n. 3
marzo 2002

 

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Tra solitudine e comunione - III
La solitudine in ordine alla vita spirituale
di Erminio Antonello

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La riflessione sin qui fatta (vedi numeri 1 e 2/2002 di Consacrazione e Servizio) allude a quel cammino di purificazione attraverso la sofferenza della solitudine, che i padri spirituali descrivono come via di purificazione, necessaria per accedere, nella via unitiva, alla relazione d’amore con Cristo e i fratelli. Se ora ridomandiamo: qual è il clima che favorisce questo cammino dello spirito? Veniamo introdotti a considerare un altro tipo di solitudine, la solitudine spirituale, che è patrimonio prezioso nella vita del consacrato e favorisce la maturazione della propria persona all’interno della vita comunionale.

 

Solitudine spirituale

Fa parte dell’esperienza di ogni consacrato la consapevolezza che, senza un luogo in cui vivere momenti di solitudine, la nostra vita è messa in pericolo e i nostri gesti rischiano la paralisi o lo svuotamento. Non si tratta solo di luoghi fisici. Si tratta piuttosto di luoghi dello spirito. E pertanto silenzio e solitudine non possono essere considerati come semplici ritagli dal vivere quotidiano, come fuga dalle preoccupazioni o dall’eccesso della fatica. Ben presto diventerebbero essi stessi insopportabili.

Silenzio e solitudine non possono neanche essere ridotti a semplici tecniche di “igiene della mente”. Il relax è importante per recuperare energie: anzi occorrerebbe impararne l’importanza per la propria vita spirituale, al fine di decongestionarla dagli ingorghi del “traffico mentale”. Ma non è a ciò che facciamo qui riferimento. Silenzio e solitudine sono invece momenti dello spirito che possono coesistere persino nell’attività. Attraverso l’attitudine a essere presenti a se stessi si entra in dialogo con il proprio mondo interiore, si ospitano Dio e gli altri in modo attento ed accogliente.

La presenza a sé è insopportabile quando ci si ritrova soltanto di fronte al fluttuare delle proprie emozioni. L’autospecchiamento rende inquieti. Quando, invece, la presenza a sé è sostenuta dalla solitudine e dal silenzio spirituali introduce a una relazione amica e dialogica con il Signore e con gli altri nostri fratelli. La solitudine e il silenzio spirituali sono allora agli antipodi dell’isolamento, anzi favoriscono quello scavo che mette a contatto con le fondamenta, che sostengono la nostra umanità.

 

Dall’intimità con Cristo
la rassicurante serenità di esistere nel mondo

Il punto critico di ogni rapporto è il modo con cui noi viviamo la nostra interiorità. Siamo esseri che assorbono tutta la realtà circostante attraverso la sensibilità. E sappiamo quanto le sensazioni siano potenti in noi e sovente decidano anche di noi. Il silenzio interiore permette una giusta sedimentazione delle emozioni. Impedisce che le impressioni del momento la facciano da padrone e le mette a contatto con il giudizio di verità.

Se il nostro io è disperso nella molteplicità delle preoccupazioni, ben presto sarà come una stanza stipata di cose, buttate là nel disordine e nella polvere, ove è impossibile riuscire ad abitare. Non minore disagio si vivrebbe nello stare in un’abitazione fredda e disadorna, in cui risuona soltanto l’eco dei propri passi.

Rientrare nella propria interiorità vuol dire misurarsi con la relazione intima che sostiene la propria solitudine. Chi abita in me? Chi ritrovo quando rientro in me stesso? Le alterazioni delle reazioni istintive e degli umori passeggiano anarchicamente nello spirito, prostrandomi nella confusione? C’è un punto di sedimentazione di tutta la polvere che la sensibilità umana alza ogni qualvolta si scontra con qualche disagio?

Al credente consacrato è data la grazia di conoscere e, poco o tanto, di sperimentare che la risposta a questa questione è il contatto spirituale con la persona di Gesù, il risorto nella propria vita. E pertanto sa che la sua vita dipende dalla stabilità con cui vive l’esperienza spirituale con Cristo presente. Ma in queste cose non basta sapere.

Dire “esperienza spirituale” significa appunto superare il semplice livello della conoscenza e accettare la sfida di consegnare libertà e sensibilità al rapporto con Cristo che vive in noi, e questo non soltanto nell’astrazione dal mondo, ma precisamente attraversando le preoccupazioni del mondo.

La grazia della fede è umanamente significante se conclude a un rapporto affettivo con Cristo, altrimenti si riduce a spunto ideologico senza impatto umano. Ed occorre anche spiegare che dire “affettivo” significa differenziarne il concetto da “sentimentale”: l’affettività è un legame che avvolge il sentimento umano, ma esprime più profondamente il vincolo che intelligenza e volontà riconoscono come fondante al di là, o meglio dentro i sentimenti che si possano provare. A nessuna persona intelligente, credo, è risparmiata la prova dell’amarezza e della delusione. Ma precisamente nella vita spirituale la questione non è di venirne preservati, ma di avere un legame affettivo entro cui la turbolenza dell’anima possa essere placata.

Un cammino spirituale significa pertanto imparare a rapportare continuamente, nelle circostanze della vita, il proprio io e la sua fragilità con l’attualità della compagnia di Cristo, ed educarsi a pensare con Cristo, a sentire con Cristo, a volere con Cristo. Solo se questa relazione primaria è tenuta viva nell’animo, si può percepire la ricchezza dell’essere soli con se stessi e avere la chiave di volta che tiene in piedi l’esistenza, sottraendola alla facile illusione dei momenti felici e all’amarezza delle circostanze dolorose.

 

Il ruolo del silenzio e del raccoglimento

Se il rapporto con Cristo deve tradursi in esperienza e l’esperienza interiore si nutre di silenzio e di interiorità, la vita cristiana non è vita solitaria, ma vita in solitudine sì. Il raccoglimento cristiano non è vuoto, ma pienezza, poiché nel fondo dell’animo si riverbera il Volto del Mistero. Vi è da attuare pertanto un’ascesi del raccoglimento. Dio parla nel silenzio e nella solitudine: solo nel silenzio della solitudine è possibile ascoltarlo (1Re 19,11-12). E quando vuole attrarre a sé un’anima la «conduce nel deserto e le parla al cuore» (Os 2,16).

E’ quasi inevitabile che rientrando in noi stessi ci scontriamo con le nostre tenebre. E’ spontaneo averne paura. Ma questo spiacevole incontro, invece che essere occultato, dovrebbe essere messo in contatto con colui che senza retorica è “il Salvatore”.

Se il silenzio dell’anima mette a nudo la nostra povertà e il nostro peccato, è anche vero che da tale consapevolezza può salire più profondo il grido della nostra umanità. Persino le amarezze della vita, quelle vili e umilianti situazioni che snervano e prostrano in forme più o meno grandi di angoscia, possono svolgere un ruolo di sgombero nel cammino dello spirito.

E’ in questi meandri che si può desiderare Gesù come la luce che splende nelle tenebre (Gv 1,4-5; 8,12; 12,35-36). E quando lo si lascia operare, sprigiona una potenza che non manca di produrre i propri effetti. Lo ha promesso: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). L’andare a lui rivestiti della coscienza della propria nullità è l’inizio di ogni percorso di guarigione dello spirito.

Tutto questo ogni consacrato lo sa già. Ma appunto questa presunzione di saperlo già è l’inizio di ogni forma di decadenza nello spirito. Nella vita spirituale tutto si sviluppa attraverso la vigilanza.

Nella storia della spiritualità vi è un’operetta di san Bernardo, il De consideratione ad Eugenium Papam, che meriterebbe di essere meditata. Eugenio III, già monaco di Clairvaux, riceve una lunga e amichevole lettera di Bernardo, che lo invita a non trascurare il raccoglimento pure in mezzo alle distrazioni della curia papale, e tra le tante considerazioni afferma: «Temo che in mezzo alle occupazioni che sono molte e di cui disperi ormai di vedere la fine, il tuo spirito diventi insensibile e perda a poco a poco il sentimento di un giusto e benefico dolore. Sarebbe molto più saggio che tu sospendessi queste occupazioni, almeno per qualche tempo, piuttosto che lasciartene trascinare e condurre, un passo dopo l’altro, là dove tu non vuoi. Mi domandi dove? Ti rispondo: alla durezza del cuore. E non chiedermi che cosa sia: se non ne sei atterrito, vuol dire che ci sei già arrivato. Solo chi ha un cuore duro non ha orrore di se stesso, perché ha perso ogni sensibilità».

La vita spirituale non diventa problematica quando una persona è prostrata nelle tribolazioni dello spirito, ma quando si trascina nell’insensibilità del cuore (Ap 3,16), quando cioè il cuore decide di fare da solo e si rende impermeabile al rapporto con l’Unico che lo può liberare. Ed è proprio il raccoglimento interiore che, impedendo la tiepidezza dello spirito, riattiva la dinamica di una fede viva.

 

Il silenzio dà peso alla parola e sostanza ai rapporti

La sorgente della nostra vita attiva è la nostra vita in solitudine. Lì è in atto la vigilanza e lì posso domandarmi: che cosa c’entra quello che sto facendo con Cristo e con il mio destino? Dove mi conduce questa scelta rispetto al senso profondo della mia esistenza?

Questo dialogo interiore può avvenire solo nella calma del raccoglimento. Raccoglimento e silenzio sono nutrimento e vita dell’anima, perché le permettono di esplicitare le sue funzioni di conoscere, di giudicare, di volere; e in tal modo di solidificarsi intorno a ciò che è essenziale. Il raccoglimento porta così a semplificare la vita, portando ad evidenza ciò che veramente conta e vale. E proprio da questa interiorità, ricca di coscienza di sé perché relazionata a Cristo, è possibile avventurarsi nel rapporto con gli altri.

Quando la fragilità della nostra coscienza è rassicurata dalla certezza di un amore che è fedele, prima e al di là della nostra fedeltà, allora dalla nostra solitudine possiamo anche sbilanciarci nel rapporto con gli altri senza timore di essere abbandonati o rifiutati. Se il mio io è supremamente accolto e amato, posso fare spazio, senza essere ricattato dalle mie paure, a coloro che Dio mette sulla mia strada. Le parole allora non sono soltanto l’espressione delle reazioni del momento, ma diventano capaci di stabilire relazioni, poiché, come giustamente osservava Romano Guardini: «La parola è sostanziosa e fattiva soltanto quando sale dal silenzio». Diventa possibile allora incontrarsi nello scambio di parole vere.

La solitudine in Cristo, mentre guarisce le nostre ferite, ci porta a confrontarci non solo con il nostro dolore, ma anche con il nostro destino. Per questo, la solitudine spirituale può diventare la porta che introduce a una fraternità più sincera. «Che cosa vi fa credere che la solitudine allontani gli uomini e impedisca di comprenderli? Cristianamente, e anche umanamente, credo che sia vero il contrario. E’ nel silenzio e nella solitudine che ci si ritrova – si ritrova la verità di se stessi – ed è attraverso a questa verità che si accede a quella degli altri».

L’imparare a stare da soli di fronte alla verità di se stessi è passaggio obbligato per cogliere la bellezza e la gioia di un incontro.

 

Esercizio di solitudine.

Vi è un pagina di Niceforo il solitario, che può aiutarci in quel raccoglimento nella preghiera che è premessa per incontrare Colui che colma ogni solitudine. Evidentemente, come ogni metodo pratico, è una sottolineatura non assolutizzabile, che può dare spunti utili come esercizio per entrare in se stessi e nella propria interiorità.

«Mettiti seduto, raccogli il tuo spirito e introducilo nelle narici: è il cammino che l’aria segue per andare al cuore. Spingilo, forzalo a discender nel cuore, insieme con l’aria inspirata. Quando vi sarà giunto, vedrai la gioia erompere. Come uno che torna a casa dopo una lunga assenza non sa frenare la gioia di aver ritrovato la moglie ed i figli; così lo spirito quando si riunisce all’anima, è colmo di gioia e di ineffabile allegrezza. A questo punto abituati a non far uscire lo spirito con impazienza. Sulle prime ti sentirai smarrito in questa vita di reclusione e di prigione; ma quando si sarà ambientato, non avrà alcun desiderio di uscire di nuovo nelle consuete divagazioni. Il regno dei cieli è dentro di noi. Chi volge nel suo intimo lo sguardo, e con pura preghiera cerca di dimorarvi, considera le cose esteriori prive di valore e di pregio.

Se fin da principio riesci a discendere nel cuore, nel modo che ti ho descritto, ringrazia Dio! A Lui dà gloria, esulta e sii fedele a questo esercizio, ti manifesterà le cose che ignori. A questo punto hai bisogno di un altro insegnamento: mentre il tuo desiderio dimora nel cuore, non stare silenzioso, né ozioso, ma costantemente sii impegnato a gridare: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me!”, e non ti stancare. Questa pratica, tenendo lontano il tuo pensiero dalle divagazioni, lo rende invulnerabile e inattaccabile dalle suggestioni del nemico.

Ma se nonostante tutti gli sforzi, non riesci a entrare nel regno del cuore, come ti ho indicato, fa’ quello che sto per dirti, e con l’aiuto di Dio troverai ciò che stai cercando. Tu sai che nel petto di ogni uomo c’è la facoltà dell’interiore dialogo. Quando le nostre labbra sono silenziose, parliamo, desideriamo, preghiamo e cantiamo. Introduci in essa l’invocazione “Signore Gesù, abbi pietà di me”, e costringila a gridare queste parole dopo aver eliminato ogni altro pensiero. Quando col tempo ti sarai impadronito di questa pratica, ti aprirà la strada del cuore che ti ho descritto. Se persevererai in questo esercizio con intenso desiderio e ardente attenzione, ti verrà incontro il coro delle virtù: l’amore, la gioia, la pace e tutte le altre. Per esse tutte le tue domande avranno la risposta in Gesù Cristo Nostro Signore. Amen».

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