offre se viene curato con il clima, con l’acqua, con il terreno preparato. La speranza inoltre è coraggiosa, perché il bene verso cui si proietta si raggiunge superando quegli ostacoli che sono come la permanente presenza dei valori lungo l’itinerario di ogni impresa di esistenza, e che sono avvertiti nella misura della loro grandezza.

L’uomo, di fatto, è un esser-ci, cioè un essere qui, ora, così. Vive nello spazio della temporalità come in un oggi destinato a trasformarsi in un ieri, esattamente quando il domani a sua volta prenderà il posto dell’oggi. Tutti i domani dell’uomo sono diretti ad essere risucchiati nel vortice velocissimo dell’oggi e a sfociare nell’oceano senza sponde dello ieri. Il futuro dell’uomo ha come destinazione il passato. Il dio Cronos della mitologia genera i suoi figli e inesorabilmente li divora. L’uomo, nel suo solco di essere, ha ogni giorno un po’ meno di futuro e un po’ più di passato.

L’amore, come attitudine radicale del soggetto di farsi attrarre e, godendo, di offrirsi, lotta contro la voracità del chronos. E, finché dura, il soggetto titolare dell’amore costruisce progetti e sbreccia il futuro. In questo quadro, la temporalità, che caratterizza l’essere nella storia, è tale che esige di ancorare al futuro il presente del mondo, se si vuol rendere significativo il presente stesso. Esso, come momento della durata della storia, prende senso dalla sua capacità di portare nel suo seno lo sviluppo dell’ulteriore, dell’umano ancora inedito e sempre possibile. Conseguentemente, il vero realismo non è solo vedere le cose, ma intravedere le potenzialità delle cose, presenti nelle loro pieghe. La realtà, nel profondo,  è per sua natura materia fermentante. Così, il vero realista non è colui che si riferisce al bruto dato. Viceversa, è uno che, sulla base di quello che le cose sono, proietta sullo schermo della sua progettazione di vita quello che esse possono divenire.

6. Risurrezione e contemporaneità

 

Il cuore dell’uomo, che elabora desideri nel tempo, li vede già nascere in quanto posizionati verso l’aldilà del tempo. E, dallo spazio del toltalmente-altro o dai cieli – che sono la metafora universale di una presenza distantissima dalla terra e quindi si prestano a indicare il totalmente-Altro – si annuncia: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e in eterno» (Eb 13,18).  E ciò è contenuto nell’evento del Cristo risorto, che è vincitore della morte, punto culminante e di per sé sradicante dell’essere-uomo. Il Risorto è, pertanto, lo éschatos, il vero novissimus, l’esperienza dell’ultima forma dell’essere umano destinato all’eterno. La vittoria della risurrezione garantisce la perennità nell’essere. Che è stabilità nel dinamismo e non staticità nell’inerzia.

La risurrezione, inoltre, non riguarda solo la sfera dell’oltre-tempo, ma anche coinvolge la temporalità. In altri termini, il nostro oggi è segnato profondamente dalla novità della risurrezione.

L’uomo, di per sé, è ieri, oggi e domani. Cristo è ieri, oggi e in eterno, come è stato annunciato. Orbene, l’uomo, innestato in Cristo, diventa l’essere di ieri, di oggi e dell’eterno. Come nell’uomo dell’ultima forma che è il Risorto, temporalità ed eternità si incentrano, così nell’uomo nuovo in Cristo, che compie la kierkegaardiana contemporaneità con Cristo grazie alla relazione assoluta e totalizzante con lui, tempo ed eterno si incontrano.

Nella vita del discepolo, il tempo è normato dall’eterno. E l’eterno è preparato nel cantiere del tempo. Ad ogni istante, così, il chronos o tempo quantitativo diventa kairós o tempo qualitativo. È per questo che nell’esistenza  l’aspetto più importante non è dato da quanto si vive, trascinando magari una vita piena di cose vuote, ma da come si vive una vita piena  di eterno anticipato. Si compioni le azioni più ordinarie nel tempo, con lo stile dell’oltre-tempo. La proiezione verso questo secondo obiettivo è vissuto nella speranza.

Far dialogare temporalità ed eternità nella propria coscienza significa assumere le beatitudini che sono già lo stile dell’eterno nel tempo. Con questo non viene deprezzato il tempo con la sua carica di umano, ma viene elevato nell’anticipazione della forma vivendi dell’eterno. Alcune beatitudini sono coniugate al presente, indicando che la felicità promessa nell’eterno viene anticipata all’interno della storia quotidiana.

E siccome il soggetto uomo vive nel presente anche la dimensione del pregresso e del non-ancora, ne deriva applicando che solo la contemporaneità con cristo permette di farsi ogni giorno discepoli.

 

7. Sognare e sperare

E così si può sognare alla grande. Qui si riassume un categoriale biblico che è densamente antropologico. Il sogno dell’uomo si coniuga con la speranza integrale, come l’inserimento del progetto-anelito dell’uomo-speranza nel piano salvifico del Dio Emmanuele. Che è poi l’incrociarsi tra lo homo viator nel tempo e il Deus viator dall’eterno.

Ora, sognare è partire non solo dal visibile reale, ma anche dall’invisibile più profondo, che è il livello delle potenzialità. Non solo dal già, ma soprattutto dal non-ancora. Non solo dall’edito umano, ma dall’indeito divino-umano. Non solo dall’essere, ma dal poter-essere e dal poter-far-essere. Non solo dal dato obiettivo, ma dal potenziale creativo. Non è chi non veda che qui si sta trattando non del sogno onirico-passivo, bensì di quello innovattivo-attivo. Coincide con la fantasia creatrice,17 che si inserisce nella logica dell’amore.

      Da quando Dio si è comunicato con l’autorivelazione e con l’autodono del mistero di Cristo, nelle viscere della realtà, al di là della visione di superficie, non si danno due storie parallele: quella cosiddetta profana e l’altra di carattere sacro. C’è, invece, una sola storia, quella della salvezza.

Il sogno dell’uomo, ai livelli della sua profondità, è andare verso Dio nella tensione dei più arditi desideri umani che lo trovano sempre al di là. Dio è il tutto, ma è anche l’al di là di tutto.

Sognare in questo senso è sperare nel tempo che il già dell’evento-Cristo si completi nel non-ancora dell’evento del Cristo totale. E questo è possibile lasciandosi portare dal santo Spirito di Dio, nella grande memoria della Vergine sperante che si sente rispondere dal nunzio celeste: «Lo Spirito Santo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Tale ombra è come la nube che accompagnava il popolo di Dio nel deserto.18 Quando si parla di ombra, non si dice opposizione alla luce, ma piuttosto adattamento della luce alla nostra capacità visiva. Si parla di nube non perché si tratti di una realtà nebulosa, ma di una realtà intensamente luminosa che, in quanto sorgente della luce, ci trova incapaci di una visione diretta. Nube, dunque, per noi. Luce intensa in sé. Il futuro della storia della salvezza era già contenuto nella nube luminosa della prima pentecoste di Gerusalemme. L’esplorazione di questa realtà è la presa di coscienza graduale del futuro di Dio. Alla luce di questa indicazione, il futuro è il sempre-non-ancora contenuto in un grembo. Il grembo è lo Spirito di Dio che è libertà. A lui appartiene l’avvenire, inteso come futuro umano presenziato e animato dall’adventus Dei. Lo Spirito pertanto «vi annunzierà le cose future» (Gv 16,1b). Il collaboratore dello Spirito nel prevedere e nell’anticipare il futuro è l’uomo credente che sogna ed è la comunità profetica che legge nel non-ancora il disegno di Dio che va dipanandosi.

8. Una chiesa che sogna

Alla comunità, nella misura in cui accetta di rinnovarsi costantemente con il «battesimo nello spirito e nel fuoco» (Mt 3,11), non è lecita l’operazione autoreferenziale del ripiegamento nella discussione di problemi di morte e dello sconcerto della vittoria del male sul bene come capitò ai discepoli nel viaggio da Gerusalemme a Emmaus (cf Lc 24,14-24). La comunità dei discepoli si apre invece alla presenza del Risorto che fa l’esegesi di sé per decodificare anche il mistero dell’uomo. E così, al calore della Parola di cui testimoniano i due lungo la via (cf Lc 24,32), si sbreccia il futuro, si apre la speranza, mentre poco prima avevano coniugato il verbo sperare al passato, cioè avevano espresso il loro sentimento di disperazione.

La comunità dei discepoli viene richiamata al futuro sua patria, ben sapendo che l’adventus Dei viene dal futuro. Essa si impegna a farsi Chiesa del sogno, ma che si fa segno. Del progetto che si fa effetto. Di quella utopia che si fa topía, cioè di quella verità che ancora non trova spazio (ouk tópos) nella storia e che, invece, con la forza dello Spirito lo può trovare.19 Ovviamente tale utopia, lungi dall’essere evasione dal piccolo spazio di ogni giorno, è invece autenticata dalla fedeltà nel quotidiano. Cioè dall’incarnazione del kairós divino e umano nel chrónos più ordinario. Solo chi vive l’ordinarietà di ogni giorno può presentare l’autentica utopia nel senso detto, marcata dalla presenza del divino.

 

9. Speranza come destarsi

Il discepolo, esperto della speranza che è intrinsecamente di carattere pasquale, diventa seminatore di speranza e stimolatore delle energie sopite di una umanità posta sotto anestetico da un sistema che ne ha tutto l’interesse per smerciare prodotti di mercato e per far accettare messaggi manipolatori.

Il discepolo esperto di speranza è in posizione di slancio verso la meta che è Cristo. Formidabile resta l’icona sportiva di Paolo nella Lettera ai cristiani di Filippi, quando dice che si protende verso la meta utilizzando un termine che mutua dal linguaggio olimpionico: ep-ek-teinómenos (Fil 3,13). È un lemma che include lo stacco dalla pedana (ek), la concentrazione di tutta la muscolatura del corpo (epi) guidata dalla tensione indomita dello spirito verso l’obiettivo (teinómenos).

Sperare, come protendersi verso l’infinito del traguardo, non è perdersi in una posizione fumogena di evasioni e distrazioni dal reale. Ma è restare incarnati nella vita del qui-ora-così e protesi verso l’invisibile Presenza che la fede coglie e vive. È dunque uno stato di risveglio delle dimensioni e delle espressioni dello spirito. In obbedienza all’imperativo della Parola: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

Solo a queste condizioni si può essere in grado di svegliare il mondo di oggi, assopito nell’effimero e nell’assolutizzazione del relativo e del funzionale, come il potere, il piacere e l’avere. Il Salterio registra simboli potenti di una letteratura archétipa. L’aurora è il segno di un futuro che si apre. È pronta a offrirsi, come a sua volta promessa di luce più alta, a chi l’ha attesa nel buio. Va però preparata con il canto mattutino dell’innamorata che si è svegliato per «mattinar lo sposo, perché l’ami».20 Il salmista intende ridestare nel chiarore pealbare gli strumenti musicali più delicati per rimettere in movimento il nuovo giorno: «Svegliatevi, arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora» (Sal 108,3; 57,9). È interessante notare che il compositore del Salmo 57 si presenta come circondato da leoni: «Io sono come in mezzo a leoni, che divorano gli uomini. I loro denti sono lance e frecce, la loro lingua spada affilata. […] Hanno teso una rete ai miei piedi, mi hanno piegato, hanno scavato davanti a me una fossa» (Sal 57,5.7). Al di là di queste immagini icastiche, si intravede che il seminatore di speranza e lo stimolatore delle potenzialità sopite non è uno che ha vita comoda e si diletta nel descrivere facili figure di sogno. È invece un lottatore contro minacce che lo insidiano da tutte le parti e tentano di distruggerlo. L’uomo della speranza recettiva e attiva è, insomma, il cantore che trova nei tre giovani della fornace (cf Dan 3,23-90) una cifra emblematica di credenti ancorati alla Parola che salva e non alle vicissitudini che favoriscono l’euforia. La speranza qui appare come una tensione ardua e il suo titolare è il rocciatore ardito.

Oggi urge risvegliare i tempi nuovi nei compagni di viaggio soggetti alla deconcentrazione nell’effimero.

Svegliare l’aurora significa svegliarsi per ridestare quell’immenso potenziale di ricchezze umane sopite.

Svegliare l’aurora è testimoniare che la crescita a misura umana non è nel benessere, ma nel più-essere.

Svegliare l’aurora è evidenziare i segni veri del tempo messianico di oggi, quando ancora le bombe di ogni tipo si possono trasformare in pani e gli immensi sprechi possono diventare cespiti di preziosi aiuti.

Svegliare l’aurora è superare i punti morti dei pessimismi e delle fughe dagli impegni. È aiutare la gente a far rifunzionare la struttura d’essere della speranza che tutti possiedono con il seme pasquale che è certezza del già avvenuto nel Cristo risorto e del non-ancora che attende ogni uomo nel tempo e al di là del tempo. L’amore è stupore, è per sua natura ex-statico.21 È stupore davanti alla meraviglia che gli si prospetta. Qui si tratta della risurrezione dell’Unigenito, che il Padre vuol partecipare a tutti i figli innestati nel Figlio. Si tratta del futuro di Dio, collocato nell’orizzonte infinito e che costituisce la meraviglia suprema che attende il discepolo come sua destinazione.

Svegliare l’aurora è far riascoltare credibilmente ed efficacemente il lieto annunzio di Isaia, preludio del vangelo (euanghéllion) del tempo pieno: «Non ricordate più le cose passate. Non vogliate pensare più alle cose antiche. Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia. Non ve ne accorgete?». (Is 43,18-19) Il discepolo esperto della speranza acutizza il suo occhio per cogliere i primi germogli della primavera anche in un paesaggio ancora invernale. È colui che incolla al suolo l’orecchio per avvertire il distendersi del seme che marcisce, ma per fiorire e fruttificare.

La speranza è pasquale, perché poggiata su Cristo risorto che è il vero seme caduto in terra per morire, ma che porta molto frutto. (cf Gv 12,24)

L’amore proteso al futuro, suo compimento, è la speranza pasquale del discepolo afferrato (Fil 3,12) dal Risorto. E lanciato alla pienezza della pasqua dell’uomo e dell’universo.

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