n. 3
marzo 2002

 

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Seguire Gesù in prospettiva della missione - I
di Fernanda Barbiero

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La missiologia - attualmente - non esprime una novità nell’indicare il passaggio “dalle missioni alla missione”. Non fa mistero del fatto che l’interrogativo più drammatico della missione - oggi - attraversa la sua stessa ragione d’essere. Il dialogo interreligioso, la promozione umana, l’inculturazione, hanno assunto tale importanza che non si comprende più che cos’altro significhi missione e si discute sulla sua natura e sull’esistenza stessa della missione. Ha ancora senso la missione? Non è sostituita dal dialogo interreligioso? Non è obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della libertà e della coscienza non esclude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?

Dunque la missione sembra fare problema. Nessuno si nasconde che è in atto una fase di rallentamento nella missione, una crisi reale che mette in evidenza «una crisi di fede» (RM 2 e 4).

In realtà il problema vero va spostato all’interno della missione, concerne la sua vitalità, ossia la qualità della fede su cui la missione poggia. E’ la fede che sembra - oggi - indebolita, inaridita, dimentica del fatto che, se la missione non può identificarsi con la promozione umana, con l’inculturazione, con il dialogo interreligioso, non può neppure confondersi con una sorta di fenomeno culturale, politico, legato allo studio, alla efficienza, alla elaborazione di teologie, di strategie, di piani pastorali. La missione è anzitutto testimonianza e annuncio. Come tale, dunque, inseparabile dalla sua fonte che è Cristo vivente nel suo Spirito.

Se non apre a Cristo, se non si riceve dal suo Spirito, la missione continuerà a soffrire una crisi di identità e, in profondo, di motivazione. Risuona più che mai importante l’appello a riattivare lo slancio missionario dei cristiani, dei discepoli del Signore Gesù, andando alle sorgenti profonde, alle motivazioni più radicali della missione: «Occorre suscitare un nuovo ardore di santità tra i missionari e tutta la comunità cristiana » (RM 90). 

 

Il risveglio della compassione

Nei rapporti con i popoli e le culture, la proposta della fede in Cristo, l’offerta gratuita del dono di Dio, è possibile solo perché Cristo viene incontro all’uomo ed è Lui a colmare l’abisso tra la creatura e il suo Creatore. Soltanto a motivo di questa divina accondiscendenza si può vivere la missione seguendo il Signore crocifisso. Pertanto il percorso missionario non può essere realizzato in maniera strumentale o tattica, ma unicamente come frutto di una sovrabbondanza di amore, di attenzione, di accoglienza e di rispetto della concretezza e dello spazio della libertà dell’altro.

La missione – allora – sollecita il discepolo a purificarsi alla fonte stessa dell’Amore, al mysterium pietatis che è il cuore della missione. Da qui deriva l’urgenza a realizzare quel risveglio della compassione che riconduce il discepolo a essere messaggero e testimone del Dio fatto uomo. Lo strappa dal rinserrarsi in una esperienza di fede narcisistica, impermeabile ai cambiamenti socio-culturali, sorda alle attese e alle angosce degli uomini. Lo fa entrare in quel dinamismo intrinseco della fede che è itinerario faticoso, e a tratti anche doloroso, in cui non si conta più sulle proprie forze e capacità, ma unicamente sull’amore tenero e appassionato di Dio.

I discepoli del Signore Gesù sono incoraggiati all’apertura, alla compassione perché testimoni di un Dio che ama il mondo: lo ha amato tanto da dare il suo Figlio. Non si fa missione facendo terra bruciata della sapienza dei popoli. Si fa missione stabilendo rapporti fecondi di incontro tra le genti, valorizzando e riconoscendo l’azione fecondante dello Spirito già all’opera nella storia e nelle culture dei popoli. Si fa missione imparando il dialogo nel rispetto e nell’amore, altrimenti la storia umana finirà per essere distrutta a causa della prepotenza e della oppressione da parte di alcuni e dalla continua lotta da parte di tutti.

Per seguire Gesù in prospettiva della missione urge accogliere la novità dello Spirito ed eseguire le sue ispirazioni, ma è pure inderogabile ascoltare i drammi e le sofferenze del mondo e sintonizzare con l’impegno di quanti cercano di costruire un mondo realmente aperto e democratico, garante dei diritti di tutti.

Diventa oltremodo importante assumere la consapevolezza cha credere in Dio e lavorare per un mondo più giusto sono due cammini inseparabili. Discepolato e missione sono uniti: uno invera l’altro e lo interpreta. Perciò si comprende quanto sia fondamentale per la missione aspirare a una formazione che aiuti a crescere come persone credenti, capaci di andare alle radici di quello che sta avvenendo nel mondo, interpretarlo criticamente, proponendo la fede in Gesù, la passione per Dio come forma e ragione ultima della vita. Lo fu all’inizio della vita religiosa e continua a esserlo in questo inizio di millennio.

 

La fede che Gesù chiede

Mons. Angelo Scola, qualche anno fa, in un interessante Colloquio proponeva la fede quale apertura alla storia, quale capacità di responsabilizzare i discepoli del Signore di fronte alla realtà e ad andare con intelligenza verso l’uomo, mistero insondabile, verso tutti gli uomini.

La fede non permette al cristiano di essere un individuo autocentrato, autosufficiente. La fede fa del cristiano il discepolo che trova la ragione di se stesso al di fuori di sé, nella perdita di se stesso. Perché la missione non è propaganda e la testimonianza non è fare colpo, bensì essere segni del mistero. Non è la strettoia per la ragione, ma via per vivere la sequela del Signore rendendo conto della speranza che la abita (cf 1Pt 3,15), orientando la missione verso l’altrove a cui Dio chiama.

La fede in Cristo ci salva dalla perdita della ragione che è il rischio più insidioso della nostra epoca caratterizzata da una certa amnesia culturale, poco propensa a chiedersi le ragioni di ciò che siamo, di ciò che incontriamo, di ciò che facciamo1.

Il ricorso alla fede in Gesù Cristo garantisce la ragione e svela la natura del reale perché manifesta la sua diretta derivazione dalla logica dell’Incarnazione. Per cui la realtà contingente, nella visione cristiana della fede, non è considerata come l’anticamera del nulla e l’uomo «ombra di un sogno fuggente» (Shakespeare). La fede non misconosce la consistenza propria della realtà, anzi la fede sottrae la realtà dalla caduta nell’umbratile sogno. Ma oggi il realismo è in crisi, l’uomo è esposto a una serie di aporie e la fede non chiede ragioni. Mentre è proprio della fede l’essere spalancata ad accogliere la realtà: essa è pienezza dell’humanum e come tale incide sul modo con cui uomini e popoli interagiscono tra di loro e con la realtà. Non si può accettare e nemmeno pensare a una fede che si chiude nell’intimismo di un rapporto, che isola, non vede, non sente.

La fede è motore per l’intelligenza e per l’umana capacità di ricerca. Nessuno può rinunciare a questo esercizio che richiama la fede alla sua responsabilità, eleva le virtù a dovere e tiene viva la memoria della sofferenza del mondo. La fede – dico – che non si ripiega su di sé, non preoccupata di vivere per sé, ma capace di «stare accanto a Dio nella sua sofferenza»2. La fede che tiene il volto rivolto al mondo nel convincimento che essa ha qualcosa da dire agli uomini tutti perché non è assenza di memoria, non è amnesia culturale, bensì memoria che grida giustizia, che intende la passione di Dio come compassione cioè capacità di «compatire con l’altro derivante dalla passione di Dio»3, come percezione e partecipazione del dolore altrui, come memoria attiva del dolore dell’altro.

Questa fede postula l’unità dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo4.

«Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Che cosa vedi, Geremia?”. Risposi: “Vedo un ramo di mandorlo”. Il Signore soggiunse: “Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla”» (Ger 1,11-12).

Dio vigila sulla sua parola per realizzarla. E la certezza che Dio vigila sulla storia appella l’uomo a esercitarsi nella comprensione della storia non solo alla luce del passato e del suo futuro, ma anche del suo fine ultimo; alla luce del mistero che vibra in essa e di cui noi siamo testimoni.

La fede appella all’essenza del cristianesimo, al realismo propositivo che afferma la realtà così come la si vede perché è nella realtà, nella sua natura di segno reale che Dio ci interpella5. Nella storia del mondo è di Lui che il discepolo deve essere testimone, senza appartenere al mondo, ma anche senza pretendere di ricreare in vitro le condizioni ideali per vivere una fede senza troppe inquietudini e fatiche.

Il mondo di oggi che ritiene di avere raggiunta la maturità e di potersela cavare da solo anche senza l’ipotesi di Dio, ha bisogno di discepoli seriamente impegnati a tracciare percorsi che portino a una reale umanizzazione del mondo. Discepoli che, disponibili a fidarsi totalmente di Dio, rendono possibile oggi l’esperienza di Abramo, l’avventura dell’esodo e possono aprire nuove vie per la missione, sinora ritenute impossibili.

 

E’ tempo di accendere il fuoco

La vita religiosa, purtroppo, non sempre si è resa conto del profondo disagio che soffre di fronte a una fede che non chiede ragioni e si priva della sua incidenza culturale, la evira con l’enfasi acritica posta su una vaga spiritualità, lontana dalla realtà, inceppata, lasciata in balia di una religiosità frantumata nel caleidoscopio di un sacro selvaggio, emozionale.

La forma consistente della fede non sta in una sequenza di esercizi devoti, ricca di stati d’animo, priva di giudizio, di sapienza e di ragioni: ma alla fine la perdita delle ragioni della fede è perdita delle ragioni della vita. Al di fuori di una forte visione della fede, si finisce con indebolire la stessa radicalità evangelica e si riduce la vita religiosa a vita di sterile pietà, incapace di convincere, di vincere il male e di trasformare il mondo.

Di fronte alla sofferenza del mondo, la vita religiosa deve ritrovare la fede che la fa uscire da sé per aprirla al riconoscimento dell’altro. E l’altro è il fratello concreto, quello che si fa incontro, ferito, umiliato, privo della sua felicità.

La vita religiosa deve superare il suo chiuso individualismo per andare verso Colui che è davvero il centro, il cuore dell’esistenza di tutto e nel quale tutto si ritrova. La fede pone la vita in sintonia con il pulsare eterno dell’amore che crea e che redime, che aiuta e che salva. Sono sempre molto eloquenti le parole con cui Bonhoeffer invita a considerare la concretezza della fede cristiana e la sua carica di responsabilità nella trasformazione della vita umana.

«Nulla può esservi di più crudele di quella bontà che lascia l’altro nel suo peccato. E’ un servizio di misericordia, un’ultima offerta di sincera comunione, se lasciamo che la Parola di Dio rimanga, sola, tra noi a giudicare e aiutare. Non siamo noi, allora a giudicare: Dio solo giudica e il giudizio di Dio è sempre di aiuto e di salvezza»6.

Ora la fede cristiana propone con coraggio la Parola di Dio, il Figlio, Gesù Cristo benedetto come evento risolutivo della storia, mostrando la decisività della sua presenza e del suo messaggio, la capacità cioè di incidere sul modo con cui un uomo, un popolo vede ed esprime se stesso e la realtà. Questo evento mostra tutto il suo volto nell’esperienza cristiana, la connota sin dalla sua sorgività battesimale e la accompagna fino al suo elevato compimento come paradigma dell’esistere in Cristo.

La vita religiosa trova in questo evento la direzione paradigmatica del suo cammino. La sua forza sta nel dare voce e forma alla fede in Lui Crocifisso e Risorto appropriandosi personalmente dell’ethos della sequela di Cristo Gesù. Appropriandosi cioè, della sua pietas per il mondo, la sua compassione, l’empatia compartecipe, la dedizione misericordiosa di Dio nei confronti dell’uomo. La compassione come la pietà, nella tradizione cristiana, non sono concetti a basso prezzo, dimensioni di basso profilo, non sono espressioni della debolezza dell’uomo. Chi non ricorda lo scherno di Nietzsche di fronte alla pietà che considerava inutile prodotto dello spirito debole,

«fondata sull’egoismo, sul piacere della sofferenza che a sua volta, nasce dalla paura della propria sofferenza e dalla minaccia costituita dall’altro, i cui moti, anche quelli dell’animo, si studiano per potersene difendere»7.

La pietà, come la compassione, non è una perturbatio animi come volevano gli stoici, un «difetto di un piccolo spirito che va in pezzi alla vista delle sofferenze altrui» (Seneca). 

Essa è preoccupazione per il bene dell’altro, è umanità condivisa: racchiude una memoria pericolosa. Compassione infatti è il ricordare la dedizione di Dio nell’esperienza dell’esodo, la fede nella resurrezione di Cristo e la speranza di salvezza. La memoria della compassione di Dio provoca realmente l’unica risposta adeguata dell’uomo alla sofferenza degli altri uomini.

La compassione è pietà per il sofferente, partecipazione al suo dolore e come tale elemento centrale dell’amore del prossimo. La compassione, la pietà, implicano un’essenziale e molto seria dimensione etica8. Perdersi nella fede in Cristo Gesù - dunque - significa scoprire la dimensione di quella intimità profondissima che non nasce dall’esclusione degli altri o dall’ignorare la realtà, ma dalla scoperta delle infinite possibilità dell’amore di Gesù che è sempre e comunque tutto per me e tutto per gli altri.

 

…e diventare fiamma

Riappropriarsi della forte fede in Cristo è oggi più che mai condizione necessaria per alimentare una spiritualità non evasiva, ma che sa guardare oltre, e interrogarsi dentro l’afflizione delle contraddizioni e dei problemi contemporanei. La fede bruciante nel Dio di Gesù Cristo può far uscire dalla crisi che intristisce la missione e rinnovare ogni giorno l’esperienza di Dio nella contemplazione, per essere coinvolti nelle sofferenze degli uomini senza mai cessare di dimorare in Dio.

Se la vita religiosa cessa di vivere il mistero dell’incontro con Dio nella fede non sarà mai luogo di fede vissuta e dunque non potrà accogliere le sfide del mondo e leggervi la presenza di Dio; non saprà coltivare la speranza, lasciandosi vincere dalla logica di Dio, e diventare luogo di rifugio di chi ha il cuore ferito e l’anima senza patria. E’ la fede che affranca da ogni tipo di possesso, che libera da ogni interesse egoistico, che trascina all’amore temerario, all’ascolto senza limiti delle mille povertà che straziano l’umanità.

«Nel mondo attuale, così pieno di campi per rifugiati, di bambini affamati, di donne maltrattate, di uomini senza dimora, di moltitudini senza futuro, c’è bisogno di persone consacrate che sappiano dare quello di cui il mondo ha più bisogno: una fede audace, una voce per i senza voce, una testimonianza della carità. Solo tale essenzialità, solo questo tipo di povertà, castità, e obbedienza attende e invoca il mondo attuale sfruttato da mille povertà»9

E’ giunto il tempo di riqualificarsi nella fede, di dare alla sequela il volto compassionevole di Dio. E’ tempo di offrire una presenza che accende il fuoco. E’ giunto il tempo di diventare fiamma. Quando un cuore è appassionato nessun sforzo è troppo grande, nessuna fiducia fallisce.

 

Introduzione

“È un Gesù molto simpatico ... Questo Gesù è amico di tutti... È bello vedere un Gesù che sa ridere e scherzare ... Mi piace, perché è così diverso dal Gesù proposto dalla chiesa”. Sono tutti commenti raccolti dopo la proiezione del film Jesus1 con gruppi di ragazzi in due parrocchie di Roma, e in una parrocchia di Toronto. Davanti a un film su Gesù, che ha suscitato delle reazioni così positive, è doveroso riconoscere i meriti del film. Anzitutto, occorre dire che Young è abbastanza rispettoso della figura di Gesù: non cade in nessuno degli eccessi psicologizzanti di alcuni dei film della tradizione. Per la persona di cultura religiosa limitata, o che non conosce nulla della persona di Gesù, il film può servire come introduzione alla storia dell’uomo che per noi cristiani è il Figlio di Dio. La popolarità del film è ben attestata dall’altissimo indice d’ascolto di RAI-UNO le due sere della prima trasmissione del film.

Se Jesus è piaciuto ai telespettatori, a un pubblico più scelto, invece, non è piaciuto affatto. Un gruppo di quaranta studenti di teologia dell’Università Gregoriana, nel contesto di un corso che offro sull’immagine di Gesù nel cinema, hanno visionato il film e, quasi all’unanimità, la loro reazione è stata negativa. In questo articolo, vorrei indicare anch’io i miei dubbi riguardo a questo film. L’approccio sarà scientifico-critico, prenderà in considerazione sia il contenuto del film che il suo stile; l’analisi si farà sullo sfondo di alcuni altri film della lunga tradizione del film su Gesù.

Una struttura da teleromanzo

Una delle prime cose che colpisce quando si visiona Jesus è quanto sia facile seguire lo sviluppo della narrazione. Il problema è che questa trama ben strutturata e liscia è in forte contrasto, anzi in contraddizione, con la struttura dei quattro vangeli. I vangeli non sono romanzi, non sono drammi teatrali e non sono nemmeno delle narrazioni in senso stretto. Queste testimonianze di fede hanno una struttura tutta loro, caratterizzata soprattutto da ellissi: mancano i dettagli che collegano un episodio all’altro, il tempo è condensato, l’enfasi cade in genere sulle parole dette da Gesù, e spesso le circostanze concrete della sua predicazione e dei suoi miracoli non vengono descritte.

Tutto ciò evidentemente non si adatta facilmente al mezzo filmico. Nei più di cento anni di vitae Christi filmiche, un solo regista ha avuto il coraggio di rispettare sia il testo che lo stile del Vangelo: Pier Paolo Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo (1964). Il regista di Jesus, Roger Young opera invece un adattamento molto libero del testo del Vangelo nello stile del tipico filmato televisivo e del teleromanzo. Perciò, la struttura di Jesus è caratterizzata da brevi blocchi narrativi, ognuno con un suo piccolo conflitto drammatico che viene risolto nel breve tempo del blocco stesso e nessuno dei quali dura più di tre o quattro minuti. C’è un notevole equilibrio tra l’azione e i dialoghi e spesso la musica extradiegetica serve come punteggiatura sia all’interno di un blocco che tra i vari blocchi.

Young fa uno sforzo notevole per togliere dalla trama la minima stonatura narrativa, la minima ellisse. Crea ponti narrativi lisci tra episodi. Spiega e giustifica eventi che nel Vangelo rimangono senza spiegazione: per esempio, Gesù è amico di Lazzaro e Marta e Maria perché prima di intraprendere la sua vita pubblica lavora da loro come falegname; Gesù va alle nozze di Cana perché lo sposo è il suo cugino Beniamino.

Un’altra tecnica adoperata da Young per rendere più appetibile il testo biblico è di aggiungere alla trama principale del film una serie di trame secondarie, pesanti di materiale fittizio, che con il loro contento drammatico - meglio, melodrammatico - appoggiano la trama principale. Young include più episodi della guerra terroristica portata avanti dagli zeloti, per sviluppare i personaggi di Barabba e Giuda; elabora a lungo la vicenda di Maria Maddalena e la sua conversione, inclusa la stonatura della sua presentazione a Gesù per raccomandazione di sua madre Maria. Young dedica molto tempo ai problemi domestici del debole Erode e ai problemi politici del freddo e duro Pilato e sviluppa il lungo e melodrammatico episodio dell’interesse romantico di Maria di Betania per Gesù.2

In un ulteriore parallelo al teleromanzo, spesso gli eventi rappresentati in Jesus vengono sviluppati più per il loro carico emozionale che per la loro corrispondenza al racconto biblico. L’esempio più clamoroso di ciò è la rappresentazione delle tentazioni di Gesù ripetuta ben tre volte, tentazioni tutta azione e dramma, ma che poi sono lontane anni luce dal significato delle tentazioni di Gesù nel Vangelo. Inoltre, il sottotesto di potere, conflitto e violenza che domina i rapporti Pilato, Erode e Caifa proprio dall’inizio del film, è una disastrosa distrazione da ciò che dovrebbe essere la considerazione principale del film, la storia di Gesù.

Queste manipolazioni del testo biblico, altro che “contributo poetico”3 di Young, hanno l’effetto di addomesticare fatalmente il testo evangelico. Alla fine, la trama della vita Christi creata da Roger Young offre poco più di un filmato qualsiasi che si vede ogni giorno in televisione: buoni sentimenti, vicende romantiche, conflitti, emozioni, qualche violenza ed effetto speciale digitale: la forza trascendentale della vita di Gesù e dell’evento Cristo non c’è più.

Le bizzarie

Pochi sono i film nella tradizione della vita Christi che non includono qualche scena inventata dal regista nella ricerca di novità o varietà che, egli spera, piacerà al pubblico. Inevitabilmente questi elementi stonano con il testo e lo spirito del racconto evangelico, e il desiderio del regista di essere originale risulta in bizzarie che si estendono da semplice cattivo gusto fino a vere e proprie eresie. Ne La più grande storia mai raccontata (1965) per esempio, Giuda Iscariota non si impicca, ma si butta in una immensa fornace aperta nel cortile del Tempio; in Re dei re (1961), la tavola dell’Ultima Cena ha la forma di una “Y” cosicché, dice il regista, il Signore possa distribuire la comunione ad ogni discepolo personalmente. Nell’Ultima tentazione di Cristo (1988), Scorsese include un episodio da puro grand guignol, nel quale, grazie ad effetti speciali, Gesù tira fuori il cuore dal suo petto e lo offre ai discepoli: è l’omaggio di Scorsese all’immagine del Sacro Cuore nel salotto della nonna a Brooklyn.

Il regista di Jesus non resiste alla tentazione di creare qualche sua bizzaria. Come si è già detto, Young sottopone il suo Gesù a ben tre episodi di tentazione: in apertura, l’incubo che anticipa la classica scena delle tentazioni; poi quella scena, più bizzarra che classica: Young rappresenta Satana come una donna seduttrice che poi si trasforma, grazie ad effetti speciali digitali, in uomo, e finalmente, un’ultima tentazione nell’orto degli ulivi. Il giorno dopo il Sermone sulla Montagna, evento rappresentato in stile talk-show nella stessa spettacolare scenografia della montagna con un bellissimo lago sullo sfondo, Young rappresenta la chiamata dei dodici apostoli come se fosse la selezione dei concorrenti per un quiz show in televisione. Gesù, sul palcoscenico dell’anfiteatro creato dalla collina, chiama giù gli apostoli uno per uno. Alla chiamata, ciascuno si alza, riceve gli applausi dei vicini e scende giù; quando l’ultimo apostolo viene chiamato, il gruppo sul palcoscenico fa pensare a una squadra di football vincente con l’allenatore. Nella prima parte del film, Gesù obbliga Giuda a dare ai poveri i soldi che ha raccolto. Si tratta di trenta monete d’argento, che poi Giuda getta verso un gruppo di poveri, gridando, “Ecco un regalo dal Messia”. Evidentemente, Young vuole così chiarire la motivazione di Giuda per il susseguente tradimento di Gesù per trenta monete d’argento. Ma l’episodio è del tutto artificioso, spicciolo ed inutile.

Anche alla tentazione di usare effetti speciali digitali il regista di Jesus non resiste: il risultato, almeno in un’istanza, è una bizzaria alla quale perfino i ragazzi a cui è molto piaciuto il film hanno reagito con derisione. Nella conclusione dell’episodio del battesimo di Gesù, che Young estende per ben due giorni, e al momento dell’epifania di Dio, il sole si stacca dal cielo, scende in zig-zag, come una spettacolare stella a più punti, verso Gesù, si ferma drammaticamente davanti a lui ed entra nel suo petto. L’effetto speciale, tanto spicciolo e volgare quanto inspiegabile e superfluo, stona terribilmente.

Chi è questo Livio?

Senz’altro l’invenzione più clamorosa di Roger Young è il personaggio di Livio. Cittadino romano del tutto fittizio, Livio appare ben tredici volte nel film, in qualche occasione alla presenza di Gesù ma soprattutto alla presenza di Ponzio Pilato, Erode e Caifa. Il regista rappresenta Livio come “storico di Cesare ... la sua spia:” l’uomo conosce meglio di Pilato la situazione politico-religiosa in Palestina e gli serve da consigliere. Per di più, Livio domina Erode e manipola Caifa. Questa ingegnosa associazione di una figura del tutto fittizia con tre figure storico-bibliche è un’operazione insidiosa perché nella mente del tipico telespettatore Livio così diventa una figura evangelica.

Il ruolo di Livio diventa cruciale è durante la Passione. Quando Gesù è davanti a Erode, è Livio che accusa: “Minaccia il paese, incoraggia la ribellione... proclama di essere re”. Quando Gesù è presentato alla folla da Pilato, è Livio che incita tutti a gridare per la liberazione di Barabba e sul Calvario, quando Gesù prega, “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”, Livio risponde con una battuta tanto violenta e crudele quanto volgare: “Sappiamo esattamente quello che facciamo, Messia, ti stiamo uccidendo.”

È chiarissimo che Young crea il personaggio fittizio di Livio per togliere la responsabilità della morte di Gesù dalle storiche autorità religiose ebraiche. C’è un precedente per questa particolare operazione di fiction, cioè Gesù di Nazareth (1977). Nel film di Zeffirelli, il responsabile per la morte di Gesù è il personaggio fittizio, Zerah, un ebreo associato all’assemblea dei sacerdoti; in Jesus, nel fare di Livio un romano, per di più apertamente anti-semitico, Young effettua una decisamente più larga distanziazione tra la colpa per la crocifissione e le autorità ebraiche, e quindi una maggiore falsificazione del testo evangelico.

Gli “omaggi” ad altri film su Gesù

Nell’arte cinematografica è più che lecito che un regista faccia riferimento ad altre opere cinematografiche che rappresentano tematiche parallele a quelle del suo film. L’omaggio è un breve riferimento, una singola ripresa; è trasparente e ha due scopi: vuole sottolineare la corrispondenza tematica tra i due film e vuole riconoscere l’importanza del film citato.

Si potrebbe immaginare che in un film recente su Gesù, l’autore voglia rendere omaggio ad uno o più dei tanti film nella lunga tradizione di questo genre. E infatti, Roger Young più volte fa riferimento ad altri film su Gesù però non sono brevi citazioni ma elementi estesi nel suo film, il design dei quali viene da altri film. Questa procedura, che risulta in una specie di collage, un pastiche tipico dello stile postmoderno, è problematica soprattutto perché gli elementi che Young imita vengono dai film più limitati della tradizione e sono scelti non perché sono elementi cruciali di un autentico ritratto del Gesù del Vangelo, ma per una varietà di altri motivi a dir poco discutibili in un film su Gesù.

Nell’apertura del suo film, per esempio, Young si ispira a due film della tradizione. Il primo film spettacolare su Gesù, Il Re dei re (1927), girato dal grande showman-impresario Cecil B. DeMille, inizia con una sequenza del tutto fittizia: Maria Maddalena, cortigiana e fidanzata a Giuda Iscariota lascia una festa mondana nella sua lussuosa villa per portare via il suo fidanzato dall’influsso negativo di quel giovane predicatore da Nazaret; quando la Maddalena arriva da Gesù, spontaneamente la lasciano sette demoni e si converte drammaticamente. DeMille, non avendo molta fiducia nel testo evangelico, intende garantire l’attenzione del pubblico con questa sequenza drammatica e sexy. Nicolas Ray, regista di Re dei re (1961) inizia il suo film con un prologo, che pretende di rappresentare la prestoria della vita di Gesù e il bisogno del popolo ebraico di un Messia; infatti la sequenza, una serie di violentissimi massacri di ebrei zeloti da parte di soldati romani, ha lo stesso scopo “panem et circenses” della sequenza soft-porn di Il Re dei re.

Anche Roger Young sceglie l’approccio di fiction e “sesso e violenza” per aprire il suo film. I primi trenta minuti di Jesus sono un montaggio di brevi scene che mescolano qualche elemento vagamente evangelico con elementi di violenza politico-militare: l’arrivo di Pilato con l’esercito romano, i primi scontri tra Pilato, Erode e Caifa, e perfino un attacco violento da parte di soldati romani alla casa di Giuseppe e Maria, dove cercano le dovute tasse; poi aggiunge qualche elemento sentimentale: Maria, sorella di Lazzaro, si innamora di Gesù e poi Giuseppe muore nelle braccia di Gesù. Young non ha grande fiducia nel testo biblico e come i suoi predecessori, inserisce questo melodrammatico materiale extrabiblico per captare e tenere bene l’attenzione del pubblico.

Al film scandalo del 1988, L’ultima tentazione di Cristo, Jesus si riferisce in più elementi. Il violento incubo di Gesù col quale Young apre il suo film, viene dall’Ultima tentazione. Poi c’è la questione delle donne. Dopo Jesus Christ Superstar (1973), che include donne nella sequela di Gesù, Scorsese ne L’ultima Tentazione elabora notevolmente la fiction conferendo a donne un ruolo dominante nel suo film: nelle tentazioni, nella vita sentimentale squilibrata di Gesù, all’Ultima Cena, e nella famigerata sequenza dell’ultima tentazione. Anche se il regista di Jesus toglie dalle donne il minimo profumo di scandalo - giusto e doveroso in un film che aspiri a una distribuzione televisiva mondiale - tuttavia egli dà loro un ruolo dominante: una delle identità del Satana tentatore è femminile; Maria la madre, le sorelle di Lazzaro e poi Maria Maddalena accompagnano Gesù dappertutto. Però, fatto curioso, in un momento di rara e inspiegabile ortodossia evangelica, ma di inconsistenza narrativa, Young non ammette le donne all’Ultima Cena.

Se poi Scorsese interrompe l’agonia di Cristo in croce con la lunga sequenza dell’ultima tentazione, Young fa la stessa cosa durante la sua agonia nell’orto degli ulivi, inserendoci l’anti-evangelico episodio dell’ultima visita del tentatore; l’episodio, che propone in Gesù la paura di morire invano, contraddice il fatto biblico: nel Vangelo, Gesù ha paura della morte ma capisce e accetta fino il fondo in senso salvifico-redentivo della sua morte.

Al recente film I giardini dell’Eden (1997) di Alessandro D’Alatri, Jesus deve la dimensione di attualità che caratterizza i suoi vari episodi delle tentazioni: un Gesù a cui vengono mostrati i problemi sociali ed economici del mondo in vari periodi della storia futura, frutto della violenza visitata dall’uomo su altri uomini a nome di Dio. Al film colossal, Re dei re, Jesus deve la strana ed anti-evangelica rappresentazione di Maria, la madre di Gesù, come sapientona: lei sa più di Gesù e della sua missione che non Gesù stesso e funziona da direttrice spirituale per lui, ma anche per i discepoli e per Maria Maddalena. Questo film ha ispirato Young anche nella sua strana versione del Sermone sulla Montagna: nei due film, Gesù cammina in mezzo alla folla svolgendo una specie di catechesi leggera tramite un dialogo fin troppo informale con gli ascoltatori-partecipanti: nella versione “aggiornata” di Jesus, con le sue battute spiritose, si ha l’impressione di partecipare a un talk-show televisivo.

Uno dei film su Gesù al quale il regista Young non fa riferimento è Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, e si capisce subito perché. Il film di Pasolini è duro, in un difficile ed esigente stile anti-spettacolare e anti-hollywoodiano, un film impegnativo, e il suo Gesù è forte, eloquente ed esigente, del tutto coerente e senza compromessi nella sua chiamata alla conversione e alla vita retta, nelle sue critiche dell’establishment religioso del suo tempo, e nel suo messaggio dell’amore di Dio e della salvezza che Egli offre all’umanità. È sintomatico della malaise che afflige il film di Young il fatto che egli evita a tutti i costi il minimo avvicinamento o riferimento al Vangelo di Pasolini.

L’altro film al quale Young evita di fare riferimento è Il Messia (1975) di Roberto Rossellini, fatto reso ironico dal ripetuto, anzi esagerato uso del termine “Messia” nel suo film. Il film di Rossellini è in un sobrio stile didattico, e proprio dall’inizio il suo Gesù è il Maestro buono, che guida e insegna con forza morale, convinzione ed efficacia. Roger Young nel suo Jesus, invece, non vuole insegnare, e certo non vuole un Gesù che insegna. Il suo è un film soprattutto di intrattenimento leggero, confezionato apposta per il pubblico televisivo, che solo pretende di essere una vita Christi seria che vorrebbe edificare.

Questo Gesù è il Messia?

 La vita Christi di Roger Young soffre delle tante manipolazioni del testo evangelico operato dal regista, che hanno l’effetto di creare una narrazione da teleromanzo, molto popolare con il pubblico televisivo ma svuotata di autentica corrispondenza al testo e allo spirito del Vangelo. Il film soffre, forse anche di più, del ritratto di Gesù che Young dipinge, che ne fa un personaggio che non è altro che un’ombra pallida dell’autentico Gesù del Vangelo.

Il Gesù del Vangelo è il Messia, e nel suo film, Young fa pronunciare la parola “Messia” tante volte e da tante persone, però è proprio l’uso esagerato della parola ad essere un problema, uso esagerato ma anche troppo informale e spesso scherzoso. Quando i primi due discepoli insistono che Gesù è il Messia, egli ride dicendo, “Ne siete proprio sicuri?”. Quando poi Simone, seguendo le istruzioni di Gesù, prepara la barca per la pesca miracolosa, egli prende in giro Gesù dicendo, “Sali a bordo, Messia,” e riferendosi al miracolo appena compiuto a Cana, chiede con ironia se Gesù intende trasformare l’acqua del lago in vino. A questa battuta, tutti, perfino Gesù, ridono.

Nonostante la parola “Messia” venga usata spesso in Jesus, l’unico significato specifico che ha è quello dato dagli zeloti, “Messia” come leader militare-politico che dovrebbe liberare il popolo ebraico dalla dominazione dei romani, il che, stranamente, è anche il modello di Messia al quale sembrano aderire Maria e Giuseppe. Anche se Gesù qualche volta nega questo ruolo militare-politico, non propone mai in modo specifico quale sia il suo ruolo, quale tipo di Messia egli intende essere. Dice solo di dover “andare per la mia strada,” che la sua vita “non mi appartiene,” e parla vagamente di portare “la libertà.”

La predicazione limitata di Gesù

Oltre a queste banalità vagamente New Age, e in chiaro contrasto con il Gesù del Vangelo, il protagonista di Young non parla mai dei grandi profeti dell’Antico Testamento che hanno profetizzato e prefigurato il Messia. Non parla né di Mosè né di Giovanni Battista e evidentemente non si identifica con loro; non parla come profeta e non dà il minimo senso di dover morire come profeta. Clamorosamente assente dal film è il brano dal Vangelo di Luca nel quale Gesù legge da Isaia nella sinagoga - “Lo Spirito del Signore è su di me ...” (Is 61,1-2) - e poi annuncia che “Oggi è adempiuta questa scrittura ...” (Lc 4,21)

Il Gesù di Jesus non parla della legge di Mosè, della nuova legge e di se stesso come il compimento della legge. Nemmeno una volta fa una domanda radicale sugli ascoltatori e sui discepoli. Non entra in conflitto con i dottori della legge riguardo al suo modo di vivere il sabato o al loro modo ipocrita di imporre pesi impossibili sulla gente, e non condanna i farisei. In fin dei conti, la presenza ed attività pubblica di questo Gesù è così innocua che alla fine non si capisce affatto perché le autorità lo fanno fuori alla fine del film.

Sorprendentemente e in forte contrasto con Il Vangelo di Pasolini e Il Messia di Rossellini, la predicazione del Gesù di Young è limitata ad alcuni brani delle beatitudini - certo non quelle più dure - pronunciati in un dialogo scherzoso con la folla, e alla prima battuta di una parabola, “Il regno dei cieli è come un tesoro nascosto ....”. Gesù non parla della preghiera e non propone nessun insegnamento morale; non viene interpellato dal giovane ricco e non pronuncia parole dure sul destino dei ricchi.

Questo Gesù dice la parola “peccato” una sola volta. Non indica il peccato come condizione universale dell’uomo, dalla quale deve essere salvato. Non parla della giustizia di Dio, non chiama nessuno alla responsabilità e alla conversione, e senz’altro non dà il minimo segno di avere la missione di salvare gli uomini dai loro peccati. Tra i suoi pochi miracoli, non ne compie nemmeno uno nel quale la guarigione fisica viene abbinata al perdono dei peccati.

I miracoli segni del Regno?

In Jesus, Young rappresenta quattro miracoli di Gesù direttamente, ma riesce ad offuscare la forza spirituale di questi gesti meravigliosi che nel Vangelo dimostrano l’amore e la misericordia di Dio, e sono segni del Regno di Dio già presente in Gesù. Alle nozze di Cana, per esempio, Gesù resiste a lungo davanti all’aggressiva insistenza di sua madre e finalmente trasforma l’acqua in vino, ma non tanto come un gesto di misericordia verso gli sposi quanto per convincere i primi due discepoli che egli è il Messia. Poi, la forza della pesca miracolosa, come si è già detto, viene diminuita dall’atmosfera di scherzi che la circonda. La guarigione delle gambe di un ragazzo, accompagnata da gesti magici - Gesù copre le gambe con un tessuto - e dalle incomprensibili grida del soggetto, sa più di circo che non dell’atto taumaturgico di un Dio misericordioso.

Il grande miracolo della risurrezione di Lazzaro viene diminuito in significato da tanti elementi che distraggono lo spettatore dal profondo significato teologico di questo gesto di Gesù: la messinscena da grand’opera, in imitazione de La più grande storia mai raccontata, la dinamica psicologico-affettiva tra Gesù e le due sorelle; i ridicoli colpi di tamburo sulla colonna sonora - che accompagnano tutti i miracoli - che suggeriscono gli spettacoli del circo; e lo sguardo pavido di Gesù dopo il miracolo, che richiama il Gesù squilibrato di Scorsese. Young accenna altri tre miracoli - l’esorcismo di una bambina indemoniata compiuto a distanza da Gesù, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, e la guarigione di lebbrosi - ma il fatto che non vengano rappresentati direttamente, e che gli ultimi due miracoli siano riportati da Livio e da Erode, diminuisce notevolmente la loro forza e il loro significato spirituale.

La vita interiore di Gesù e il suo rapporto col Padre

 Il Gesù di Young non manifesta il minimo segno di aver una vita interiore. Le poche riflessioni che fa su se stesso, limitate al periodo iniziale della sua vita pubblica, prendono la forma di lamentele patetiche a sua madre e di scherzi di cattivo gusto sull’idea di essere il Messia. Questo Gesù non va mai in disparte a riflettere e non prega mai: i Gesù di Pasolini e di D’Alatri ne I giardini dell’Eden, sono gli unici nella tradizione di vita Christi filmiche che pregano.

Nel Gesù del Vangelo, la dimensione cruciale che contraddistingue drammaticamente la sua vita interiore e missionaria proprio dall’inizio è il rapporto che ha con il suo Padre divino. Nel protagonista di Jesus, questo rapporto con Dio come Padre non esiste. In tutto il film, che dura tre ore, Gesù fa riferimento al Padre poche volte e sono riferimenti formali, come se stesse leggendo un copione. Il suo rapporto col Padre non è una cosa vissuta, sentita; non è la profonda realtà esistenziale che dà forma, specificità e significato alla sua vita. Questo è particolarmente evidente quando Maria sua madre dice a Gesù, “Tuo padre sarebbe molto fiero di te,” e Gesù, con un sorriso ironico, risponde, “Quale dei due?” Maria dice “Entrambi.” Il rapporto di Gesù con Dio viene ridotto ad uno scherzo, una leggerezza.

Se il Gesù di Young non dimostra nessun autentico rapporto con Dio come Padre, non dimostra nemmeno l’esperienza di essere autenticamente Figlio di questo Padre. Questo Gesù parla una volta della “buona novella,” ma non identifica mai se stesso come questa “buona novella.” Per di più, quando fa riferimento alla sua missione, ne parla in termini generali ed universali. Dice al Tentatore, per esempio, che Dio lo ha mandato per nutrire “l’umanità ... di libertà.”

Il regista non permette al suo protagonista di rivelare Dio come Padre di tutti. Non gli fa predicare l’amore del Padre, la giustizia del Padre, la misericordia del Padre. Non gli fa raccontare la parabola del Figlio Prodigo, né altre parabole che rappresentano il rapporto Dio Padre-Gesù e Dio Padre-uomo. Non annuncia il regno di Dio e, forse l’omissione più clamorosa del film, Young non permette al suo Gesù di insegnare il “Padre Nostro.”

La Passione senza passione

 Stranamente per un film che spesso scivola in sentimentalismi, in Jesus si parla molto poco di amore. Gesù non propone il comandamento di amore come il compimento della legge e dei profeti, e non dimostra né nella sua predicazione rudimentale né nel suo comportamento come questo comandamento va vissuto. Alla fine della sua vita, Young non permette al suo Gesù la minima consapevolezza che l’esperienza che sta per vivere è una conseguenza diretta del suo impegno di amore salvifico per l’umanità. In questo film, Gesù non fa una consapevole svolta verso Gerusalemme; non c’è la predicazione più decisiva che si verifica nel Vangelo, e Gesù non va liberamente incontro alla morte come un atto di amore redentore verso l’uomo, per il perdono dei peccati e per la sua salvezza.

Se nei vangeli l’episodio dell’Ultima Cena è l’apice della vita e della missione di Gesù, un momento che egli vive con piena consapevolezza e totale impegno, l’Ultima Cena rappresentata da Young è svuotata di ogni significato autentico. Inspiegabilmente ridotta alle parole di istituzione, più un accenno al tradimento e un indifferente commento di Gesù sulla risurrezione, non è un rito sacro ebraico,4 non include né una preghiera sacerdotale di Gesù al Padre (come in Giovanni), né un atto didattico (come la lavanda dei piedi in Giovanni).

Young sembra anche intento a dare poco significato, poi, a ciò che segue l’Ultima Cena. L’intensità della preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi viene bruscamente interrotta dall’ultima tentazione ad effetti speciale digitali, e la via crucis, da un violento litigio per strada tra Pietro e Giuda. Infine la forza spirituale della crocifissione viene viziata dall’inspiegabile e bizzarra scelta di scenografia per l’episodio: il Calvario non è una collina ma una vallata tra due montagne, e dietro la croce di Gesù, è raffigurato un immenso acquedotto che attraversa la vallata e che domina assolutamente la scena. Quando Gesù pronuncia le doverose parole, “Padre, nelle tue mani metto il mio spirito,” la spanna centrale dell’acquedotto esplode, ancora grazie ad effetti digitali, e una spettacolare cascata d’acqua cade giù.

La Risurrezione

Nella lunga tradizione di film su Gesù, l’episodio della Risurrezione risulta forse la più problematica. In Jesus Christ Superstar, la Risurrezione non c’è; ne L’ultima tentazione di Cristo, è suggerita da un strano effetto fotografico extradiegetico; nei film spettacolari americani degli anni ‘60, la Risurrezione viene rappresentata in modo spettacolare, ma poco soddisfacente. L’eccezione alla regola è Il Vangelo secondo Matteo nel quale la Risurrezione ha una grande forza drammatica e spirituale. Invece, il regista di Jesus opta per l’approccio popolare: un breve incontro sentimentale tra Gesù e Maria Maddalena nel giardino, un’interminabile discussione nel cenacolo tra il sempre scettico Tommaso e i discepoli. Gesù appare e conferisce la missione universale a tutti: “Ora andate in tutto il mondo e predicate quanto avete ascoltato. Annunciate la buona novella.”

Nel Vangelo, la missione universale è forte: in Matteo, Gesù proclama l’autorità che gli è stata data e manda i discepoli ad ammaestrare le nazioni, «battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», (Mt 28,16-20); in Marco, egli associa il battesimo con la salvezza, dicendo «chi non crederà sarà condannato,» e promette poteri eccezionali a chi crede (Mc 16,15-18); in Luca, Gesù, citando Mosè, i Profeti e i Salmi, spiega il significato salvifico-redentore della sua morte e risurrezione e promette lo Spirito Santo (Lc 24,44-49); e in Giovanni, Gesù conferisce lo Spirito Santo e dà ai discepoli la missione di perdonare i peccati (Gv 20,19-24). Paragonati a questi, il discorsetto soft di Gesù risorto in Jesus è terribilmente superficiale e privo di autentico significato evangelico.

Anche per la conclusione del film, Roger Young sceglie l’approccio popolare. Volendo suggerire un Gesù risorto universale rilevante soprattutto per i giovani di oggi, Young sostituisce l’Ascensione con la discesa di Gesù - ancora effetti digitali - sul molo del porto di La Valletta, Malta, oggi, dove, vestito di jeans e camicia sportiva, incontra un gruppo di ragazzi di varie età ed etnie,5 e pieni di gioia, camminano lungo il molo, mentre sulla colonna sonora si sente una canzone di amore sentimental-popolare dall’americana LeAnn Rimes, “I believe in you.” È una happy end che piace ad alcuni, ma nell’optare per una rilevanza universale sentimental-popolare, il regista perde assolutamente l’autentica rilevanza del Gesù risorto per il mondo di oggi, cha ha tanto bisogno di sentire proposta con forza spirituale e anche artistica l’autentica “buona novella” del Vangelo.

Conclusione

Potrebbe sembrare inopportuno, se non ingiusto, criticare così fortemente un film su Gesù. Invece, mi è sembrato doveroso farlo proprio perché questo Jesus è così popolare, perché è stato visto e sarà ancora visto da tante persone. Volevo indicare con chiarezza le debolezze del film, perché quando viene visto dal pubblico televisivo oppure presentato in parrocchia da catechisti e capigruppo a volte senza occhio critico davanti a un prodotto filmico così ben confezionato e pubblicizzato, questo film rischia di far accettare un Gesù Cristo sbagliato e falso, così deviando l’attenzione e l’impegno degli spettatori dall’autentico Gesù Cristo, uomo, Messia, Figlio di Dio e infinitamente più interessante, stimolante e attraente del bel Gesù, simpatico e scherzoso, ma in fin dei conti, banale, scialbo e vuoto di questo film.

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