n. 3
marzo 2002

 

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Spiritualità e psicologia: una difficile relazione
di Anna Bissi

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Alcune chiarificazioni

    Il delicato e complesso rapporto fra spiritualità e psicologia, di cui abbiamo parlato nel numero 1/gennaio 2002, non è però imputabile solo a quest’ultima. Se è vero, infatti, che esiste una notevole confusione per quanto riguarda la comprensione della dimensione psicologica, è altrettanto vero che si verificano frequenti fraintendimenti per ciò che concerne il significato da attribuire al termine spirituale. Vogliamo qui metterne in evidenza soprattutto due, i più comuni ma forse anche i più pericolosi.

Una prima interpretazione errata, quella che incontriamo più sovente, tende a far equivalere il termine spirituale ad immateriale: spirituale, di conseguenza, sarebbe da riferirsi unicamente a ciò che non riguarda la materia, il corpo, le pulsioni, il desiderio, ma che concerne invece il pensiero, le aspirazioni, gli ideali, la religione. Che tipo di persona immaginiamo, per esempio, quando si parla di un uomo molto spirituale? Un uomo aitante, forte, vigoroso, pratico oppure qualcuno di un po’ etereo, pio, poco concreto, disincarnato? Citando S. Ireneo, il quale affermava che gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne, M. Rupnik1 mette in risalto la pericolosità di questa tendenza, che ha purtroppo trovato ampio spazio anche nella Chiesa; basandosi su di essa e dimenticando l’insegnamento di tanti  Padri, per secoli molti hanno invitato a occuparsi delle cose del cielo e disinteressarsi di quelle della terra, intese appunto come cose materiali.

Da qui, come si può facilmente comprendere, deriva una sorta di dualismo, che tende a separare e contrapporre dimensioni diverse della persona umana. Secondo l’epoca in cui si vive, si tenderà a privilegiare ora l’una ora l’altra, ma lo spirito e la materia rimarranno sempre due realtà che si contrastano e oppongono, senza possibilità di armonizzazione.

Questa separazione e opposizione tra spirito e materia ha profondamente segnato la vita spirituale e provocato effetti negativi nel cammino cristiano. Come spiega Rupnik, vivere la fede è diventato poco per volta pensare la fede, la morale si è sostituita all’esperienza e si è così perso il gusto dell’essere cristiani. Sarebbe allora di conseguenza legittimo domandarsi se l’attuale crisi, che la vita attiva sta soffrendo e in cui spesso si riscontrano problemi ancora più rilevanti rispetto a quanto si verifica nella vita contemplativa, non sia almeno in parte da ascriversi a tale separazione.

Per molti secoli la vita religiosa non ha conosciuto alcuna divisione tra vita attiva e contemplativa, separazione che, tra l’altro, la Chiesa Ortodossa tende a non attuare nemmeno ai nostri giorni. Al tempo dei Padri, la vita attiva, o pratica, costituiva l’inizio dell’esperienza spirituale, che comportava l’ascesi, la lotta contro i vizi e l’esercizio della virtù. Solo dopo un lungo periodo di combattimento interiore, si poteva pensare di essere giunti alla contemplazione, alla conoscenza di Dio.

Noi invece distinguiamo con attivo e contemplativo due modi diversi di mettersi alla sequela di Gesù; ciò significa però che se implicitamente la nostra mentalità tende a far coincidere attivo con materiale, attenzione per le cose terrene, e contemplativo con spirituale, preghiera, sguardo rivolto a Dio, la vita attiva rischia di sperimentare una sorta di dualismo, di separazione tra il tempo dato alla preghiera, allo “spirito” e quello dedicato alle cose materiali, quali, in primo luogo, l’attività. Questa falsa interpretazione del termine spirituale è dunque un ambito su cui dovremmo maggiormente riflettere, perché da esso possono derivare impostazioni sbagliate o confuse del nostro modo di vivere.

Un altro fraintendimento riguardo al termine spirituale consiste nel considerarlo come una sorta di sovrastruttura, che si aggiunge alla dimensione fisiologica e psicologica dell’essere umano. Così, per esempio, noi siamo abituati a considerare l’essere umano come qualcuno che dopo la nascita vive prevalentemente a livello fisiologico e in cui, poco per volta, si formano lentamente delle strutture psichiche, molto più complesse rispetto a quelle di cui sono dotati gli animali, che lo rendono sempre più umano. Questo significa che noi pensiamo la persona come una realtà somatica, cui si aggiunge una dimensione psichica sulla quale, eventualmente, se ne può giustapporre un’altra, quella spirituale. In questo caso lo spirito appare come un di più, una realtà non qualificante la persona, una dimensione che, qualora sia presente, può forse renderla più generosa, più buona, più orientata verso determinate attività quali la preghiera, la riflessione, la contemplazione della natura, l’esperienza religiosa. Un di più che però non appare indispensabile, di cui l’uomo può fare a meno, perché la sua realtà psicosomatica gli è sufficiente per sentirsi pienamente persona.

Questa duplice confusione, che interpreta in modo errato il termine spirituale, ha creato una profonda frattura non solo tra corpo e spirito, ma anche tra psiche e spirito. Essi appaiono infatti come due realtà profondamente separate, due mondi che non hanno nulla in comune e dove il secondo può eventualmente intervenire per rendere tollerabile o dare una parvenza socialmente accettabile al primo. Chi, per esempio, parla della scelta celibataria come di una forma di sublimazione, spesso senza rendersene conto, parte da un presupposto di tipo dualistico, dove la dimensione sessuale presente nell’essere umano viene interpretata unicamente in termini istintuali, di impulso che deve essere contenuto, incanalato, attraverso un intervento della dimensione razionale, spirituale, in grado di orientarlo e renderlo socialmente accettabile.

Nello stesso modo una formazione di tipo moralista, che impone delle regole preoccupandosi di farle osservare più che di favorire l’interiorizzazione dei valori presentati, presuppone anch’essa un’implicita visione dell’essere umano come un fascio di pulsioni, di istinti, cui si sovrappone la norma, con il compito di contenere, addomesticare ciò che dell’uomo è troppo passionale.

Se ora proviamo a ricollegare quanto appena affermato a proposito dello spirito, inteso come dicotomico e sovrapposto al biologico e allo psicologico, con quanto abbiamo evidenziato in precedenza, in particolare con la tendenza a interpretare lo psicologico come sinonimo di conflittuale, possiamo renderci conto di come il rapporto tra queste due dimensioni sia complesso e dei suoi effetti negativi in ambito formativo.

Se la psiche infatti diventa sinonimo di problematicità, area che si contrappone allo spirituale e se quest’ultimo deve intervenire per contenere o equilibrare il primo, ne consegue che il dualismo presente in questa visione dell’essere umano si rifletterà anche nell’impostazione del cammino formativo.

Si prospetteranno allora due percorsi separati, dove il primo sarà orientato a curare la persona, cercando di eliminare tutte le dimensioni problematiche, e il secondo sarà invece diretto a presentare i valori della vita religiosa, la preghiera, il significato della sequela, in modo teorico, senza favorire un’esperienza e soprattutto tralasciando la dimensione fondamentale, quella che possiamo considerare come la materia prima del cammino formativo, data dal vissuto concreto, quotidiano. Ne conseguirà che lo psicologo, e non il maestro o la maestra, diventerà il vero formatore, poiché l’attenzione prestata alle dinamiche conflittuali lo metterà più direttamente e costantemente in contatto con la vita del giovane, con le sue lotte interiori, le fatiche, i sentimenti che accompagnano l’esperienza di ogni giorno. Si favorirà però la crescita di una persona interiormente divisa, di cui si può supporre la difficoltà a superare i momenti difficili.

La separazione fra psichico e spirituale impedirà a quest’ultimo di dare un orientamento al primo e, nello stesso tempo, favorirà un processo di disincarnazione.

Un esempio ci aiuterà a meglio comprendere gli effetti deleteri di questa pericolosa scissione. Pensiamo al caso, spesso frequente, della giovane professa che, dopo gli anni di noviziato dedicati soprattutto alla “crescita spirituale”, intesa come tempo da trascorrere in comunità, frequentando corsi di approfondimento teologico e applicandosi regolarmente alla vita di preghiera e alle altre pratiche contemplate dalle Costituzioni dell’Istituto, all’inizio della sua attività in parrocchia si innamora del seminarista che opera con lei in campo pastorale o di qualche altro collaboratore. L’innamoramento, di cui ella onestamente mette al corrente la Maestra, viene da quest’ultima interpretato come un problema psicologico, un eccesso di dipendenza affettiva finora mai manifestatasi, di competenza dello psicologo, invitato a trovare una veloce soluzione a tale conflitto. Mentre lo psicologo analizza, interpreta, risale alle origini, aiuta la presa di coscienza di sentimenti profondi, la formatrice continua il suo percorso orientando alla preghiera, all’impegno, alla fedeltà e messa in pratica dei valori proposti nel periodo del noviziato.

Possiamo ipotizzare alcune possibili soluzioni di questo problema?

Se i due cammini continueranno ad essere paralleli, senza riuscire mai a incontrarsi, la soluzione non potrà che coincidere con una perdita, più o meno grave, per la stessa giovane che, in un modo o nell’altro dovrà rinunciare a un aspetto importante della sua vita. Nel caso in cui sia la dimensione psicologica a prevalere, ella si troverà a dover decidere che cosa fare di un mondo ricco e significativo come quello relazionale, di un amore umano capace di far risuonare le corde del suo cuore in modo unico e finora mai udito, senza comprendere il possibile nesso fra questa esperienza e la scelta di vita. Si troverà allora a decidere se far prevalere i sentimenti, abbandonando la vita religiosa, oppure contenerli, cercando costantemente una sorta di equilibrio fra orientamento del cuore e vocazione. Al contrario, se fosse la dimensione spirituale, nell’accezione riduttiva che in precedenza le abbiamo attribuito, a prevalere, si tratterebbe di optare o per l’eliminazione totale del sentimento, percepito come opposto rispetto alla scelta di vita o per la sua spiritualizzazione, intesa in senso difensivo.

Non rimarrebbe allora più alcuno spazio per la realtà concreta dell’amore, sempre accompagnato da desideri, sentimenti, aspirazioni che, sebbene non possano essere soddisfatti, rappresentano pur sempre una dimensione ricca della persona umana, che può essere vissuta in modo egocentrico ma anche orientata a Dio, perché l’altro è sempre colui che può aprirGli una via nel cuore dell’uomo.

 

Quale soluzione?

Per ipotizzare una possibile relazione non problematica tra psicologia e spiritualità è dunque necessario oltrepassare le false e scorrette interpretazioni finora presentate. Se la prima, quella che tende ad assimilare psicologia e psichiatria, è oggi sovente superata, le altre confusioni permangono e non sempre facilitano il cammino formativo. Si tratta allora di chiarire il rapporto fra psiche e spirito cercando di evitare ogni dualismo e tendenza a opporli, ma anche ogni riduzionismo che, come abbiamo messo in evidenza, tende a presentare l’essere umano come un’entità psicosomatica, alla quale si può eventualmente giustapporre una dimensione spirituale.

Un aiuto per ricomporre tale dicotomia ci viene dalla psicologia evolutiva, che studia lo sviluppo umano, i suoi dinamismi, le leggi che lo regolano, i meccanismi che favoriscono la crescita o che tendono ad arrestarla.

Uno degli aspetti più interessanti di tale scienza è dato dalla possibilità di individuare una sorta di lettura convergente da parte di studiosi diversi che, pur analizzando ambiti differenti, quali quello cognitivo, morale, affettivo, sono approdati a risultati pressoché identici. Uno dei dati più rilevanti, e più utili per la riflessione che stiamo affrontando, è dato dalla possibilità di cogliere un’armonia all’interno del cammino di crescita, un’evoluzione non lasciata al caso, ma ordinata, armonica, uno sviluppo indirizzato al superamento dell’egocentrismo e dunque orientato alla trascendenza2. Gli studiosi dello sviluppo si riferiscono, naturalmente ad una trascendenza che comporta semplicemente il superamento di sé, nell’intelligenza, nella moralità, nella relazione; non si parla di Dio, di valori cristiani.

I dati che essi offrono, tuttavia, ci sembrano sufficienti per ipotizzare che sia la dicotomia fra psicologico e spirituale, concepiti come totalmente separati, sia l’abbinamento tra psicologico e patologico sono privi di senso. Se lo sviluppo umano, infatti, implica il passaggio dal soggettivismo al prospettivismo, come afferma il Piaget, il superamento di una morale dei propri vantaggi verso un senso della giustizia, come sostiene Kohlberg, la capacità di andare al di là del narcisismo per incontrare l’altro in una relazione di vero amore, come asserisce Kernberg, allora questo significa che già nella dimensione psicologica, così come nel corpo, esiste un orientamento trascendente, che non induce a far equivalere psicologico e spirituale, ma che permette di individuare nel primo le premesse perché si effettui un’apertura verso il secondo.

La psicologia evolutiva consente allora di distinguere livelli diversi, evitando il rischio di equipararli o di fonderli. Essa aiuta inoltre a vedere come, se è vero che essi possono opporsi, è altrettanto vero che possono incontrarsi e dinamizzarsi reciprocamente. Se nello psicologico, infatti, possiamo cogliere non solo il conflitto, l’opposizione ai valori, il ripiegamento su di sé, ma anche l’apertura alla trascendenza, la dimensione spirituale non diventa più l’arma per combattere e contenere un’affettività percepita come nemica, ma non diviene neppure l’ambito che non ha nulla a che vedere con il nostro mondo intrapsichico fatto di desideri, bisogni, sentimenti. Essa appare invece, secondo l’affermazione di Edvokimov, non come la terza sfera, ma il principio di qualificazione che si esprime attraverso lo psichico e il carnale e li rende spirituali3.

 

Quale cammino formativo

Il cammino formativo, allora, invece di essere concepito come una crescita parallela di differenti aspetti della persona, talvolta rigidamente separati l’uno dall’altro e affidati a figure diverse di formatore, può essere configurato come una progressiva trasformazione interiore, un processo di integrazione o, se vogliamo usare le parole di Paolo, un percorso orientato in modo tale da permettere che, poco per volta, tutto ciò che è mortale venga assorbito dalla vita (2Cor 5,4). Tutto ciò che è mortale: di conseguenza tutto ciò che, ad ogni livello della nostra esperienza, è segnato dal peccato, dall’egoismo, dal narcisismo che concentra la persona su se stessa, la convince a trattenere la propria vita invece di perderla per il Signore, la invita a cercare la soddisfazione, fisica, psicologica, intellettuale e a chiudersi agli altri, a Dio.

Teresa d’Avila, nel suo Castello interiore4, ha una bella immagine che ci aiuta a descrivere tale percorso e, ancora una volta, ci fa capire come la dimensione spirituale non è una sovrastruttura che si aggiunge al resto della nostra umanità per orientarla eventualmente verso Dio, ma è la dimensione più intima e nello stesso tempo reale del nostro essere, il luogo più profondo della nostra interiorità, dove siamo da Lui inabitati. Egli, secondo S. Teresa, come un Sole sta nel centro dell’anima e illumina tutte le stanze; ma a causa del peccato la sua luce può rimanere oscurata, come avviene per un cristallo trasparente quando è avvolto in un panno nero. Perché allora non pensare che, oltre al peccato inteso in senso stretto, altri impedimenti possano bloccare l’irradiarsi di quel Sole in tutto il nostro essere?

La presenza della Trinità nel fondo dell’anima desidera illuminare ogni piega della nostra persona, ogni aspetto di ciò che noi siamo, ma ne è impedita da tutti quegli elementi che, nel nostro corpo e nella psiche la orientano verso qualcosa che non è Dio. I meccanismi di difesa, per esempio, sembrano indirizzare ognuno di noi verso l’autoprotezione, il nascondimento del limite, la negazione della fragilità, invece di aprirci al dono, all’incontro, all’accoglienza dell’altro. Anch’essi possono essere assimilati a quel panno scuro, di cui parla S. Teresa, che impedisce al Sole di irradiare la sua luce anche negli angoli più remoti della nostra persona. Il corporeo, lo psicologico, allora, non appaiono più come contrari allo spirituale; essi rivelano invece la loro ambivalenza, perché possono essere oggetto di un duplice orientamento: verso l’Io, con la sua debolezza, il bisogno di proteggersi, di preservarsi, o verso il superamento di sé, l’accoglienza e il dono.

In quest’ottica, il percorso formativo si configura allora come un cammino di liberazione: non si tratta di costringere una natura che si oppone e di orientarla verso uno spirituale che le è contrario, ma di permettere a ciò che ci abita più profondamene, più intimamente, di farsi spazio, di illuminare, di dare il giusto orientamento. Tutto in noi è infatti abitato dallo Spirito e può essere verso di Lui indirizzato. Non è questione, quindi, di combattere per togliere, eliminare il corporeo e lo psicologico, ma di fare in modo che essi possano trovare la loro giusta direzione, non nell’autogratificazione, ma nel superamento di sé per qualcosa di significativo, di valido, per un ideale che va al di là di noi stessi e che, nel caso di chi ha scelto la vita religiosa, non può essere altro che Dio. Questo ci permetterà di guardare al nostro corpo, alla psiche, in modo diverso: non sono essi a costituire un ostacolo in se stessi, perché tutto in noi è buono, è stato pensato come cosa molto buona (Gen 1,31), ma è il modo in cui noi ci poniamo in rapporto ad essi, difendendoci, nascondendoci, o aprendoci all’appello di Dio, che possiamo cogliere presente in ogni ambito della nostra persona, ciò che blocca il cammino.

Più riusciamo a superare le nostre letture difensive ed egocentriche e più tutto può essere orientato a Lui o, se vogliamo ancora utilizzare l’immagine di Teresa d’Avila in precedenza citata, tutto può essere da Lui illuminato, anche il limite, la debolezza, la fragilità.

Un esempio ci aiuterà a meglio comprendere la profonda differenza fra questi due diverse concezioni della persona. Pensiamo al bisogno di dipendenza affettiva, che porta l’essere umano a cercare l’appoggio, il sostegno, l’aiuto di un’altra persona. Tale bisogno ha in sé una profonda ambivalenza: da una parte è necessario alla vita dell’individuo tanto quanto l’acqua e il cibo, poiché, senza di esso saremmo degli esseri asociali, incapaci di accogliere l’affetto degli altri e di vivere con loro. Nello stesso tempo però può impedire lo sviluppo di una sana autonomia, spingere ad una ricerca compulsiva, continua, dell’affetto e del sostegno altrui e impedire la fedeltà ai valori della vita consacrata, in primo luogo della castità. Ciò significa, allora, che tale bisogno deve essere eliminato, perché la persona possa lasciare spazio a Dio e legarsi solo a Lui?

Questo è quanto implicitamente afferma una concezione che tende a vivere in modo dicotomico il rapporto fra spirituale e psicologico e pensa che solo rimuovendo il secondo si possa lasciare spazio al primo. Il rischio però è quello di creare squilibri, forzature ed eccessi: la persona finisce per spaventarsi di fronte alla propria umanità, non la riconosce e se ne difende. Spesso, per esempio, chi combatte contro la dipendenza affettiva, perché teme che sia in contrasto con la sua scelta celibataria, rischia di essere eccessivamente autonomo, tende a scappare di fronte ad ogni relazione personale ed è incapace di vivere affetti profondi.

Il bisogno, riconosciuto dentro di sé, non deve quindi essere eliminato, ma illuminato dalla luce dello Spirito; solo così lo si potrà vivere in modo armonico. Ciò significa che poco per volta la persona riuscirà a trovare un giusto equilibrio, ad esprimersi in una relazione profonda come capacità di accogliere l’altro senza bisogno di attaccarsi e trattenerlo per sé. Potrà inoltre trasformare il bisogno in desiderio per Dio e conferire spessore alla relazione intima con Gesù; infine esso si convertirà anche in sacrificio, offerta, fatica sopportata per amore del Signore, in rinuncia pesante e gioiosa nello stesso tempo di questa dimensione del nostro essere che, spontaneamente, ci indurrebbe a cercare amore per noi stessi e a cui si rinuncia per mantenere libero il cuore in modo da poterlo offrire a Dio e ai fratelli.

L’esempio citato in precedenza, quello della giovane professa che, alla sua prima esperienza pastorale, s’innamora del seminarista, può ora esserci utile per capire come queste due dimensioni possano dinamizzarsi reciprocamente, in una sinergia capace di favorire una crescita che comporti contemporaneamente un aumento di umanità e un maggior orientamento verso Dio. Supponiamo allora che, invece di essere inviata dallo psicologo, la giovane professa trovi nella propria formatrice, o in un’altra persona con cui la maestra collabora, qualcuno capace di aiutarla a compiere un cammino che tocca diversi ambiti della sua vita, li integra e li orienta al fine verso cui la persona ha deciso di indirizzare la sua vita: la sequela di Cristo, la comunione con Lui. L’esperienza d’innamoramento diventerà allora, per la giovane religiosa, occasione di conoscere il profondo bisogno di essere amata, il desiderio sessuale spesso accompagnato da forti sensazioni e altrettanto intensi timori, le trepidazioni e le insicurezze che nascono dalla paura di non piacere, di non essere attraente e tutte le resistenze di fronte ad una scelta di vita che non porta all’appagamento di queste dimensioni della persona.

Il cammino di conoscenza di sé le permetterà anche di prendere coscienza dell’inesprimibile bellezza del suo desiderio, le farà conoscere l’amore di apprezzamento, capace di contemplare l’altro senza goderne, farà sgorgare dal suo cuore sentimenti di gratitudine per la gioia di aver potuto conoscere tutta la bellezza interiore di una creatura, la renderà capace di comprendere più da vicino le ansie e le consolazioni dei giovani cui vuole dedicare la sua vita. Il fatto di scoprire questa nuova bellezza non la costringerà a fermarsi solo su di essa, come se unicamente lì fosse possibile trovare la propria vera realizzazione. L’esperienza spirituale allora non dovrà essere vissuta come qualcosa accanto a ciò che la giovane sta sperimentando, ma dovrà penetrare nel cuore dell’esperienza stessa, per interpretarla, valutarla, confrontarla, illuminarla in base alla scelta di vita.

La persona di Gesù dovrà essere posta di fronte allo sguardo della giovane, la Sua Parola, la Sua Vita e, attraverso questo confronto, sarà favorita una maggiore assunzione di responsabilità, un approfondimento delle motivazioni iniziali e in modo particolare del rapporto con Lui, percepito sempre più come unico bene.

Questi risultati non sono certamente garantiti: di fronte al fascino di un amore umano, si è pur sempre liberi di abbandonare la scelta iniziale; non è però reprimendo i sentimenti, eliminandoli dalla coscienza, che si può essere certi di favorire la fedeltà. Questo metodo, al contrario, tende semplicemente a dilazionare decisioni che prima o poi la persona finirà per assumere e che avrebbe potuto fare all’inizio della vita religiosa, prima di un impegno definitivo di consacrazione.

Come si può facilmente intuire, una formazione di questo tipo richiede che la dimensione spirituale sia correttamente interpretata e messa al primo posto e, come abbiamo ripetutamente affermato, sia superata ogni sorta di separazione e dicotomia fra psicologico e spirituale.

In altri termini, essa necessita di una sana antropologia. Una corretta visione della persona umana non è però sufficiente: elemento fondamentale infatti è la figura del formatore, il quale, più che un esperto in qualche disciplina deve essere un testimone, capace di una profonda conoscenza del cuore umano ed esemplare nel vivere la sequela; egli deve aver già lasciato spazio allo Spirito dentro di sé, affinché illumini ogni angolo oscuro della sua interiorità, deve essere qualcuno che, come scrive Gabriel Bunge, citando Matta el Meskin, non tenterà mai di chiamare il discepolo alla propria sequela, perché noi tutti siamo discepoli di Cristo… Neppure lo accompagnerà stando a fianco, perché egli è solo un uomo e non un angelo. Lo segue, piuttosto, umilmente, come un servo, per essere di aiuto, se occorre, a colui che, come lui spinto dallo Spirito, segue le orme di Cristo5.

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