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n. 1 del 2002

 

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Seminatrici di speranza
di Teresa Simionato
 

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Una sfida e un compito per la vita consacrata di oggi

Che cosa di più urgente e vitale della “speranza”, nel mondo di oggi?

Dopo i fatti del settembre scorso e durante questi mesi in cui la guerra, senza essere dichiarata, sembra dilagare e coinvolgere ogni Stato e Continente, ognuno si chiede se è ancora possibile sperare in un futuro migliore, nella fine della violenza, del terrore.

Come religiosa ho la sensazione che, in questi i tempi, non si possa andare tranquillamente per strada senza sentirsi raggiungere da uno sguardo indagatore, da una voglia di domande, senza avvertire che con la paura c’è un’accorata ricerca di sicurezza e di speranza!

E non è così automatico rispondere che è possibile sperare, mentre cerchiamo in noi le ragioni e i motivi che fondano una sana speranza, la quale non è una teoria sul futuro, né tanto meno un rincorrere ideali irraggiungibili.

Per un cristiano la speranza è una Persona, offerta al mondo; è Gesù che nella sua carne e nel suo sacrificio riunisce i fratelli dispersi e divisi; ed è Maria, la Madre sua, che ce lo consegna, ce lo affida, ce lo addita, spingendoci a fare ‘quello che Lui ci dirà’.

Può essere questa una tra le numerose icone bibliche che introducono alla “speranza”. Una virtù, un atteggiamento difficile da coltivare e da comprendere in questo tempo fortemente segnato dall’attivismo, dal protagonismo, dalla voglia di programmare e rassicurarci il futuro, perfino di calcolare e manipolare la vita e la natura, poiché ogni incertezza e oscurità genera ansia, irrequietezza, avvilimento, frustrazione.

La fede ci apre alla certezza pacificante che siamo nella “pienezza dei tempi” e che, in essa, esiste un disegno di Dio non solo sulla universale storia umana, ma anche sul cammino di ogni singola persona; disegno che si compirà e sarà sempre di salvezza e di redenzione. Si tratta di avere la pazienza illuminata e robusta di coloro che vivono di speranza, che si fidano e si affidano alla Parola e alla Promessa.

Il Signore continuerà anche in futuro a essere il lievito messo nella farina umana, a essere il buon seme sparso nella terra dell’umanità.1

Seminatrici di speranza, prima che un nuovo compito, mi piace pensarlo un nome nuovo della vita religiosa femminile.

Nel Documento Vita Consecrata, il Papa parla spesso della vita religiosa come speranza della Chiesa:

«Che sarebbe del mondo se non vi fossero i religiosi»? Al di là delle superficiali valutazioni di funzionalità, la vita consacrata è importante proprio nel suo essere sovrabbondanza di gratuità e d’amore, e ciò tanto più in un mondo che rischia di essere soffocato nel vortice dell’effimero. […]

La Chiesa non può assolutamente rinunciare alla vita consacrata, perché essa esprime in modo eloquente la sua intima essenza “sponsale”. In essa trova nuovo slancio e forza l’annuncio del Vangelo a tutto il mondo. C’è bisogno infatti di chi presenti il volto paterno di Dio e il volto materno della Chiesa, di chi metta in gioco la propria vita, perché altri abbiano vita e speranza. Alla Chiesa sono necessarie persone consacrate le quali, prima ancora di impegnarsi a servizio dell’una o dell’altra nobile causa, si lascino trasformare dalla grazia di Dio e si conformino pienamente al Vangelo» (105).

Altrettanto forte ed evocativa la risposta di Fratel Alvaro Rodríguez Echeverria, presidente dell’USG, alla domanda: dove troveremo la vita religiosa di domani?

«La troveremo tra i cercatori di Dio, a fianco degli esclusi, tra i testimoni della speranza... Le nostre comunità religiose devono fornire alla speranza un volto, essendo presenti per scelta evangelica nelle situazioni di dolore e di miseria, manifestando che la tenerezza di Dio non ha frontiere, che la risurrezione di Gesù è garanzia di vittoria, che il Dio della Vita avrà l’ultima parola sugli idoli della morte».

 

Seminatrici di speranza, perché sorelle

Non è in forza delle doti, capacità e progetti personali che la vita religiosa penetra in ogni parte del mondo, ma solo in forza dello Spirito che la suscita, in forza della chiamata a seguire Colui che è venuto nel mondo e per il mondo: «Venite e vedete».

Legandosi in modo incondizionato a Cristo, ogni religiosa si trova inserita nei suoi legami di parentela; si è fratelli e sorelle perché figli e figlie dello stesso e unico Padre.

Nel vivere questa relazione profonda di ‘figlia’, ogni religiosa diviene e si sente sorella dell’umanità, di ogni uomo e donna creati a immagine di Dio.

‘Sorella’ rimanda a una stessa provenienza, richiama a delle affinità; ebbene, nonostante le crisi, gli ostacoli, le brutte copie, possiamo veramente testimoniare che la vita religiosa ci fa sorelle tra noi, ma soprattutto sorelle di tutti, poiché «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5).

‘Sorelle’ per la familiarità con Dio e la prossimità con la gente. Sorelle per una «speciale comunione col mistero della vita che matura nel seno della donna».

Una maternità che è fisica e spirituale. «La verginità, infatti, non priva la donna delle sue prerogative; la maternità spirituale riveste molteplici forme. Nella vita delle donne consacrate essa si potrà esprimere come sollecitudine per gli uomini, specialmente per i più bisognosi: gli ammalati, i portatori di handicap, gli abbandonati, gli orfani, gli anziani, i bambini, la gioventù, i carcerati e, in genere, gli emarginati.

Una donna consacrata ritrova in tal modo lo Sposo, diverso e unico in tutti e in ciascuno, secondo le sue stesse parole: “Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi … l’avete fatto a me” (Mt 25,40)» (cf MD 18,21) .

E’ questa identità di ‘sorella e madre’ che va custodita e alimentata, perché davvero ogni fratello possa essere toccato, nella sua forza di libertà e amore, da questa vicinanza, dal nostro essere sorelle per tutti.

Suor Joan Chittister, benedettina della Pennsylvania, che lavora tra gli immigrati e tra le ragazzine abbandonate, rilasciando una testimonianza personale e comunitaria, affermava: «Questa gente cerca solo qualcuno che porti loro generosità, che stia a sentirla con il cuore, senza ingiungere loro altre leggi per controllare la loro vita».

L’essere sorelle ci consente di stare al loro fianco senza alcun potere, se non quello di offrire la nostra compagnia.

Continua Sr. Joan: «Questo lo possiamo fare grazie ai nostri voti di povertà, castità e obbedienza. Se essi hanno significato per noi, lo devono avere anche per coloro che incontriamo e hanno bisogno di vedere giustizia, generosità, amore, dignità.

I voti non sono contro qualcosa, ma per aiutare gli altri… allora significano… è allora che c’è la possibilità di una vita religiosa nel mondo.

Quando fai il voto di povertà nel cuore della città, non lo fai solo per viverlo in maniera simbolica, ma per i poveri del mondo di oggi, dove le risorse pendono tutte da una parte. Chi fa il voto di castità lo fa per raggiungere qualcosa di valore, una vita d’amore senza limiti. I voti sono per una giustizia più equa, per un amore senza limiti, per un cuore che ascolta i bisogni di tutto il mondo; è questo che vogliamo tutte, attingendo ogni mattina alla preghiera, che ravviva in noi il dono della fede, della speranza e di una rinnovata energia».2

 

2. Alimentare la speranza nella nostra “consacrazione” quotidiana

Vivere la speranza significa attendere Dio ogni giorno e accogliere il dono che irrompe dal futuro. E’ Dio che garantisce il futuro, ma vuole contare su di noi per costruirlo.

Il credente sa di essere nelle mani del Dio amore. Il suo amore è degno di fede e di certezza. S. Paolo nella sua prima lettera (scritta 20 anni appena dopo la morte di Gesù) ringrazia Dio per la fede viva dei Tessalonicesi, per la loro carità operosa e per la loro costante speranza (cf 1Ts 1,3).

La speranza cristiana è un atteggiamento, una virtù concreta e attiva in favore della vita e contro la morte. Include perciò l’audacia e il rischio.3

La differenza tra le diverse impostazioni di vita risiede proprio nei beni sperati. Coloro che hanno imparato ad attendere il dono del Signore, a ogni alba che sorge, si chiedono quale forma nuova di amore, di fraternità, di perdono, di verità, di bellezza, di pace, di giustizia possa irrompere nella loro esistenza; essi sono certi, infatti, che ogni situazione può consentire una manifestazione inedita dell’azione creatrice di Dio e quindi l’accoglienza di un nuovo dono di vita.

Allora si può essere «pronti sempre a rispondere a chiunque domanda ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).

Per una religiosa, l’esercizio esemplare e radicale della speranza è la povertà. Votarsi alla povertà significa attendere solo il dono che ci rende figli; non è infatti la mancanza delle cose a caratterizzare lo stato di povertà per il Regno, ma è l’attesa del dono di Dio in tutte le imprese, dono che è sempre a disposizione, quando è atteso e accolto.

Per questo Gesù chiedeva di distaccarsi completamente dalle cose: «Chi non rinuncia ai suoi beni non può essere mio discepolo» (Lc 14,33).

Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l’hanno affidata alle cose.4

«Collocate nelle diverse società del nostro pianeta; società percorse spesso da passioni e da interessi contrastanti, desiderose di comunione, ma incerte sulla via da prendere, le comunità di vita consacrata nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingua e cultura, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità.

Queste comunità sono luoghi di speranza e di scoperta delle Beatitudini; luoghi nei quali l’amore, attingendo alla preghiera, sorgente della comunione, è chiamato a diventare logica di vita e fonte di gioia » (VC 51).

La Chiesa affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione, aprendo o riaprendo continuamente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato dall’odio etnico o dalle follie omicide.

«Le nostre risposte saranno umili, perché siamo consapevoli di non essere l’unica voce e perché sappiamo di non avere l’unica risposta. Le nostre risposte dovranno essere di comunione e in collaborazione con dei laici che condividono la nostra fede e magari il nostro carisma o semplicemente la difesa della dignità dell’uomo».

La nostra risposta sarà umile perché sappiamo, meglio che in altri tempi, che non potremo cambiare molto dei fatti e delle realtà che ci sfidano e che fanno soffrire tanti e tante fratelli e sorelle; spesso ci resta solo l’accompagnarli, lo stare lì con loro, a volte impotenti come essi stessi di fronte al fatto che li affligge. Ma umilmente staremo lì, consapevoli che non potremo “aiutare” molto e rinunciando perciò alle nostre fantasie di onnipotenza. Staremo ad accompagnare con la nostra presenza e vicinanza umana, ben sapendo che attraverso di noi, è il Signore colui che li accompagna e ben sapendo che è Lui che noi accompagniamo».

Questa è anche la testimonianza di una comunità delle Piccole sorelle di Gesù, rimaste a Kabul, correndo il rischio di tanta gente, per continuare a essere con semplicità e fiducia «una epifania vivente di Dio in mezzo agli afgani».

 

3. Seminatrici di speranza, dove..., tra ...

Negli Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, i Vescovi si rivolgono ai religiosi «chiamati proprio in virtù della loro scelta di vita, che li rende ‘poveri e marginali’, a essere segno di speranza, testimoniando la possibilità data a ogni uomo di abitare le frontiere della società e della vita, trovandovi un senso, una ragione per cui è possibile vivere e dare la vita.

Ognuno, secondo il proprio carisma; i religiosi di vita apostolica andando incontro attivamente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini; quelli di vita contemplativa praticando con amore e dedizione il ministero dell’ospitalità» (cf n 62).

L’appello, la sfida della speranza richiama presso i poveri, i malati, i piccoli, presso coloro che hanno perso il senso della vita... vicino a quanti non hanno nulla a causa delle calamità naturali, nelle aree devastate dalla violenza, dall’oppressione e dalle guerre civili, presso i grandi gruppi umani di rifugiati…, tra coloro che rimangono del tutto indifferenti ai bisogni degli altri, o tra quelli che sembrano pieni di se stessi, perché non mancano di beni materiali, ma spesso soffrono la disperazione e la solitudine e sono tentati di rifiutare il dono della vita.6

Essere là dove la vita è minacciata da ogni forma di abuso, di potere, di violenza, di abbandono, di rifiuto.

Percorrendo la storia, sono molti i luoghi dove è caduto qualche seme di speranza e di vita da mani di sorelle che, in forza di un Amore che le ha prevenute e, sospinte dallo Spirito che le anima, hanno giocato tutte loro stesse e continuano a farlo perché altri abbiano vita e speranza.

Di notte e di giorno, nei diversi servizi, sulle strade, tra chi cerca la vita e chi la rifiuta si spingono i consacrati, avanzano quelle religiose che osano oltre ogni struttura per entrare nell’inedito di Dio.

Seminatrici di speranza perché il dono dell’amore di un Dio che ci è Padre, che ha assunto nel Figlio la storia umana e ha camminato sulle nostre strade, non può essere contenuto! E’ un dono che riempie il cuore, che si fa volto, gesto, parola, vicinanza, sostegno, perché non si spezzi la canna incrinata e non si spenga il lucignolo fumigante (cf Mt 12,20).

Essere seminatrici... È un’immagine che richiama orizzonti sconfinati. Seminare non esige un andare troppo rigoroso, ma è un procedere fiducioso, uno spargere a piene mani, il più largamente e il più lontano possibile, in sovrabbondanza.

 Mentre la cronaca nera invade il mondo, molte sorelle continuano a seminare gesti di speranza e di bontà. La cronaca bianca non fa rumore, non sbatte il fatto in prima pagina, ma dilata il cuore, illumina gli occhi che intravedono un futuro, riaccende la speranza.

Questo si prova quando veniamo a diretta conoscenza di alcuni fatti, quando visitiamo qualche nostro “sito”, quando avvistiamo delle pubblicazioni o pagine di cronaca che ci mettono a contatto con la vita di tante nostre sorelle e comunità.

Ad esempio, con Sr. Laura tra i prigionieri dell’Eritrea; con Sr. Emmanuelle, ribattezzata la madre Teresa del Cairo; con il “progetto speranza” per i meniños de rua, delle Serve di Maria Riparatrice; con il movimento di religiose Usmi-Uisg, in mezzo al “traffico di donne e bambini” per sottrarne almeno alcuni alla violenza dell’abuso e del mercato del sesso; con diverse comunità religiose, in Congo, Burundi, Sudan, Afganistan, ex Jugoslavia, Timor Est ..., rimaste nei luoghi di guerra, per il solo motivo di condividere fino in fondo la precarietà della gente, poiché non si può rompere quel filo di speranza a chi ripete: «se voi rimanete, allora c’è una qualche speranza anche per noi».

Potremmo continuare a citare sorelle e comunità che osano sfondare barriere di morte per offrire segni di vita.

A Tirana, una comunità di quattro sorelle dell’Immacolata Concezione di Ivrea, in collaborazione con la chiesa locale, è impegnata, con ogni mezzo, a sostenere progetti per favorire la formazione e l’inserimento lavorativo delle donne nei settori possibili dell’economia locale. Il progetto si è fatto urgente dopo l’incontro di Sr. Giovanna con Doriana, ragazza quattordicenne, orfana di padre, con la madre malata di mente, un fratello minore, pronta per venire in Italia a cercare lavoro.

«In quel momento, dice Sr. Giovanna, ho risposto semplicemente a Doriana che in Italia non avrebbe trovato lavoro, perché troppo giovane… ma che poteva fare in Albania un lavoro con noi e aiutare così la sua famiglia».

A Roma, si è aperto l’8 dicembre 2000, il Centro di accoglienza “Teresa Verzeri” come risposta intercongregazionale (le Suore Serve di Maria Riparatrici e le Figlie del Sacro Cuore di Gesù) al problema delle ragazze, coinvolte nella prostituzione.

Molte sono le iniziative su questo fronte, ma il problema più che ridursi sembra spostarsi da una città all’altra, cambiando “soggetti di mercato”, senza permettere di toccare la radice del problema. Si parla ancora troppo ingiustamente di retate che ammassano sempre e solo le donne, già vendute e violate; poche sono le retate di protettori e, perché no, di clienti.

Anche l’Italia, dove già con la vigente Legge sull’Immigrazione, articolo 18, si è fatto qualcosa per le donne che chiedono aiuto per sottrarsi alla violenza e allo sfruttamento, si dovrebbe pensare a qualche legge che punisca non solo chi si prostituisce, ma anche i clienti, come avviene in Svezia, in Francia.

E tra gli immigrati? Molte sono le sorelle che vi lavorano, anche se la nostra presenza è forse ancora troppo spontanea e incerta.

Le richieste non mancano, così pure le testimonianze. Leggevo tempo fa quella di Sr. Paolina Tesselaar scmm, che lavora in uno dei servizi del “Centro Astalli”, diretto dai Gesuiti, a Via di Tricerro, Roma.

«Da luglio 2001, Tricerro ha accolto centinaia di rifugiati arrivati a Roma dopo essere sbarcati a Lampedusa, Taranto, Brindisi, superando enormemente le proprie capacità logistiche di accoglienza…. E non possiamo mandarli via.

Quando di sera, vado a fare il giro di controllo, a volte vedo un ragazzo senza coperta o cuscino. Cerco di trovare qualcosa per farlo riposare meglio. Se si svegliano, prima mi guardano impauriti e poi mi sorridono e mi toccano il braccio. Questo è il nostro compito: dare un po’ di affetto e ricordare loro di non perdere mai la speranza. Distribuire loro quell’amore di Dio che noi sentiamo e vediamo concretamente proprio grazie a loro ».7

L’elenco di segni, gesti, luoghi di speranza è ben più lungo… e il seme continua a cadere sulla terra buona, sassosa, arida… (cf Mt 13,4-9).

Non ci è consentito rassegnarci agli esiti deleteri di una economia globalizzata che pone in primo piano il profitto a scapito delle persone e della loro dignità umana, o assistere inermi al rischio di uno sfruttamento crescente della gioventù sulla base di queste ideologie.

Ogni comunità religiosa può tracciare nuovi sentieri di vita e cammini di speranza, ovunque: in frontiera, nel deserto, nella periferia, nel contesto di un quotidiano sempre più problematico e complesso.

E’ sorprendente scoprire come lo Spirito Santo sa condurre la vita religiosa là dove i progetti umani tardano ad arrivare!

Forse sta proprio qui il futuro della vita consacrata: rimanere in ascolto dello Spirito che l’ha suscitata nella Chiesa e rispondere alle ansie e alle angosce dell’uomo di ogni tempo.

 

5. Speranza, una ragione per mille ragioni di vita

“La speranza poi non delude” (Rm 5,5). E’ questa la ragione che offre mille motivi per far rinascere la speranza ogni giorno in noi e attorno a noi!

L’evento del Giubileo 2000 è stato certamente il passaggio dello Spirito che ha riacceso il fuoco della speranza.

Il Papa, nella sua lettera apostolica Novo millennio ineunte, ci richiama a un rinnovato slancio basato su una certezza che ha accompagnato la Chiesa per due millenni: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Di fronte alle sfide del nostro tempo non ci seduce certo la prospettiva ingenua che ci possa essere una formula magica. No, non una formula ci salverà, ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: «Io sono con voi!».

Ogni religiosa ha bisogno di questa Parola per rinvigorire la speranza, per credere in questa Presenza e mostrare il volto di Colui che ce l’ha promesso, a quanti sono ai margini, a quanti hanno pronunciato la parola fine perché non hanno più la forza di affacciarsi alla finestra della speranza.

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