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La
missiologia - attualmente - non esprime una novità nell’indicare il
passaggio “dalle missioni alla missione”.
Non fa mistero del fatto che l’interrogativo più drammatico della
missione - oggi - attraversa la sua stessa ragione d’essere. Il
dialogo interreligioso, la promozione umana, l’inculturazione, hanno
assunto tale importanza che non si comprende più che cos’altro
significhi missione e si discute sulla sua natura e sull’esistenza
stessa della missione. Ha ancora senso la missione? Non è sostituita
dal dialogo interreligioso? Non è obiettivo sufficiente la promozione
umana? Il rispetto della libertà e della coscienza non esclude ogni
proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione?
Perché quindi la missione?
Dunque
la missione sembra fare problema. Nessuno si nasconde che è in atto una
fase di rallentamento nella missione, una crisi reale che mette in
evidenza «una crisi di fede» (RM 2 e 4).
In
realtà il problema vero va spostato all’interno della missione,
concerne la sua vitalità, ossia la qualità della fede su cui la
missione poggia. E’ la fede che sembra - oggi - indebolita, inaridita,
dimentica del fatto che, se la missione non può identificarsi con la
promozione umana, con l’inculturazione, con il dialogo interreligioso,
non può neppure confondersi con una sorta di fenomeno culturale,
politico, legato allo studio, alla efficienza, alla elaborazione di
teologie, di strategie, di piani pastorali. La missione è anzitutto testimonianza
e annuncio. Come tale, dunque, inseparabile dalla sua fonte che è
Cristo vivente nel suo Spirito.
Se
non apre a Cristo, se non si riceve dal suo Spirito, la missione
continuerà a soffrire una crisi di identità e, in profondo, di
motivazione. Risuona più che mai importante l’appello a riattivare lo
slancio missionario dei cristiani, dei discepoli del Signore Gesù,
andando alle sorgenti profonde, alle motivazioni più radicali della
missione: «Occorre suscitare un
nuovo ardore di santità tra i missionari e tutta la comunità cristiana
» (RM 90).
Il risveglio
della compassione
Nei
rapporti con i popoli e le culture, la proposta della fede in Cristo,
l’offerta gratuita del dono di Dio, è possibile solo perché Cristo
viene incontro all’uomo ed è Lui a colmare l’abisso tra la creatura
e il suo Creatore. Soltanto a motivo di questa divina accondiscendenza
si può vivere la missione seguendo il Signore crocifisso. Pertanto il
percorso missionario non può essere realizzato in maniera strumentale o
tattica, ma unicamente come frutto di una sovrabbondanza di amore, di
attenzione, di accoglienza e di rispetto della concretezza e dello
spazio della libertà dell’altro.
La
missione – allora – sollecita il discepolo a purificarsi alla fonte
stessa dell’Amore, al mysterium
pietatis che è il cuore della missione. Da qui deriva l’urgenza a
realizzare quel risveglio della compassione
che riconduce il discepolo a essere messaggero e testimone del Dio fatto
uomo. Lo strappa dal rinserrarsi in una esperienza di fede narcisistica,
impermeabile ai cambiamenti socio-culturali, sorda alle attese e alle
angosce degli uomini. Lo fa entrare in quel dinamismo intrinseco della
fede che è itinerario faticoso, e a tratti anche doloroso, in cui non
si conta più sulle proprie forze e capacità, ma unicamente
sull’amore tenero e appassionato di Dio.
I
discepoli del Signore Gesù sono incoraggiati all’apertura, alla
compassione perché testimoni di un Dio che ama il mondo: lo ha amato
tanto da dare il suo Figlio. Non si fa missione facendo terra bruciata
della sapienza dei popoli. Si fa missione stabilendo rapporti fecondi di
incontro tra le genti, valorizzando e riconoscendo l’azione fecondante
dello Spirito già all’opera nella storia e nelle culture dei popoli.
Si fa missione imparando il dialogo nel rispetto e nell’amore,
altrimenti la storia umana finirà per essere distrutta a causa della
prepotenza e della oppressione da parte di alcuni e dalla continua lotta
da parte di tutti.
Per
seguire Gesù in prospettiva della missione urge accogliere la novità
dello Spirito ed eseguire le sue ispirazioni, ma è pure inderogabile
ascoltare i drammi e le sofferenze del mondo e sintonizzare con
l’impegno di quanti cercano di costruire un mondo realmente aperto e
democratico, garante dei diritti di tutti.
Diventa
oltremodo importante assumere la consapevolezza cha credere in Dio e
lavorare per un mondo più giusto sono due cammini inseparabili.
Discepolato e missione sono uniti: uno invera l’altro e lo interpreta.
Perciò si comprende quanto sia fondamentale per la missione aspirare a
una formazione che aiuti a crescere come persone credenti, capaci di
andare alle radici di quello che sta avvenendo nel mondo, interpretarlo
criticamente, proponendo la fede in Gesù, la passione per Dio come
forma e ragione ultima della vita. Lo fu all’inizio della vita
religiosa e continua a esserlo in questo inizio di millennio.
La fede che Gesù chiede
Mons.
Angelo Scola, qualche anno fa, in un interessante Colloquio
proponeva la fede quale apertura alla storia, quale capacità di
responsabilizzare i discepoli del Signore di fronte alla realtà e ad
andare con intelligenza verso l’uomo, mistero insondabile, verso tutti
gli uomini.
La
fede non permette al cristiano di essere un individuo autocentrato,
autosufficiente. La fede fa del cristiano il discepolo che trova la
ragione di se stesso al di fuori di sé, nella perdita di se stesso.
Perché la missione non è propaganda e la testimonianza non è fare
colpo, bensì essere segni del mistero. Non è la strettoia per la
ragione, ma via per vivere la sequela del Signore rendendo conto della
speranza che la abita (cf 1Pt 3,15), orientando la missione verso
l’altrove a cui Dio chiama.
La
fede in Cristo ci salva dalla perdita della ragione che è il rischio più
insidioso della nostra epoca caratterizzata da una certa amnesia
culturale, poco propensa a chiedersi le ragioni di ciò che siamo,
di ciò che incontriamo, di ciò che facciamo1.
Il
ricorso alla fede in Gesù Cristo garantisce la ragione e svela la
natura del reale perché manifesta la sua diretta derivazione dalla
logica dell’Incarnazione. Per cui la realtà contingente, nella
visione cristiana della fede, non è considerata come l’anticamera del
nulla e l’uomo «ombra di un
sogno fuggente» (Shakespeare). La fede non misconosce la
consistenza propria della realtà, anzi la fede sottrae la realtà dalla
caduta nell’umbratile sogno. Ma oggi il realismo è in crisi, l’uomo
è esposto a una serie di aporie e la fede non chiede ragioni. Mentre è
proprio della fede l’essere spalancata ad accogliere la realtà: essa
è pienezza dell’humanum e
come tale incide sul modo con cui uomini e popoli interagiscono tra di
loro e con la realtà. Non si può accettare e nemmeno pensare a una
fede che si chiude nell’intimismo di un rapporto, che isola, non vede,
non sente.
La
fede è motore per l’intelligenza e per l’umana capacità di
ricerca. Nessuno può rinunciare a questo esercizio che richiama la fede
alla sua responsabilità, eleva le virtù a dovere e tiene viva la
memoria della sofferenza del mondo. La fede – dico – che non si
ripiega su di sé, non preoccupata di vivere per sé, ma capace di «stare
accanto a Dio nella sua sofferenza»2.
La fede che tiene il volto rivolto al mondo nel convincimento che essa
ha qualcosa da dire agli uomini tutti perché non è assenza di memoria,
non è amnesia culturale, bensì memoria che grida giustizia, che
intende la passione di Dio come compassione
cioè capacità di «compatire con
l’altro derivante dalla passione di
Dio»3,
come percezione e partecipazione del dolore altrui, come memoria attiva
del dolore dell’altro.
Questa
fede postula l’unità dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo4.
«Mi
fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi, Geremia?”.
Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai
visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”»
(Ger 1,11-12).
Dio vigila
sulla sua parola per realizzarla. E la certezza che Dio vigila sulla
storia appella l’uomo a esercitarsi nella comprensione della storia
non solo alla luce del passato e del suo futuro, ma anche del suo fine
ultimo; alla luce del mistero che vibra in essa e di cui noi siamo
testimoni.
La
fede appella all’essenza del cristianesimo, al realismo propositivo
che afferma la realtà così come la si vede perché è nella realtà,
nella sua natura di segno reale che Dio ci interpella5.
Nella storia del mondo è di Lui che il discepolo deve essere testimone,
senza appartenere al mondo, ma anche senza pretendere di ricreare in
vitro le condizioni ideali per vivere una fede senza troppe inquietudini
e fatiche.
Il
mondo di oggi che ritiene di avere raggiunta la maturità e di potersela
cavare da solo anche senza l’ipotesi di Dio, ha bisogno di discepoli
seriamente impegnati a tracciare percorsi che portino a una reale
umanizzazione del mondo. Discepoli che, disponibili a fidarsi totalmente
di Dio, rendono possibile oggi l’esperienza di Abramo, l’avventura
dell’esodo e possono aprire nuove vie per la missione, sinora ritenute
impossibili.
E’ tempo di accendere il fuoco
La
vita religiosa, purtroppo, non sempre si è resa conto del profondo
disagio che soffre di fronte a una fede che non chiede ragioni e si
priva della sua incidenza culturale, la evira con l’enfasi acritica
posta su una vaga spiritualità, lontana dalla realtà, inceppata,
lasciata in balia di una religiosità frantumata nel caleidoscopio di un
sacro selvaggio, emozionale.
La
forma consistente della fede non sta in una sequenza di esercizi devoti,
ricca di stati d’animo, priva di giudizio, di sapienza e di ragioni:
ma alla fine la perdita delle ragioni della fede è perdita delle
ragioni della vita. Al di fuori di una forte visione della fede, si
finisce con indebolire la stessa radicalità evangelica e si riduce la
vita religiosa a vita di sterile pietà, incapace di convincere, di
vincere il male e di trasformare il mondo.
Di
fronte alla sofferenza del mondo, la vita religiosa deve ritrovare la
fede che la fa uscire da sé per aprirla al riconoscimento dell’altro.
E l’altro è il fratello concreto, quello che si fa incontro, ferito,
umiliato, privo della sua felicità.
La
vita religiosa deve superare il suo chiuso individualismo per andare
verso Colui che è davvero il centro, il cuore dell’esistenza di tutto
e nel quale tutto si ritrova. La fede pone la vita in sintonia con il
pulsare eterno dell’amore che crea e che redime, che aiuta e che
salva. Sono sempre molto eloquenti le parole con cui Bonhoeffer invita a
considerare la concretezza della fede cristiana e la sua carica di
responsabilità nella trasformazione della vita umana.
«Nulla può
esservi di più crudele di quella bontà che lascia l’altro nel suo
peccato. E’ un servizio di misericordia, un’ultima offerta di
sincera comunione, se lasciamo che la Parola di Dio rimanga, sola, tra
noi a giudicare e aiutare. Non siamo noi, allora a giudicare: Dio solo
giudica e il giudizio di Dio è sempre di aiuto e di salvezza»6.
Ora
la fede cristiana propone con coraggio la Parola di Dio, il Figlio, Gesù
Cristo benedetto come evento risolutivo della storia, mostrando la
decisività della sua presenza e del suo messaggio, la capacità cioè
di incidere sul modo con cui un uomo, un popolo vede ed esprime se
stesso e la realtà. Questo evento mostra tutto il suo volto
nell’esperienza cristiana, la connota sin dalla sua sorgività
battesimale e la accompagna fino al suo elevato compimento come
paradigma dell’esistere in Cristo.
La
vita religiosa trova in questo evento la direzione paradigmatica del suo
cammino. La sua forza sta nel dare voce e forma alla fede in Lui
Crocifisso e Risorto appropriandosi personalmente dell’ethos
della sequela di Cristo Gesù. Appropriandosi cioè, della sua pietas
per il mondo, la sua compassione, l’empatia compartecipe, la dedizione
misericordiosa di Dio nei confronti dell’uomo. La compassione come la
pietà, nella tradizione cristiana, non sono concetti a basso prezzo,
dimensioni di basso profilo, non sono espressioni della debolezza
dell’uomo. Chi non ricorda lo scherno di Nietzsche di fronte alla pietà
che considerava inutile prodotto dello spirito debole,
«fondata
sull’egoismo, sul piacere della sofferenza che a sua volta, nasce
dalla paura della propria sofferenza e dalla minaccia costituita
dall’altro, i cui moti, anche quelli dell’animo, si studiano per
potersene difendere»7.
La
pietà, come la compassione, non è una perturbatio
animi come volevano gli stoici, un «difetto
di un piccolo spirito che va in pezzi alla vista delle sofferenze altrui»
(Seneca).
Essa
è preoccupazione per il bene dell’altro, è umanità condivisa:
racchiude una memoria pericolosa.
Compassione infatti è il ricordare la dedizione di Dio
nell’esperienza dell’esodo, la fede nella resurrezione di Cristo e
la speranza di salvezza. La memoria della compassione di Dio provoca
realmente l’unica risposta adeguata dell’uomo alla sofferenza degli
altri uomini.
La
compassione è pietà per il sofferente, partecipazione al suo dolore e
come tale elemento centrale dell’amore del prossimo. La compassione,
la pietà, implicano un’essenziale e molto seria dimensione etica8.
Perdersi nella fede in Cristo Gesù - dunque - significa scoprire la
dimensione di quella intimità profondissima che non nasce
dall’esclusione degli altri o dall’ignorare la realtà, ma dalla
scoperta delle infinite possibilità dell’amore di Gesù che è sempre
e comunque tutto per me e tutto per gli altri.
…e diventare
fiamma
Riappropriarsi
della forte fede in Cristo è oggi più che mai condizione necessaria
per alimentare una spiritualità non evasiva, ma che sa guardare oltre,
e interrogarsi dentro l’afflizione delle contraddizioni e dei problemi
contemporanei. La fede bruciante nel Dio di Gesù Cristo può far uscire
dalla crisi che intristisce la missione e rinnovare ogni giorno
l’esperienza di Dio nella contemplazione, per essere coinvolti nelle
sofferenze degli uomini senza mai cessare di dimorare in Dio.
Se
la vita religiosa cessa di vivere il mistero dell’incontro con Dio
nella fede non sarà mai luogo di fede vissuta e dunque non potrà
accogliere le sfide del mondo e leggervi la presenza di Dio; non saprà
coltivare la speranza, lasciandosi vincere dalla logica
di Dio, e diventare luogo di rifugio di chi ha il cuore ferito e
l’anima senza patria. E’ la fede che affranca da ogni tipo di
possesso, che libera da ogni interesse egoistico, che trascina
all’amore temerario, all’ascolto senza limiti delle mille povertà
che straziano l’umanità.
«Nel mondo attuale, così pieno di campi
per rifugiati, di bambini affamati, di donne maltrattate, di uomini
senza dimora, di moltitudini senza futuro, c’è bisogno di persone
consacrate che sappiano dare quello di cui il mondo ha più bisogno: una
fede audace, una voce per i senza voce, una testimonianza della carità.
Solo tale essenzialità, solo questo tipo di povertà, castità, e
obbedienza attende e invoca il mondo attuale sfruttato da mille povertà»9.
E’
giunto il tempo di riqualificarsi nella fede, di dare alla sequela il
volto compassionevole di Dio. E’ tempo di offrire una presenza che
accende il fuoco. E’ giunto il tempo di diventare fiamma. Quando un
cuore è appassionato nessun sforzo è troppo grande, nessuna fiducia
fallisce.
Introduzione
“È
un Gesù molto simpatico ... Questo Gesù è amico di tutti... È bello
vedere un Gesù che sa ridere e scherzare ... Mi piace, perché è così
diverso dal Gesù proposto dalla chiesa”. Sono tutti commenti raccolti
dopo la proiezione del film Jesus1
con gruppi di ragazzi in due parrocchie di Roma, e in una parrocchia di
Toronto. Davanti a un film su Gesù, che ha suscitato delle reazioni così
positive, è doveroso riconoscere i meriti del film. Anzitutto, occorre
dire che Young è abbastanza rispettoso della figura di Gesù: non cade
in nessuno degli eccessi psicologizzanti di alcuni dei film della
tradizione. Per la persona di cultura religiosa limitata, o che non
conosce nulla della persona di Gesù, il film può servire come
introduzione alla storia dell’uomo che per noi cristiani è il Figlio
di Dio. La popolarità del film è ben attestata dall’altissimo indice
d’ascolto di RAI-UNO le due sere della prima trasmissione del film.
Se
Jesus è piaciuto ai telespettatori, a un pubblico più scelto,
invece, non è piaciuto affatto. Un gruppo di quaranta studenti di
teologia dell’Università Gregoriana, nel contesto di un corso che
offro sull’immagine di Gesù nel cinema, hanno visionato il film e,
quasi all’unanimità, la loro reazione è stata negativa. In questo
articolo, vorrei indicare anch’io i miei dubbi riguardo a questo film.
L’approccio sarà scientifico-critico, prenderà in considerazione sia
il contenuto del film che il suo stile; l’analisi si farà sullo
sfondo di alcuni altri film della lunga tradizione del film su Gesù.
Una
struttura da teleromanzo
Una
delle prime cose che colpisce quando si visiona Jesus
è quanto sia facile seguire lo sviluppo della narrazione. Il problema
è che questa trama ben strutturata e liscia è in forte contrasto, anzi
in contraddizione, con la struttura dei quattro vangeli. I vangeli non
sono romanzi, non sono drammi teatrali e non sono nemmeno delle
narrazioni in senso stretto. Queste testimonianze di fede hanno una
struttura tutta loro, caratterizzata soprattutto da ellissi: mancano i
dettagli che collegano un episodio all’altro, il tempo è condensato,
l’enfasi cade in genere sulle parole dette da Gesù, e spesso le
circostanze concrete della sua predicazione e dei suoi miracoli non
vengono descritte.
Tutto
ciò evidentemente non si adatta facilmente al mezzo filmico. Nei più
di cento anni di vitae Christi filmiche, un solo regista ha avuto il coraggio di rispettare
sia il testo che lo stile del Vangelo: Pier Paolo Pasolini nel suo Vangelo
secondo Matteo (1964). Il regista di Jesus,
Roger Young opera invece un adattamento molto libero del testo del
Vangelo nello stile del tipico filmato televisivo e del teleromanzo.
Perciò, la struttura di Jesus è caratterizzata da brevi blocchi
narrativi, ognuno con un suo piccolo conflitto drammatico che viene
risolto nel breve tempo del blocco stesso e nessuno dei quali dura più
di tre o quattro minuti. C’è un notevole equilibrio tra l’azione e
i dialoghi e spesso la musica extradiegetica serve come punteggiatura
sia all’interno di un blocco che tra i vari blocchi.
Young
fa uno sforzo notevole per togliere dalla trama la minima stonatura
narrativa, la minima ellisse. Crea ponti narrativi lisci tra episodi.
Spiega e giustifica eventi che nel Vangelo rimangono senza spiegazione:
per esempio, Gesù è amico di Lazzaro e Marta e Maria perché prima di
intraprendere la sua vita pubblica lavora da loro come falegname; Gesù
va alle nozze di Cana perché lo sposo è il suo cugino Beniamino.
Un’altra
tecnica adoperata da Young per rendere più appetibile il testo biblico
è di aggiungere alla trama principale del film una serie di trame
secondarie, pesanti di materiale fittizio, che con il loro contento
drammatico - meglio, melodrammatico - appoggiano la trama principale.
Young include più episodi della guerra terroristica portata avanti
dagli zeloti, per sviluppare i personaggi di Barabba e Giuda; elabora a
lungo la vicenda di Maria Maddalena e la sua conversione, inclusa la
stonatura della sua presentazione a Gesù per raccomandazione di sua
madre Maria. Young dedica molto tempo ai problemi domestici del debole
Erode e ai problemi politici del freddo e duro Pilato e sviluppa il
lungo e melodrammatico episodio dell’interesse romantico di Maria di
Betania per Gesù.2
In
un ulteriore parallelo al teleromanzo, spesso gli eventi rappresentati
in Jesus vengono sviluppati più per il loro carico emozionale che per
la loro corrispondenza al racconto biblico. L’esempio più clamoroso
di ciò è la rappresentazione delle tentazioni di Gesù ripetuta ben
tre volte, tentazioni tutta azione e dramma, ma che poi sono lontane
anni luce dal significato delle tentazioni di Gesù nel Vangelo.
Inoltre, il sottotesto di potere, conflitto e violenza che domina i
rapporti Pilato, Erode e Caifa proprio dall’inizio del film, è una
disastrosa distrazione da ciò che dovrebbe essere la considerazione
principale del film, la storia di Gesù.
Queste
manipolazioni del testo biblico, altro che “contributo poetico”3
di Young, hanno l’effetto di addomesticare fatalmente il testo
evangelico. Alla fine, la trama della vita
Christi creata da Roger Young offre poco più di un filmato
qualsiasi che si vede ogni giorno in televisione: buoni sentimenti,
vicende romantiche, conflitti, emozioni, qualche violenza ed effetto
speciale digitale: la forza trascendentale della vita di Gesù e
dell’evento Cristo non c’è più.
Le bizzarie
Pochi
sono i film nella tradizione della vita
Christi che non includono qualche scena inventata dal regista nella
ricerca di novità o varietà che, egli spera, piacerà al pubblico.
Inevitabilmente questi elementi stonano con il testo e lo spirito del
racconto evangelico, e il desiderio del regista di essere originale
risulta in bizzarie che si estendono da semplice cattivo gusto fino a
vere e proprie eresie. Ne La più
grande storia mai raccontata (1965) per esempio, Giuda Iscariota non
si impicca, ma si butta in una immensa fornace aperta nel cortile del
Tempio; in Re dei re (1961),
la tavola dell’Ultima Cena ha la forma di una “Y” cosicché, dice
il regista, il Signore possa distribuire la comunione ad ogni discepolo
personalmente. Nell’Ultima
tentazione di Cristo (1988), Scorsese include un episodio da puro grand
guignol, nel quale, grazie ad
effetti speciali, Gesù tira fuori il cuore dal suo petto e lo offre ai
discepoli: è l’omaggio di Scorsese all’immagine del Sacro Cuore nel
salotto della nonna a Brooklyn.
Il
regista di Jesus non resiste
alla tentazione di creare qualche sua bizzaria. Come si è già detto,
Young sottopone il suo Gesù a ben tre episodi di tentazione: in
apertura, l’incubo che anticipa la classica scena delle tentazioni;
poi quella scena, più bizzarra che classica: Young rappresenta Satana
come una donna seduttrice che poi si trasforma, grazie ad effetti
speciali digitali, in uomo, e finalmente, un’ultima tentazione
nell’orto degli ulivi. Il giorno dopo il Sermone sulla Montagna,
evento rappresentato in stile talk-show
nella stessa spettacolare scenografia della montagna con un bellissimo
lago sullo sfondo, Young rappresenta la chiamata dei dodici apostoli
come se fosse la selezione dei concorrenti per un quiz
show in televisione. Gesù, sul palcoscenico dell’anfiteatro
creato dalla collina, chiama giù gli apostoli uno per uno. Alla
chiamata, ciascuno si alza, riceve gli applausi dei vicini e scende giù;
quando l’ultimo apostolo viene chiamato, il gruppo sul palcoscenico fa
pensare a una squadra di football vincente con l’allenatore. Nella
prima parte del film, Gesù obbliga Giuda a dare ai poveri i soldi che
ha raccolto. Si tratta di trenta monete d’argento, che poi Giuda getta
verso un gruppo di poveri, gridando, “Ecco un regalo dal Messia”.
Evidentemente, Young vuole così chiarire la motivazione di Giuda per il
susseguente tradimento di Gesù per trenta monete d’argento. Ma
l’episodio è del tutto artificioso, spicciolo ed inutile.
Anche
alla tentazione di usare effetti speciali digitali il regista di Jesus
non resiste: il risultato, almeno in un’istanza, è una bizzaria alla
quale perfino i ragazzi a cui è molto piaciuto il film hanno reagito
con derisione. Nella conclusione dell’episodio del battesimo di Gesù,
che Young estende per ben due giorni, e al momento dell’epifania di
Dio, il sole si stacca dal cielo, scende in zig-zag, come una
spettacolare stella a più punti, verso Gesù, si ferma drammaticamente
davanti a lui ed entra nel suo petto. L’effetto speciale, tanto
spicciolo e volgare quanto inspiegabile e superfluo, stona
terribilmente.
Chi
è questo Livio?
Senz’altro
l’invenzione più clamorosa di Roger Young è il personaggio di Livio.
Cittadino romano del tutto fittizio, Livio appare ben tredici volte nel
film, in qualche occasione alla presenza di Gesù ma soprattutto alla
presenza di Ponzio Pilato, Erode e Caifa. Il regista rappresenta Livio
come “storico di Cesare ... la sua spia:” l’uomo conosce meglio di
Pilato la situazione politico-religiosa in Palestina e gli serve da
consigliere. Per di più, Livio domina Erode e manipola Caifa. Questa
ingegnosa associazione di una figura del tutto fittizia con tre figure
storico-bibliche è un’operazione insidiosa perché nella mente del
tipico telespettatore Livio così diventa una figura evangelica.
Il ruolo di Livio
diventa cruciale è durante la Passione. Quando Gesù è davanti a
Erode, è Livio che accusa: “Minaccia il paese, incoraggia la
ribellione... proclama di essere re”. Quando Gesù è presentato alla
folla da Pilato, è Livio che incita tutti a gridare per la liberazione
di Barabba e sul Calvario, quando Gesù prega, “Padre perdonali perché
non sanno quello che fanno”, Livio risponde con una battuta tanto
violenta e crudele quanto volgare: “Sappiamo esattamente quello che
facciamo, Messia, ti stiamo uccidendo.”
È
chiarissimo che Young crea il personaggio fittizio di Livio per togliere
la responsabilità della morte di Gesù dalle storiche autorità
religiose ebraiche. C’è un precedente per questa particolare
operazione di fiction, cioè Gesù
di Nazareth (1977). Nel film di Zeffirelli, il responsabile per la
morte di Gesù è il personaggio fittizio, Zerah, un ebreo associato
all’assemblea dei sacerdoti; in Jesus,
nel fare di Livio un romano, per di più apertamente anti-semitico,
Young effettua una decisamente più larga distanziazione tra la colpa
per la crocifissione e le autorità ebraiche, e quindi una maggiore
falsificazione del testo evangelico.
Gli “omaggi” ad
altri film su Gesù
Nell’arte
cinematografica è più che lecito che un regista faccia riferimento ad
altre opere cinematografiche che rappresentano tematiche parallele a
quelle del suo film. L’omaggio è un breve riferimento, una singola
ripresa; è trasparente e ha due scopi: vuole sottolineare la
corrispondenza tematica tra i due film e vuole riconoscere
l’importanza del film citato.
Si
potrebbe immaginare che in un film recente su Gesù, l’autore voglia
rendere omaggio ad uno o più dei tanti film nella lunga tradizione di
questo genre. E infatti, Roger
Young più volte fa riferimento ad altri film su Gesù però non sono
brevi citazioni ma elementi estesi nel suo film, il design dei quali viene da altri film. Questa procedura, che risulta
in una specie di collage, un pastiche tipico dello stile postmoderno, è
problematica soprattutto perché gli elementi che Young imita vengono
dai film più limitati della tradizione e sono scelti non perché sono
elementi cruciali di un autentico ritratto del Gesù del Vangelo, ma per
una varietà di altri motivi a dir poco discutibili in un film su Gesù.
Nell’apertura
del suo film, per esempio, Young si ispira a due film della tradizione.
Il primo film spettacolare su Gesù, Il Re dei re (1927), girato dal
grande showman-impresario Cecil B. DeMille, inizia con una sequenza del
tutto fittizia: Maria Maddalena, cortigiana e fidanzata a Giuda
Iscariota lascia una festa mondana nella sua lussuosa villa per portare
via il suo fidanzato dall’influsso negativo di quel giovane
predicatore da Nazaret; quando la Maddalena arriva da Gesù,
spontaneamente la lasciano sette demoni e si converte drammaticamente.
DeMille, non avendo molta fiducia nel testo evangelico, intende
garantire l’attenzione del pubblico con questa sequenza drammatica e
sexy. Nicolas Ray, regista di Re
dei re (1961) inizia il suo film con un prologo, che pretende di
rappresentare la prestoria della vita di Gesù e il bisogno del popolo
ebraico di un Messia; infatti la sequenza, una serie di violentissimi
massacri di ebrei zeloti da parte di soldati romani, ha lo stesso scopo
“panem et circenses” della sequenza soft-porn di Il Re dei re.
Anche
Roger Young sceglie l’approccio di fiction e “sesso e violenza”
per aprire il suo film. I primi trenta minuti di Jesus
sono un montaggio di brevi scene che mescolano qualche elemento
vagamente evangelico con elementi di violenza politico-militare:
l’arrivo di Pilato con l’esercito romano, i primi scontri tra Pilato,
Erode e Caifa, e perfino un attacco violento da parte di soldati romani
alla casa di Giuseppe e Maria, dove cercano le dovute tasse; poi
aggiunge qualche elemento sentimentale: Maria, sorella di Lazzaro, si
innamora di Gesù e poi Giuseppe muore nelle braccia di Gesù. Young non
ha grande fiducia nel testo biblico e come i suoi predecessori,
inserisce questo melodrammatico materiale extrabiblico per captare e
tenere bene l’attenzione del pubblico.
Al
film scandalo del 1988, L’ultima tentazione di Cristo, Jesus
si riferisce in più elementi. Il violento incubo di Gesù col quale
Young apre il suo film, viene dall’Ultima
tentazione. Poi c’è la questione delle donne. Dopo Jesus
Christ Superstar (1973), che include donne nella sequela di Gesù,
Scorsese ne L’ultima Tentazione
elabora notevolmente la fiction conferendo a donne un ruolo dominante
nel suo film: nelle tentazioni, nella vita sentimentale squilibrata di
Gesù, all’Ultima Cena, e nella famigerata sequenza dell’ultima
tentazione. Anche se il regista di Jesus
toglie dalle donne il minimo profumo di scandalo - giusto e doveroso in
un film che aspiri a una distribuzione televisiva mondiale - tuttavia
egli dà loro un ruolo dominante: una delle identità del Satana
tentatore è femminile; Maria la madre, le sorelle di Lazzaro e poi
Maria Maddalena accompagnano Gesù dappertutto. Però, fatto curioso, in
un momento di rara e inspiegabile ortodossia evangelica, ma di
inconsistenza narrativa, Young non ammette le donne all’Ultima Cena.
Se poi Scorsese
interrompe l’agonia di Cristo in croce con la lunga sequenza
dell’ultima tentazione, Young fa la stessa cosa durante la sua agonia
nell’orto degli ulivi, inserendoci l’anti-evangelico episodio
dell’ultima visita del tentatore; l’episodio, che propone in Gesù
la paura di morire invano, contraddice il fatto biblico: nel Vangelo,
Gesù ha paura della morte ma capisce e accetta fino il fondo in senso
salvifico-redentivo della sua morte.
Al
recente film I giardini
dell’Eden (1997) di Alessandro D’Alatri, Jesus
deve la dimensione di attualità che caratterizza i suoi vari episodi
delle tentazioni: un Gesù a cui vengono mostrati i problemi sociali ed
economici del mondo in vari periodi della storia futura, frutto della
violenza visitata dall’uomo su altri uomini a nome di Dio. Al film
colossal, Re dei re, Jesus deve la
strana ed anti-evangelica rappresentazione di Maria, la madre di Gesù,
come sapientona: lei sa più di Gesù e della sua missione che non Gesù
stesso e funziona da direttrice spirituale per lui, ma anche per i
discepoli e per Maria Maddalena. Questo film ha ispirato Young anche
nella sua strana versione del Sermone sulla Montagna: nei due film, Gesù
cammina in mezzo alla folla svolgendo una specie di catechesi leggera
tramite un dialogo fin troppo informale con gli
ascoltatori-partecipanti: nella versione “aggiornata” di Jesus,
con le sue battute spiritose, si ha l’impressione di partecipare a un
talk-show televisivo.
Uno
dei film su Gesù al quale il regista Young non fa riferimento è Il Vangelo
secondo Matteo di Pasolini, e si capisce subito perché. Il film di
Pasolini è duro, in un difficile ed esigente stile anti-spettacolare e
anti-hollywoodiano, un film impegnativo, e il suo Gesù è forte,
eloquente ed esigente, del tutto coerente e senza compromessi nella sua
chiamata alla conversione e alla vita retta, nelle sue critiche
dell’establishment religioso del suo tempo, e nel suo messaggio
dell’amore di Dio e della salvezza che Egli offre all’umanità. È
sintomatico della malaise che afflige il film di Young il fatto che egli
evita a tutti i costi il minimo avvicinamento o riferimento al Vangelo
di Pasolini.
L’altro
film al quale Young evita di fare riferimento è Il
Messia (1975) di Roberto Rossellini, fatto reso ironico dal
ripetuto, anzi esagerato uso del termine “Messia” nel suo film. Il
film di Rossellini è in un sobrio stile didattico, e proprio
dall’inizio il suo Gesù è il Maestro buono, che guida e insegna con
forza morale, convinzione ed efficacia. Roger Young nel suo Jesus,
invece, non vuole insegnare, e certo non vuole un Gesù che insegna. Il
suo è un film soprattutto di intrattenimento leggero, confezionato
apposta per il pubblico televisivo, che solo pretende di essere una vita
Christi seria che vorrebbe edificare.
Questo
Gesù è il Messia?
La
vita Christi di Roger Young soffre delle tante manipolazioni del
testo evangelico operato dal regista, che hanno l’effetto di creare
una narrazione da teleromanzo, molto popolare con il pubblico televisivo
ma svuotata di autentica corrispondenza al testo e allo spirito del
Vangelo. Il film soffre, forse anche di più, del ritratto di Gesù che
Young dipinge, che ne fa un personaggio che non è altro che un’ombra
pallida dell’autentico Gesù del Vangelo.
Il
Gesù del Vangelo è il Messia, e nel suo film, Young fa pronunciare la
parola “Messia” tante volte e da tante persone, però è proprio
l’uso esagerato della parola ad essere un problema, uso esagerato ma
anche troppo informale e spesso scherzoso. Quando i primi due discepoli
insistono che Gesù è il Messia, egli ride dicendo, “Ne siete proprio
sicuri?”. Quando poi Simone, seguendo le istruzioni di Gesù, prepara
la barca per la pesca miracolosa, egli prende in giro Gesù dicendo,
“Sali a bordo, Messia,” e riferendosi al miracolo appena compiuto a
Cana, chiede con ironia se Gesù intende trasformare l’acqua del lago
in vino. A questa battuta, tutti, perfino Gesù, ridono.
Nonostante
la parola “Messia” venga usata spesso in Jesus,
l’unico significato specifico che ha è quello dato dagli zeloti,
“Messia” come leader
militare-politico che dovrebbe liberare il popolo ebraico dalla
dominazione dei romani, il che, stranamente, è anche il modello di
Messia al quale sembrano aderire Maria e Giuseppe. Anche se Gesù
qualche volta nega questo ruolo militare-politico, non propone mai in
modo specifico quale sia il suo ruolo, quale tipo di Messia egli intende
essere. Dice solo di dover “andare per la mia strada,” che la sua
vita “non mi appartiene,” e parla vagamente di portare “la libertà.”
La predicazione limitata
di Gesù
Oltre
a queste banalità vagamente New
Age, e in chiaro contrasto con il Gesù del Vangelo, il protagonista
di Young non parla mai dei grandi profeti dell’Antico Testamento che
hanno profetizzato e prefigurato il Messia. Non parla né di Mosè né
di Giovanni Battista e evidentemente non si identifica con loro; non
parla come profeta e non dà il minimo senso di dover morire come
profeta. Clamorosamente assente dal film è il brano dal Vangelo di Luca
nel quale Gesù legge da Isaia nella sinagoga - “Lo Spirito del
Signore è su di me ...” (Is 61,1-2) - e poi annuncia che “Oggi è
adempiuta questa scrittura ...” (Lc 4,21)
Il
Gesù di Jesus non parla della legge di Mosè, della nuova legge e di se
stesso come il compimento della legge. Nemmeno una volta fa una domanda
radicale sugli ascoltatori e sui discepoli. Non entra in conflitto con i
dottori della legge riguardo al suo modo di vivere il sabato o al loro
modo ipocrita di imporre pesi impossibili sulla gente, e non condanna i
farisei. In fin dei conti, la presenza ed attività pubblica di questo
Gesù è così innocua che alla fine non si capisce affatto perché le
autorità lo fanno fuori alla fine del film.
Sorprendentemente
e in forte contrasto con Il
Vangelo di Pasolini e Il
Messia di Rossellini, la predicazione del Gesù di Young è limitata
ad alcuni brani delle beatitudini - certo non quelle più dure -
pronunciati in un dialogo scherzoso con la folla, e alla prima battuta
di una parabola, “Il regno dei cieli è come un tesoro nascosto
....”. Gesù non parla della preghiera e non propone nessun
insegnamento morale; non viene interpellato dal giovane ricco e non
pronuncia parole dure sul destino dei ricchi.
Questo
Gesù dice la parola “peccato” una sola volta. Non indica il peccato
come condizione universale dell’uomo, dalla quale deve essere salvato.
Non parla della giustizia di Dio, non chiama nessuno alla responsabilità
e alla conversione, e senz’altro non dà il minimo segno di avere la
missione di salvare gli uomini dai loro peccati. Tra i suoi pochi
miracoli, non ne compie nemmeno uno nel quale la guarigione fisica viene
abbinata al perdono dei peccati.
I miracoli segni del
Regno?
In
Jesus, Young rappresenta quattro miracoli di Gesù direttamente, ma
riesce ad offuscare la forza spirituale di questi gesti meravigliosi che
nel Vangelo dimostrano l’amore e la misericordia di Dio, e sono segni
del Regno di Dio già presente in Gesù. Alle nozze di Cana, per
esempio, Gesù resiste a lungo davanti all’aggressiva insistenza di
sua madre e finalmente trasforma l’acqua in vino, ma non tanto come un
gesto di misericordia verso gli sposi quanto per convincere i primi due
discepoli che egli è il Messia. Poi, la forza della pesca miracolosa,
come si è già detto, viene diminuita dall’atmosfera di scherzi che
la circonda. La guarigione delle gambe di un ragazzo, accompagnata da
gesti magici - Gesù copre le gambe con un tessuto - e dalle
incomprensibili grida del soggetto, sa più di circo che non dell’atto
taumaturgico di un Dio misericordioso.
Il
grande miracolo della risurrezione di Lazzaro viene diminuito in
significato da tanti elementi che distraggono lo spettatore dal profondo
significato teologico di questo gesto di Gesù: la messinscena da
grand’opera, in imitazione de La più grande storia mai raccontata, la
dinamica psicologico-affettiva tra Gesù e le due sorelle; i ridicoli
colpi di tamburo sulla colonna sonora - che accompagnano tutti i
miracoli - che suggeriscono gli spettacoli del circo; e lo sguardo
pavido di Gesù dopo il miracolo, che richiama il Gesù squilibrato di
Scorsese. Young accenna altri tre miracoli - l’esorcismo di una
bambina indemoniata compiuto a distanza da Gesù, la moltiplicazione dei
pani e dei pesci, e la guarigione di lebbrosi - ma il fatto che non
vengano rappresentati direttamente, e che gli ultimi due miracoli siano
riportati da Livio e da Erode, diminuisce notevolmente la loro forza e
il loro significato spirituale.
La vita interiore di Gesù
e il suo rapporto col Padre
Il
Gesù di Young non manifesta il minimo segno di aver una vita interiore.
Le poche riflessioni che fa su se stesso, limitate al periodo iniziale
della sua vita pubblica, prendono la forma di lamentele patetiche a sua
madre e di scherzi di cattivo gusto sull’idea di essere il Messia.
Questo Gesù non va mai in disparte a riflettere e non prega mai: i Gesù
di Pasolini e di D’Alatri ne I
giardini dell’Eden, sono gli unici nella tradizione di vita
Christi filmiche che pregano.
Nel
Gesù del Vangelo, la dimensione cruciale che contraddistingue
drammaticamente la sua vita interiore e missionaria proprio
dall’inizio è il rapporto che ha con il suo Padre divino. Nel
protagonista di Jesus, questo
rapporto con Dio come Padre non esiste. In tutto il film, che dura tre
ore, Gesù fa riferimento al Padre poche volte e sono riferimenti
formali, come se stesse leggendo un copione. Il suo rapporto col Padre
non è una cosa vissuta, sentita; non è la profonda realtà
esistenziale che dà forma, specificità e significato alla sua vita.
Questo è particolarmente evidente quando Maria sua madre dice a Gesù,
“Tuo padre sarebbe molto fiero di te,” e Gesù, con un sorriso
ironico, risponde, “Quale dei due?” Maria dice “Entrambi.” Il
rapporto di Gesù con Dio viene ridotto ad uno scherzo, una leggerezza.
Se
il Gesù di Young non dimostra nessun autentico rapporto con Dio come
Padre, non dimostra nemmeno l’esperienza di essere autenticamente
Figlio di questo Padre. Questo Gesù parla una volta della “buona
novella,” ma non identifica mai se stesso come questa “buona
novella.” Per di più, quando fa riferimento alla sua missione, ne
parla in termini generali ed universali. Dice al Tentatore, per esempio,
che Dio lo ha mandato per nutrire “l’umanità ... di libertà.”
Il
regista non permette al suo protagonista di rivelare Dio come Padre di
tutti. Non gli fa predicare l’amore del Padre, la giustizia del Padre,
la misericordia del Padre. Non gli fa raccontare la parabola del Figlio
Prodigo, né altre parabole che rappresentano il rapporto Dio Padre-Gesù
e Dio Padre-uomo. Non annuncia il regno di Dio e, forse l’omissione più
clamorosa del film, Young non permette al suo Gesù di insegnare il
“Padre Nostro.”
La Passione senza passione
Stranamente
per un film che spesso scivola in sentimentalismi, in Jesus
si parla molto poco di amore. Gesù non propone il comandamento di amore
come il compimento della legge e dei profeti, e non dimostra né nella
sua predicazione rudimentale né nel suo comportamento come questo
comandamento va vissuto. Alla fine della sua vita, Young non permette al
suo Gesù la minima consapevolezza che l’esperienza che sta per vivere
è una conseguenza diretta del suo impegno di amore salvifico per
l’umanità. In questo film, Gesù non fa una consapevole svolta verso
Gerusalemme; non c’è la predicazione più decisiva che si verifica
nel Vangelo, e Gesù non va liberamente incontro alla morte come un atto
di amore redentore verso l’uomo, per il perdono dei peccati e per la
sua salvezza.
Se
nei vangeli l’episodio dell’Ultima Cena è l’apice della vita e
della missione di Gesù, un momento che egli vive con piena
consapevolezza e totale impegno, l’Ultima Cena rappresentata da Young
è svuotata di ogni significato autentico. Inspiegabilmente ridotta alle
parole di istituzione, più un accenno al tradimento e un indifferente
commento di Gesù sulla risurrezione, non è un rito sacro ebraico,4
non include né una preghiera sacerdotale di Gesù al Padre (come in
Giovanni), né un atto
didattico (come la lavanda dei piedi in Giovanni).
Young
sembra anche intento a dare poco significato, poi, a ciò che segue
l’Ultima Cena. L’intensità della preghiera di Gesù nell’orto
degli ulivi viene bruscamente interrotta dall’ultima tentazione ad
effetti speciale digitali, e la via crucis, da un violento litigio per
strada tra Pietro e Giuda. Infine la forza spirituale della
crocifissione viene viziata dall’inspiegabile e bizzarra scelta di
scenografia per l’episodio: il Calvario non è una collina ma una
vallata tra due montagne, e dietro la croce di Gesù, è raffigurato un
immenso acquedotto che attraversa la vallata e che domina assolutamente
la scena. Quando Gesù pronuncia le doverose parole, “Padre, nelle tue
mani metto il mio spirito,” la spanna centrale dell’acquedotto
esplode, ancora grazie ad effetti digitali, e una spettacolare cascata
d’acqua cade giù.
La Risurrezione
Nella
lunga tradizione di film su Gesù, l’episodio della Risurrezione
risulta forse la più problematica. In Jesus
Christ Superstar, la Risurrezione non c’è; ne L’ultima
tentazione di Cristo, è suggerita da un strano effetto fotografico
extradiegetico; nei film spettacolari americani degli anni ‘60, la
Risurrezione viene rappresentata in modo spettacolare, ma poco
soddisfacente. L’eccezione alla regola è Il Vangelo secondo Matteo
nel quale la Risurrezione ha una grande forza drammatica e spirituale.
Invece, il regista di Jesus
opta per l’approccio popolare: un breve incontro sentimentale tra Gesù
e Maria Maddalena nel giardino, un’interminabile discussione nel
cenacolo tra il sempre scettico Tommaso e i discepoli. Gesù appare e
conferisce la missione universale a tutti: “Ora andate in tutto il
mondo e predicate quanto avete ascoltato. Annunciate la buona
novella.”
Nel
Vangelo, la missione universale è forte: in Matteo, Gesù proclama
l’autorità che gli è stata data e manda i discepoli ad ammaestrare
le nazioni, «battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo», (Mt 28,16-20); in Marco, egli associa il battesimo con
la salvezza, dicendo «chi non crederà sarà condannato,» e promette
poteri eccezionali a chi crede (Mc 16,15-18); in Luca, Gesù, citando
Mosè, i Profeti e i Salmi, spiega il significato salvifico-redentore
della sua morte e risurrezione e promette lo Spirito Santo (Lc
24,44-49); e in Giovanni, Gesù conferisce lo Spirito Santo e dà ai
discepoli la missione di perdonare i peccati (Gv 20,19-24). Paragonati a
questi, il discorsetto soft di Gesù risorto in Jesus è terribilmente
superficiale e privo di autentico significato evangelico.
Anche
per la conclusione del film, Roger Young sceglie l’approccio popolare.
Volendo suggerire un Gesù risorto universale rilevante soprattutto per
i giovani di oggi, Young sostituisce l’Ascensione con la discesa di
Gesù - ancora effetti digitali - sul molo del porto di La Valletta,
Malta, oggi, dove, vestito di jeans e camicia sportiva, incontra un
gruppo di ragazzi di varie età ed etnie,5
e pieni di gioia, camminano lungo il molo, mentre sulla colonna sonora
si sente una canzone di amore sentimental-popolare dall’americana
LeAnn Rimes, “I believe in you.”
È una happy end che piace ad alcuni, ma nell’optare per una rilevanza
universale sentimental-popolare, il regista perde assolutamente
l’autentica rilevanza del Gesù risorto per il mondo di oggi, cha ha
tanto bisogno di sentire proposta con forza spirituale e anche artistica
l’autentica “buona novella” del Vangelo.
Conclusione
Potrebbe
sembrare inopportuno, se non ingiusto, criticare così fortemente un
film su Gesù. Invece, mi è sembrato doveroso farlo proprio perché
questo Jesus è così
popolare, perché è stato visto e sarà ancora visto da tante persone.
Volevo indicare con chiarezza le debolezze del film, perché quando
viene visto dal pubblico televisivo oppure presentato in parrocchia da
catechisti e capigruppo a volte senza occhio critico davanti a un
prodotto filmico così ben confezionato e pubblicizzato, questo film
rischia di far accettare un Gesù Cristo sbagliato e falso, così
deviando l’attenzione e l’impegno degli spettatori dall’autentico
Gesù Cristo, uomo, Messia, Figlio di Dio e infinitamente più
interessante, stimolante e attraente del bel Gesù, simpatico e
scherzoso, ma in fin dei conti, banale, scialbo e vuoto di questo film.
Continua
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