n. 3
marzo 2002

 

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Santità: misura alta della vita cristiana
arte della preghiera

di Giampaola Periotto

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“Chiamate a essere testimoni del primato di Dio,
segno profetico della santità” (Cf NMI, 32)

 

Santità: tema quanto mai intenso e delicato che può essere interpretato nei modi più disparati e quasi equivoci, ma che, nel suo significato più alto, coinvolge tutta la nostra vita. Alla santità siamo chiamati dal nostro apparire nel mondo e, forse, già da piccoli abbiamo compiuto degli atti di santità, ci siamo sentiti amati da Dio e abbiamo corrisposto a tale amore nel modo allora più puro. Anche per noi può essere stata detta la parola di Gesù: «Lasciate che i piccoli vengano a me, non glielo impedite perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio» (Lc 18,16).

Santi siamo diventati con il battesimo, con i sacramenti ricevuti nelle varie tappe della vita e cresciuti con noi.

Ora però parliamo di santità non come sacramentalità, ma come stato di grazia, stato di cari a Dio, come itinerario di vita nella grazia, come pedagogia esistenziale, come conversione e cammino verso un fine, che per noi è pregno di luce, di amore, di gusto della misericordia e della benevolenza di Dio, in comunione con tutti i fratelli e sorelle.

 

 E’ la santità adulta…

quella che conosce anche la lotta fra la carne e lo spirito, che ha forti aspirazioni, contrastate dal male: «…infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto….io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7,15-20).

Se il fine è la immedesimazione con Cristo, la strada deve essere percorsa con quegli atteggiamenti, con quei modi di vita che sono tipici del Verbo Incarnato. La configurazione al Figlio e al Fratello primogenito, venuto tra noi, incarnato nella nostra terra, prende i sentimenti del Servo di un progetto di salvezza per tutto il genere umano (cf Fil 2); sono perciò anche i nostri sentimenti nel limite esistenziale e del tempo, ma che avremo un giorno in assoluto.

Nell’Apocalisse (7,9) si parla della schiera dei santi vestiti di una veste bianca, la veste della risurrezione dopo un martirio, con un nome nuovo scritto sulla fronte, nome che Dio conosce, con il quale Egli li chiama ed è l’attributo che Egli dà anche a ciascuno di noi, l’espressione della parte in cui assomigliamo a Lui.

Nell’Apocalisse si parla ancora di persone che hanno vinto (Ap 21,7), che hanno sostenuto una battaglia nel loro essere di uomini e di donne. Hanno sostenuto con valore, con virtù, la lotta per essere autentici, coerenti uomini e donne, capaci di donare anche la vita: portano infatti una palma nelle mani e cantano un cantico mai udito. Seguono l’Agnello, caricato del peccato dell’uomo (Is 53,3), colpevolizzato (Lev 5,15), assassinato e reso vittima che liberamente ha scontato su di sé la libertà dell’uomo di compiere il male (Mt 27,11…)

Ma ci facciamo ora una domanda: chi sono i santi nella maniera più semplice, quotidiana?

Quando noi vogliamo dire bene di una persona, diciamo: “E’ tanto umana!”. Per cui la santità è autentica umanità, è vivere secondo quel progetto di amore per il quale siamo stati creati.

Un tempo abbiamo imparato l’alfabeto del sacrificio in se stesso, della rinuncia, del lavoro assiduo, dell’attendere solo a noi stessi, del rinnegare la nostra persona, dell’umiliarci fino quasi a perdere la nostra dignità, del lavoro perché l’Istituto avesse un nome, un seguito, un prestigio. Abbiamo anche tanto esaltato la bravura, il saper fare tante cose.

Oggi questo linguaggio non è più “segno” profetico, non è evocativo di santità. La pedagogia della santità parla oggi di lode del fratello, di ringraziamento per quanto abbiamo ricevuto, di ascolto, di benevolenza, di magnanimità anche se nell’altro non è tutto perfetto, di riconoscimento dei doni che possediamo e che hanno i nostri fratelli e sorelle, di accoglienza, di perdono, di desiderio di essere perdonati, di saper perdere del tempo per consolare, di voglia di comunicare, di stare insieme, di sottolineare i doni degli altri ed anche nostri.

E’ rendere vera la affermazione di Gesù: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). E’ perciò la negazione del primato di un “io” che si appella all’autocompiacimento e affermazione per l’ampia e libera apertura a tutto ciò che profuma di comunione, di sguardo buono, sincero, gioioso verso l’altro. E’ riconoscere, infine, che la nostra vita appartiene a Dio, è solo sua e non nostra, è vivere nella felicità dell’amore che si concretizza in queste parole della I Lettera di Giovanni: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli» (3,14).

Così si diventa “segno” della Presenza di Dio. Che tutti possano dire: «Di qui è passata una Suora che ama». Le nostre azioni non sono allora all’insegna del prestigio, ma del “segno” umano e divino nello stesso tempo.

Così vuol dire essere vincitori sull’egoismo, sul protagonismo e ricevere la veste bianca dell’alba della risurrezione, facendo risorgere pure gli altri, annunciando la risurrezione con la nostra gioia, la nostra comprensione e aiuto.

Santità vuol dire compiere azioni che lasciano un “segno” anche come comunità.

In un mondo chiuso nell’individualismo, il saper vivere in comunità, con attenzioni reciproche come in una famiglia, è una grande testimonianza di quella realtà che ci fa star bene.

Vivere in fraternità non vuol dire però fare finta che i problemi non esistano: occorre la trasparenza libera e comunicare come si superano e risolvono tali problemi, quali strategie psicologiche, spirituali, di fede, si mettono in esecuzione, dicendo come ci si perdona, come si comprende e si giustifica, come, nella libertà, non si cade nel “giudizio”: «Non giudicate e non sarete giudicati» (Mt 7,1). Dio allora è al centro della vita.

Nella comunità deve circolare quell’amore trinitario che è parità, reciprocità, attenzione alla persona. La santità è una chiamata per tutti i battezzati, è vita di grazia, è essere cari a Dio e perciò carismatici nel nostro pensare e operare. I consigli evangelici sono per tutti, di per sé non dovrebbero essere “voti”, ma sequela radicale, amorosa della Persona di Cristo:

  • nella povertà, che è sobrietà di vita, non lamento, ma condivisione di ciò che abbiamo, avendo anche meno perché altri abbiano di più; è essenzialità, perché a noi basta Cristo e la manna di ogni giorno, frutto dell’onesto lavoro, della Provvidenza da vivere con altri fratelli e sorelle,

  • nella castità, che è celibato vissuto nella sponsalità  d’amore con Cristo che ci offre, nella tenerezza, tutti i suoi redenti da amare di più, da aiutare, a cui esprimere l’affetto dilatando il cuore, da ascoltare in profondità, con sensi di compassione specialmente verso i più poveri,

  • nell’obbedienza reciproca, fraterna. Dio si manifesta per noi nella comunità, ove c’è una sorella coordinatrice che assieme alle sorelle obbedisce alla Volontà del Padre, cammina come una discepola e, in questo atteggiamento, esprime il suo parere, oggetto della nostra obbedienza, cercata insieme.

Santo vuol dire anche separato…

…ma da che cosa?

Dalla mentalità del mondo che cerca il piacere, il potere, il dominio, i mali nominati da S. Paolo in Galati 5. Nella relazione tenuta in occasione del “grande digiuno” del 14 dicembre u.s. P. Cantalamessa si riferiva a delle astinenze personalizzate, quelle che non escludono le comunitarie, ma sono non viste, compiute nel «segreto della camera, profumandoci pure il capo» (cf Mt 6,8-17). Sono quelle della parola che ricusa ogni espressione che ferisce il fratello per rivolgergli quella che lo aiuta e a darsi un senso nella vita; quelle del pensiero, ancora più difficili.

Riflettiamo infatti un attimo: da quali pensieri siamo attraversati nella nostra giornata? E abbiamo subito una misura di ciò che sta dentro di noi, di ciò che ci occupa, delle idee che si traducono quindi in atteggiamenti di vita.

Non minore attenzione deve essere data alle immagini che facciamo entrare attraverso i nostri occhi, con tempi dati a riviste, a internet e alla TV. P. Cantalamessa, riferendosi alla famosa frase di Feuerbach «l’uomo è ciò che mangia”», adattava alla contemporaneità questa affermazione dicendo: “L’uomo è ciò che guarda”.

 

Cristo è il Santo…

il vero separato dalla mentalità del mondo e, nello stesso tempo, è incarnato totalmente nella realtà dell’uomo. La santità diventa allora incarnazione in questa terra da amare, da condurre, da perdonare, da aiutare a liberarsi dall’indifferenza alle cose vere, dalla schiavitù del male. E’ saper stare accanto all’uomo, alla donna di oggi nei loro problemi di famiglia, nelle indecisioni, nelle disperazioni delle separazioni, dei tradimenti, nella solitudine più amara dell’anziano, della ragazza ingannata e sfruttata, nella paura del bimbo che non sa che cosa gli serbi il futuro.

Siamo chiamate a essere sorelle sante di questa umanità, sorelle che sanno parlare con la voce di Cristo, benedire con le mani di Cristo, perdonare con il cuore di Cristo.

Ma per arrivare a questa interiorità occorre fermarsi con Lui, in una parola, occorre pregare.

Come i discepoli chiediamogli: «Maestro, insegnaci a pregare». Egli forse ci ripeterà il “Padre nostro” (cf Lc 11,2-4), preghiera completa, difficile da vivere, da capire in tutta la sua portata e, tuttavia, ricca di pace e di fiducia. Forse ci insegnerà una preghiera tutta personale, secondo le nostre inclinazioni, indole e bisogni.

Gesù ci farà vedere come e quando Egli ha pregato, perché Egli pregava sempre: i salmi erano sulle sue labbra in ogni circostanza, ritmavano il mattino con le sue aurore, il pieno meriggio, la sera silente, la notte fonda… l’ora della passione.

Le ore preferite da Gesù erano appunto quelle della sera, della notte, quando il silenzio delle cose, degli uomini, degli stessi servizi da compiere, erano nella quiete.

Il giardino degli ulivi era una meta consueta di Gesù (e Giuda lo sapeva!)

Spesso diceva ai “suoi” di staccare la barca dalla riva e di andare “al largo”, in piena libertà da tutto, circondati dall’acqua non solcata da altri, non avendo timore di non essere in quel momento a servizio degli altri. E lì Gesù pregava con gli Apostoli, i chiamati.

Risentiamo qualche invocazione di preghiera di Gesù, perché è solo da Lui che impariamo l’arte di pregare:

“Ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli…perché così ti è piaciuto” (Lc 10,21).

«Ti ringrazio, Padre, perché mi hai esaudito….» (Gv 11,41).

Lo sentiamo in modo particolare nell’ultima Cena, nella sua grande preghiera:

«Padre, conservali nella verità, che siano uno, come tu, Padre e io siamo una cosa sola» (Gv 17…).

«Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma di custodirli dal maligno» (Gv 17,15).

Preghiera profonda, intima, solo con i “suoi”, nell’ora del tradimento e della consegna nelle mani degli uomini e del Padre.

Quindi nel Getsemani:

  • nell’ora dell’accettazione della libertà dell’uomo che lo portava a morire;

  • nell’ora del silenzio del Padre, della solitudine, del peso di tutto il male;

  • nell’ora del “sì” al realizzarsi del progetto di salvezza, proprio in quel terribile modo;

  • nell’ora in cui altri dormono mentre Egli cerca sollievo e si ritrova ancora con il silenzio del Padre, il quale manda un Angelo a consolarlo nell’intensità del dolore, della preghiera per l’umanità.

Egli è profondamente Uomo e Dio in questo momento: nel suo modo di soffrire, nell’essere tentato a lasciar cadere “quel progetto”, infine nell’accettazione piena della Volontà del Padre di salvare l’umanità in Lui.

Sulla Croce:

«Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

«Ho sete» (Gv 19,28).

«Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46).

«Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46).

«Consummatum est» (Gv 19,46).

Sono tutti momenti vissuti anche da noi e sui quali pregare.

La croce ci raggiungerà senz’altro nella nostra vita: la croce è il segno di chi è chiamato: «Quanto a bere il calice, anche voi lo berrete» (Mt 20,23).

In quella chiamata alla piena maturità in Cristo, la persona dice a Dio parole inedite che potranno avere tutto il marchio della carne che si ribella, ma infine chiede a Lui di amare dentro di sé. Noi non siamo capaci, non riusciremo mai, senza la sua grazia, la sua vita in noi, a dire a chi ci ha offeso, riferendoci alle parole di Gesù in Croce:

“Oggi ti darò gioia” – “Padre, perdona mio fratello, mia sorella, e tu, fratello e sorella, perdona me” – “Il mio destino lo affido tutto alle tue mani, o Padre!” – “Prendimi come sono, non ho nient’altro da offrirti, sono figlia di questo tempo, sono assetata di libertà e di verità, ma sbaglio nel perseguirle”.

Come il Pellegrino russo ci sarà cara una litania, lungo tutta la giornata: “Miserere mei… abbi di me pietà… oggi voglio essere libera di amare”.

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